Benvenuti nel sito di Giuseppe Pungitore, dell'ing. Vincenzo Davoli, di Mimmo Aracri ed Antonio Limardi, punto d'incontro dei navigatori cibernetici che vogliono conoscere la storia del nostro meraviglioso paese, ricco di cultura e di tradizioni: in un viaggio nel tempo nei ruderi medioevali. Nella costruzione del sito, gli elementi che ci hanno spinto sono state la passione per il nostro paese e la volontà di farlo conoscere anche a chi è lontano, ripercorrendo le sue antiche strade.

 

RELAZIONE   DELLA   DOTTORESSA  SONIA  VAZZANO

Buona sera a tutti.

Chi mi conosce sa che non sono un’esperta di Storia contemporanea. Ho studiato solo Filosofia.

E allora vi chiederete perché proprio io sia qui a presentare questa sera questo libro.

Non ve lo so dire…

 L’ingegnere Davoli mi ha voluto rendere partecipe di questa sua ‘fatica’ e io ne sono stata felicissima, anche se non mi reputo per nulla un’esperta degli studi che fanno da cornice a queste pagine.

E però, nonostante la mia inesperienza, ho stasera qui la pretesa di ri-leggere con voi questo libro.

Perché siamo di fronte non solo ad una traccia della nostra storia passata, ma ad uno scrigno di emozioni e sentimenti. E di entrambi siamo tutti un po’ esperti...

Durante il mio percorso di studi, mi hanno sempre insegnato che rileggere un testo significa riscriverlo a partire da ciò che tale lettura suscita in noi.

Un libro diventa davvero nostro, se le sue pagine non rimangono alla fine della nostra lettura immacolate.

Se sottolineiamo parole, frasi, paragrafi che ci colpiscono, in questo caso quel libro acquista un senso, ha valore, ha raggiunto il suo scopo insomma.

Ecco, nel rileggere con voi “Buone Notizie e Pronta Risposta” vorrei prima di tutto raccontarvi cosa questo libro ha suscitato in me.

E in che modo io questa sera, alla luce delle emozioni che ho provato nel leggerlo, riesco a riscriverne per voi la storia. O almeno ci provo.

Non ho assistito purtroppo alla presentazione di queste pagine a Pizzo Calabro.

Ho solo dato uno sguardo veloce, pochi giorni fa, ad un dvd che è stato realizzato per l’occasione.

In esso però ho intravvisto volti noti di francavillesi, attenti e a volte anche commossi per le pagine che venivano presentate.

Ho visto l’orgoglio nei loro volti.

Orgoglio di concittadini, di familiari, di semplici conoscenti e amici che hanno riportato alla mente, grazie a queste pagine, pezzi della loro storia trascorsa.

E alla luce di questa esperienza mi sono chiesta: “Cosa dire durante questo intervento qui a Roma?”. Cosa posso dire proprio io ai francavillesi presenti qui stasera, e anche ai romani, di questo libro di e su Francavilla, ma non solo…

Io che a Francavilla non ci sono nata, ma ci sono solo vissuta fin da piccola… e quindi non ho conosciuto né respirato la Francavilla che c’è in questo libro, che c’è nei vostri cuori, soprattutto perché chi poteva raccontarmi qualcosa in merito, i miei nonni ad esempio, non c’erano già più.

E così ho capito che forse potevo ugualmente parlarvi di questo libro, perché queste pagine avevano qualcosa che poteva accomunare tutti i lettori, francavillesi e non.

Non so se ho ragione, ma credo che un testo per non essere autoreferenziale debba riuscire a fare, di ciò che racconta, una storia valida in ogni tempo e in ogni luogo.

Se ci riesce è un buon libro. E può insegnare qualcosa.

Ecco, queste pagine, a mio modesto avviso, ci riescono. E vi dico perché. Così comincio ad entrare nel vivo e a parlarvi di esse.

Volevo iniziare a raccontarvi la mia rilettura di questo testo leggendovi alcune parole che non sono mie, ma di un poeta che si chiama Paul Celan. E che dicono più o meno così.

Stare, all’ombra  /  del segno della piaga nell’aria./ Dalla parte di nessuno e di nulla stare,/ sconosciuto,/ per te / solo. /  Con quanto lì trova spazio / anche senza / linguaggio.

               (P. Celan, Poesie)

               Se contestualizziamo questi versi probabilmente qualcuno penserà non siano adatti ad introdurre il testo di Davoli.

Eppure la stasi, l’ombra, la piaga nell’aria, la mancanza di identità, la solitudine, il silenzio… sono tutte immagini che mi hanno fatto venire in mente la guerra. Lo scontro fra uomini che sta al centro di questo libro e che muove gli eventi e i vari protagonisti.             Se stasera qualcuno mi chiedesse di elencare i punti di forza di questo libro probabilmente sarei in difficoltà, perché non riuscirei davvero ad elencarveli tutti.

Il primo che mi viene in mente, è che si respira, leggendolo, una certa forza che sembra venir fuori da una stesura per così dire ‘comunitaria’.  Cerco di spiegare meglio ciò che intendo con tale termine.

Davoli, fin dalle prime pagine, ringrazia tutti. Tra i suoi ringraziamenti c’è tutta Francavilla. Più di quella presente a Pizzo tempo fa sommata a quella di questa sera.

E avere l’opportunità di dire ‘grazie’ significa aver avuto l’occasione di condividere qualcosa.

È come se questo libro desse voce un po’ a tutti coloro i quali si sono prodigati per la sua realizzazione, autore in testa ovviamente.  Ecco perché la voce narrante non è una solamente. Ma vive di tante voci differenti che si accavallano tra loro in una sorta di parola piena che riesce così a diventare dialogo. Un dialogo in cui anche le cose si fanno parole.

E il merito maggiore di Davoli in tutto ciò è forse quello di riuscire ad intrecciare perfettamente voci diverse e lontane; storia ‘generale’, se così è giusto definirla, e storia ‘particolare’.

In un percorso per cui la storia particolare rivive all’ombra di una storia generale e riesce però, allo stesso tempo, a dare ad essa una nuova luce.

           Una storia diventa nostra, se in essa riconosciamo il nostro particolare vissuto. Così l’immagine della prima guerra mondiale si fa a noi più vicina e più cara, perché la ricolleghiamo a piccole storie che ne hanno però fatto la sua grandezza e che ci toccano da vicino, nonostante gli avvenimenti principali sembrino così lontani da noi.

         Quando ero piccola la mia maestra delle elementari mi insegnava la storia come fosse un avvenimento quotidiano. Come una favola che i genitori raccontano ai loro figli. Come la narrazione di un ricordo che ancora al solo pensiero ti riempie gli occhi e il cuore. E quindi la faceva vivere. Rivivere. Perché la vedevi realmente risorgere nei suoi occhi lucidi quando ne parlava.

                 Questo libro riesce a far rivivere, con quella stessa luce negli occhi, la storia dei francavillesi caduti.

                 E ci avvicina un po’ di più a quella guerra fatta da uomini. I nostri uomini. Quelli che vediamo tutti i giorni per strada. Quelli che bussano alle nostre porte o che incontriamo al mercato. Quelli della domenica a messa. Quelli che ci ricordano che la guerra è nostra, è a noi vicina, anche se a volte sembra lontanissima.

                Francavilla riscopre così la prima guerra mondiale attraverso lo sguardo di coloro i quali partirono per il fronte. E la cosa più bella è che la riscopre attraverso la poesia.

              Vedete, in quelle righe di Celan con cui ho aperto questo intervento contengono la stessa poesia che i militari francavillesi, e non solo, mettevano nelle loro missive.

Con la poesia rivolta ai loro cari ci raccontavano la storia. E noi con la stessa poesia delle lettere raccolte da Davoli la riscopriamo in queste pagine.

               La storia per chi non la ama può risultare pesante e ingombrante. Ma la poesia contenuta nelle lettere raccolte da Davoli in questo libro le fa acquisire una leggerezza inusuale.

  Come è bella la descrizione, ad esempio, che il Tenente Vincenzino Servelli fa al padre Giuseppe della figura dell’ormai scomparso Foca Limardi: “La Patria ci chiamò a sé, e lui italianamente le offrì subito la sua giovine vita. Che cuore d’oro, che perdita impareggiabile! Il 7 agosto ha scritto ha scritto la pagina più fulgida, più bella della sua vita, e Francavilla deve commemorarlo degnamente, orgogliosa d’avergli dato i natali a lui così buono, d’ingegno, su cui erano riserbati i migliori affidamenti. Io piango ancora per la sua vita spezzata a metà quando gli stava sorridendo il più roseo avvenire!” (p. 5).

                 Davoli riesce a mantenere il lettore attento, perché fa rivivere con la stessa passione di studioso quella storia che ha visto protagonisti illustri francavillesi.

                Le pagine che vanno dalla 14 alla 18 contengono una testimonianza originale e originaria di un caduto francavillese che mi ha colpito particolarmente e di cui vorrei parlarvi per qualche minuto.

                Il suo nome è Servelli Domenico, sottotenente di Fanteria nella Grande Guerra. Autore di un manoscritto definito in queste pagine “panegirico di San Foca”.

               Il Santo Protettore francavillese era sicuramente al centro delle invocazioni dei militari al fronte. Il legame di Francavilla al suo Patrono è vivo ieri come oggi; ma in queste righe c’è qualcosa di particolare che colpisce il lettore: è l’abilità di Servelli nel riuscire a parlare allo stesso tempo di religione, di storia e di politica insieme come fossero un’unica cosa. Vediamo in che modo.

Questo ‘panegirico’ si apre con il versetto 51 del Libro del Siracide che recita: “Aiuto e protettore sei stato per me”.

L’invocazione è ovviamente rivolta al Santo, ma si intreccia inesorabilmente con l’esaltazione della patria al pari quasi di una divinità.

Vi leggo alcuni versi del ‘panegirico’ in cui questa tensione è chiarissima: “Più volte meditai perché tanto è cara ad ogni uomo la sua Patria, perché è sì soave il suo nome, perché di tanta copia di affetto ella ci ricolma il cuore. […] Cercai indagare il motivo, e dopo avervi meditato a lungo, mi persuasi che come quell’affetto è più vivo che più per antico tempo si nutre, così quello della patria terra sta innanzi ad ogni altro per ragione delle antiche memorie che desta negli uomini. […] Se per antica eredità di affetti, se per antiche memorie e per quella della nostra fanciullezza è così cara e soave la patria ad ogni cuore che sente, quanto caro e soave all’anima di ogni pio cittadino esser non deve il nome di colui che tien luogo del più antico degli Avi, di colui che antico è quanto la patria stessa, di colui che padre e custode è della patria?... Tale per ogni terra è il Santo sotto la cui protezione ella è posta, tale per noi è Foca! […] Fin qui i due nomi patria e protettore si confondono in uno come aventi lo stesso diritto all’amore e alla tenerezza dei cittadini” (pp. 15; 17).

Come vedete l’esaltazione della Patria si accosta fortemente a quella del Santo Patrono.

        Un altro dei punti di forza di queste pagine è la capacità di riuscire a mostrare le altalenanti emozioni dei soldati al fronte. E ancora una volta, in proposito, facciamo riferimento alla figura di Domenico Servelli e in particolare al suo diario. Davoli raccoglie il manoscritto e ci mostra quanto sia commovente ripercorrere momenti di dolore e di piccole gioie dei militari al fronte, come il non arrivo o l’arrivo delle missive da parte dei loro cari.

Ma nel rileggere questo diario così dettagliato abbiamo una volta di più la prova di quanto gli anonimi diventino assoluti protagonisti. Ogni singolo soldato acquista un valore preciso. E non perché è un francavillese, ma perché è un pezzo della grande storia, sia esso decorato oppure no.

              In questa sua ricerca va sottolineata la minuzia con la quale Davoli raccoglie piantine, si informa dettagliatamente su luoghi specifici, su avvenimenti particolari che possano gettare nuova luce sull’intero intreccio degli eventi. Insomma, la sua celebrazione non risulta mai pedante, ma rende sempre ragione degli accadimenti. Non è perciò una celebrazione fine a se stessa, ma profuma di una razionalità data dagli eventi medesimi.

             I personaggi al centro di questo libro sono in gran parte decorati. Ancora oggi ricordati. Basta pensare alle lapidi presenti al Convitto Filangieri di Vibo Valentia e al Galluppi di Catanzaro. Basta riportare alla mente “La Domenica del Corriere” del giugno 1916, in cui si parla del contrattacco dei valorosi calabresi del 141° fanteria...

              Ma questo ha poca importanza. Anche se non fosse stato riconosciuto il merito e il valore militare dei caduti francavillesi, che Davoli presenta in questo libro, la forza che l’autore riesce a schiudere nelle immagini di questi uomini rimane viva e presente.

Del resto questi stessi uomini furono grandemente celebrati dalle personalità del loro tempo. Lo stesso Domenico Servelli fu ad esempio al centro di un poema dal titolo “L’Eroe poeta. La morte è stata dissolta nella vittoria”, scritto da don Carmelo Foti, parroco della Madonna delle Grazie, allora seconda parrocchia di Francavilla. Ve ne leggo pochissime righe:

                “Ave, eroe! Circonfusa d’immortale

luce, la tua fiorente giovinezza

passa all’eternità dell’Ideale.

Ci arriderà nel simbolo, e per ogni

valle tra i monti e il mare andrà con gli echi

delle patrie canzoni, al par de’ sogni

d’una leggenda, il nome tuo gentile;

come un augurio che fortuna arrechi

l’incideran le vergini al monile.

Così le rime della mia canzone,

celeri come squilli di guerriera

tromba, e via come gli echi del cannone

per tutte le città, per tutt’i i mari

d’Italia, da Trieste alla scogliera

di Scilla, di Morgana agli alti fari,

potessero cantar come d’Orfeo

la portentosa lira: gloria gloria

gloria al nuovo invincibile Tirteo

in cielo assunto eroe dalla Vittoria”. (pp. 69-70).

Il libro di Davoli è pieno zeppo di simili componimenti poetici. Un altro molto bello è “Ricordi e lacrime”, scritto da Tecla, la fidanzata di Servello. Anche di questo, perdonatemi, più che raccontarlo, è meglio che lo lasci parlare da sé: “Quando le campane cominciarono a suonare a mortorio, annunziando la tua morte, mi sveglia dal sogno spaventoso, acquistai la percezione della tremenda realtà. Mi tremava tutta la vita. Fra due ceri accesi posi la tua immagine sopra un tavolino; m’inginocchiai davanti, e piansi, e piansi amaramente. Mi tornavano alla memoria le soavi espressioni delle tue ultime lettere: ‘Io sono contento ed orgoglioso di immolare la mia giovane esistenza per la grandezza della Patria e dal mondo dei beati pregherò per la tua felicità. Se muoio, sappi che ti ho amato con tutta l’anima, ed esalato l’ultimo respiro con negli occhi la tua cara immagine’. Coraggio! Dicesti il giorno della partenza nell’allontanarti da me: - la Patria è una Iddia a cui sacrificare tutto è permesso. E tu, o Micuccio, il fiore dei tuoi venticinque anni, l’amore più forte della tua vita, i sogni d’oro, le gioconde speranza, il tuo delizioso avvenire, tutto sacrificasti sull’altare della Patria per l’amore dell’Italia, per il bene dell’umanità. […] La tua bellissima immagine è sempre davanti ai miei occhi, è scarpellata nell’anima mia, come quando a primavera, ebbro di luce e di profumi, coglievi le viole sui prati fioriti. Ecco, vedi, nell’anima mia accendo la lampada della fedeltà che alimenterò col sangue del mio giovane cuore. Ti amo. Oh! mio cherubino, stendi le tue ali di oro, rapiscimi con te; sii tu l’angelo della mia fede, vestito di candido bisso; sii tu l’angelo della mia speranza, vestito di verde; sii tu l’angelo del mio amore, vestito di porpora. Avvolgimi nei tre ferzi della nostra bandiera, rapiscimi con te!” (pp. 76-77).

          Queste poesie forse meno conosciute sono da Davoli abilmente intrecciate con i grandi della poesia del Novecento: Ungaretti su tutti e le sue celebri “Soldati-Luglio 1916”, “Girovago”, “San Martino del Carso”.

        Vorrei soffermarmi per un momento su un altro dei punti di forza di questo libro e cioè il vasto apparato iconografico. Laddove il linguaggio non riesce a dire, arriva l’immagine. Sono decisamente emozionanti, ad esempio, quelle del cimitero di Bligny. In questo caso si parla soprattutto del soldato Pietro Paolo Buccinnà e nello specifico del legame instauratosi tra Italia e Francia durante la guerra.

Colpisce l’immensa immagine delle croci tutte allineate perfettamente. Tutte bianche. E sullo sfondo una bandiera. Simbolo di una morte per la patria che vale più di mille parole.

               Questa stessa emozione ha pervaso, crediamo, l’autore di continuo nella stesura della sua opera. Anche se Davoli è stato bravissimo a mascherarla. Salvo per tre righe in cui egli scrive con una voce che appare ancora adesso rotta dall’emozione, ricordando il caduto Antonio Carchedi: “Nel settembre del 1994 il sottoscritto con alcuni francavillesi ha visitato Redipuglia; ha reperito la lapide che ricorda il sacrificio del caduto e, commosso, ne ha letto il glorioso nome” (p. 104).

              L’emozione più grande che invece ho provato io è scaturita dalla lettura de “L’Ave Maria in trincea” di Adolfo Zamboni: “Vi è anche per il combattente un’ora di pace e di raccoglimento: quella che accompagna il tramonto. Durante l’interminabile giornata, nei periodi di sosta o di preparazione, il fante lavorava a scavar la roccia, a costruir camminamenti, ad approfondir trincee. La notte era veglia: chi montava di vedetta, chi scendeva a prendere il rancio, chi usciva a fortificare il reticolato; ma nell’ora che accompagnava il tramonto, quando nella Patria che sembrava così lontana le mille campane suonavano l’Ave Maria, allora il combattente si raccoglieva in se stesso e pensava e pregava. Pensava ai cari lontani e nel suo animo si ridestavano i ricordi soavi; si dimenticava le tribolazioni, il lungo calvario e si lasciava cullare da vaghe speranze. Talora, percorrendo le trincee avanzate, si assisteva a uno spettacolo commovente: a gruppi, i soldati erano riuniti, in quest’ora di dolce ristoro, e recitavano il rosario. Ognuno di loro aveva in mano un sacro ricordo: chi percorreva con la mano rossa di fango la lunga fila della corona, chi contemplava un’immagine santa ricevuta con un bacio dalla madre prima della partenza, chi mirava, con gli occhi bagnati di lacrime, il ritratto di qualche persona cara. E tutti insieme recitavano sommessamente l’Ave Maria; i più lontani raccoglievan la voce o ripetevano le ultime parole della preghiera. Così in questi rozzi petti, abituati alla lotta con l’uomo trovava luogo la pietà; in quegli occhi, abituati a veder scorrere quasi con indifferenza il sangue, brillavan le lagrime, appena il pensiero della famiglia si ridestava più intenso nella pace della sera, appena il sentimento della religione li trasportava lungi dal campo della lotta, in un mondo dove domina la pace e la fratellanza. Il sole, tramontando, tingeva di rosso il mare lontano, laggiù verso Grado, dove va a trovar riposo il rapido Isonzo; dietro si stende l’ampia pianura friulana con i suoi ridenti paeselli: ma di fronte stava la morte: le colline del Carso, quando calava la tenebra, apparivano nella loro tetra sterilità e di tanto in tanto si illuminavano sinistramente ai bagliori delle vampate dei cannoni” (pp. 117-118).

                 E giungiamo così all’ultima parte del libro. Così anch’io mi avvio alla conclusione.

Nelle ultime pagine si nota, forse, davvero la dote maggiore di Davoli, che è quella del ricercatore attento e dello storico appassionato. In essa l’autore si preoccupa di mostrare come l’elenco dei caduti morti nella Prima Guerra mondiale, presente al Monumento di Francavilla, non risulti completo. Alla lista mancherebbero altri soldati deceduti nel periodo della Grande Guerra.

                  Davoli non se ne occupa ovviamente in maniera prolissa, ma la sua attenzione è un monito per ogni studioso. Perché non si lasci mai fermare dai grossi volumi, ma abbia il coraggio, alla luce di essi, di ripartire ogni nuovo giorno da zero. Il che non vuol dire dimenticare il passato o farne di esso un uso distorto, ma solo celebrare il presente alla luce di vicende trascorse, che non saranno mai conosciute dall’uomo completamente e proprio per questo necessitano del coraggio di un’interpretazione.

C’è bisogno dunque di un impegno concreto degli studiosi in tal senso. E Davoli, con questa sua fatica, ce lo ha dimostrato.

                 Attendiamo dunque al più presto la prossima.

                  E mi accingo a concludere con due pensieri, che vogliono essere un augurio e un ringraziamento all’autore, di cui mi faccio portavoce indegna anche di coloro i quali hanno avuto la pazienza di ascoltarmi finora.

               L’augurio è lo stesso del titolo di questo libro: “Buone Notizie e Pronta Risposta”; per noi che vediamo ogni giorno piccole e grandi guerre, ma a volte non ne comprendiamo la ferocia, né capiamo quale dovrebbe essere il nostro ruolo in esse.

              Le “Buone Notizie” siano quelle della speranza di una riscoperta continua dell’io attraverso le proprie radici. La “Pronta Risposta” sia il nostro impegno costante, affinché tragedie come quelle della Prima Guerra Mondiale non abbiano più a ripetersi. E a volte ciò è possibile se si dà il giusto peso al passato, ai ricordi, alla celebrazione di chi è stato e ci ha insegnato qualcosa. E questo libro di tutti questi propositi è un fantastico promotore.           

             Il ringraziamento è, concedetemelo, del tutto personale. Ringrazio l’autore che mi ha dato la possibilità di intervenire qui questa sera, ma soprattutto mi ha fatto riassaporare in un modo nuovo la passione che guida da sempre i miei studi, quella per la ricerca. Nella sua raccolta minuziosa di manoscritti e documenti, mi sono rivista anch’io, qua e là per le biblioteche d’Italia e del Mondo alla ricerca di conferme, smentite, tracce, storie.

                E poi un grazie a voi, francavillesi e non presenti qui questa sera. Spero, da queste mie poche parole, di essere riuscita a darvi una lettura, giusta oppure no lo potrete stabilire voi stessi assaporando da soli queste pagine, di un pezzo della nostra storia che ci rimane dentro, nel cuore, che non si cancella e che ci tocca tutti indistintamente, perché coinvolge l’essere umano di ogni tempo e di ogni luogo.

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Per maggiori informazioni scrivere a: phocas@francavillaangitola.com

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