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Periodico di Storia, Antropologia e Tradizioni Fondata da Bruno Congiustì nel 1995
RESTAURO DEL TABERNACOLO LIGNEO DELLA CHIESA MARIA SS. DELLE GRAZIE
Carissimi.
Sono ormai due anni durante i quali la Parrocchia si sta muovendo per intervenire sul ripristino tecnico-artistico del tabernacolo settecentesco ligneo e opera di artisti meridionali, sito nella chiesa di Maria SS. delle Grazie in Francavilla Angitola. Finalmente, dopo i ritardi dovuti ai tempi tecnici – sopralluoghi, richieste di autorizzazioni alle Autorità competenti, ecc. - e alle restrizioni imposte dal Coronavirus, siamo giunti alla fase di realizzazione dell’opera. Il tabernacolo policromo si presenta ormai da tempo ultradecennale, in pessimo stato conservativo. Sono evidenti gli interventi azzardati e spesso improvvisati non si sa da parte di chi, attraverso le pitture usate e chiaramente non idonee ed incompatibili con l’originalità dell’opera, ma soprattutto il grave e profondo deterioramento da parte di agenti atmosferici (umidità) e agenti xilofagi (tarli), polvere depositatasi nel tempo, ecc. che ne hanno corroso e deteriorato tutta la struttura. Ora è venuto il momento di riportare all’originario splendore questo pezzo di arte autentica di proprietà della parrocchia e bene artistico della nostra comunità francavillese che da troppo tempo attende un intervento radicale. In Gennaio i restauratori del laboratorio di restauri “Monastia” di Vibo Valentia, nella persona del sig. Columbro Rosario, ai quali abbiamo affidato i lavori per competenza e per essere avvalorati sia dalla Sovrintendenza che dalla Rev.ma Curia Vescovile di Mileto - lo stesso laboratorio ha già eseguito brillantemente i lavori di restauro del quadro della Circoncisione del Bambino Gesù, presente nella chiesa del SS. Rosario - verranno per prelevare il manufatto e dare corso ai lavori di ripristino. L’intervento verrà a costare circa quattromila euro che non è una spesa esagerata vista la complessità dell’intervento e il valore dell’opera. Abbiamo stampato 250 buste con la dicitura: “Restauro del Tabernacolo Chiesa Maria SS. delle Grazie” in distribuzione presso la parrocchia, alcuni hanno già dato generosamente la loro offerta. E’ la gioia di veder rinascere un’opera come questa ma anche il dovere di dare giusta e dignitosa allocazione al SS. Sacramento ivi contenuto. Ringrazio anticipatamente quanti parteciperanno a questa gara di solidarietà e segno di comunione, ricordandovi che siete voi i fruitori di quanto possiamo realizzare. Un fraterno abbraccio e a presto.
Francavilla Angitola, 26 Dicembre 2020
Il Parroco
Don Giovanni Battista Tozzo
IL NATALE 2020 A FRANCAVILLA ANGITOLA
Francavilla Angitola possiede un luogo di grande suggestione, l’antico rione dei Ruderi a Pendino, una location particolarmente adatta a far da pittoresco scenario di manifestazioni teatrali, di sacre rappresentazioni, di sfilate, di eventi culturali e musicali, di mostre d’arte, di suggestivi servizi fotografici, di spettacoli e feste folkloristiche. Proprio la zona dei Ruderi, con le sue case storiche, con i pittoreschi fabbricati rurali che conservano tante tracce delle attività agricole tipiche del paese (frantoi oleari, palmenti, magazzini del grano e della paglia ecc.) - senza dimenticare i resti dei vecchi mulini ad acqua ubicati a breve distanza da Pendino - ha costituito la meta finale del “Presepe Vivente” ed itinerante che si è svolto, pur con qualche interruzione, nell’ultimo quarto di secolo a Francavilla, percorrendo prima le strade del centro e poi dal “Piano di Brossi” (ora piazza Marconi) scendendo lungo le ripide e tortuose stradine che sfociano alla fine nel largo antistante la chiesa parrocchiale della Madonna delle Grazie. Per questo Natale del 2020, considerato che, a causa della pandemia, non è possibile svolgere il Presepe Vivente, alcuni volontari hanno allestito in piazza G. Marconi delle luminarie eil tradizionale Presepe.
Inoltre l’amico Mimmo Costa, nel suo giardino in viale Kennedy, come da tradizione, ha allestito le luminarie in stile “americano” ed il presepe nella versione classica italiana, melodiosamente ricordata dai canti tradizionali, come il celebre “Tu scendi dalle stelle” di Sant’Alfonso De Liguori. Passeggiando dai corsi Mannacio e Servelli verso il viale del Drago, francavillesi e forestieri possono ammirare le stelle d’argento, le mille luci multicolori, le cascate luminose che, come damaschi variopinti, scendono dai balconi di Casa Costa. Il sottofondo musicale con le melodie caratteristiche delle festività natalizie, italiane e straniere, dà maggiore risalto alla bella e spettacolare visione aggiungendovi note di grande suggestione ed un tocco di magia. Un antico proverbio recita: "NATALE con i tuoi e Pasqua con chi vuoi".E già, perché questa preziosa festività è per eccellenza il momento dell'anno in cui ognuno sente il bisogno di stringersi, più che mai, intorno ai propri cari e alla propria famiglia, un momento in cui, per qualche giorno, si accantonano tutti i dissapori e le incomprensioni perché si sa, il Natale rende tutti più buoni. Dal latino "diesnatalis", il 25 dicembre è il giorno della nascita di Gesù, la festa della bontà, della gioia, della serenità e della fratellanza.
Vincenzo DAVOLI e Giuseppe PUNGITORE
24 DICEMBRE 2020– LA NATIVITA’ CELEBRATA A FRANCAVILLA
Il tradizionale Presepe nella chiesa di San Foca. Come di consueto, la notte della Vigilia il Presepe è stato solennemente benedetto dal Parroco Don Giovanni, che ha deposto nella mangiatoia Gesù Bambino. E’ seguita la celebrazione della Santa Messa
le luminarie Comune di Francavilla Angitola
Nel suo giardino in viale Kennedy Mimmo Costa,
Piazza G. Marconi le luminarie e il tradizionale Presepe.
PERSONAGGI FRANCAVILLESI
Mastro Ciccio Sorrenti con un suo racconto
Articolo di Vincenzo A. Ruperto
Certi personaggi conosciuti, quando si era giovani, mi tornano piacevolmente nella mente, di più quando al ricordo della loro immagine si accompagnano degli episodi piacevoli. Mastro Ciccio Sorrenti, mentre faceva barba e capelli a qualcuno, allora il suo salone era presso una stanza, data in fitto da don Santo Grillo, proprio dove oggi l’amico Claudio Fiumara ha il suo ‘bazar’, intratteneva ì clienti in attesa raccontando qualche ‘faragole’ del suo paese d'origine che era Polia. Il locale era posto tra la piazza M. Solari, il Municipio e l'Ufficio delle Poste allora presso la casa oggi di proprietà del citato re Claudio, proprio sulla parte sinistra imboccando la strada 'Cienzu Scardamaglia' non si sa per quale motivo, forse perché si recava a mangiare qualche fetta di pane spalmato con olio vergine dell'oleificio Costa, ci sarà certamente una biografia e una dettagliata relazione in merito, cosa ovvia e utile; se forestieri o giovani rampolli di famiglia paesana volessero sapere chi diavolo sono i personaggi citati nella toponomastica, rivolgendosi al comune sarebbe appagata la loro sete di sapere. Tornando a mastro Ciccio, ricordo che, mentre il carissimo figlio allievo Vincenzo, allora giovanissimo dal bell'aspetto, somigliante a un attore, tipo Mastroianni, di qualche film in bianco e nero proiettato al cinema Italia di Piazza Santa Maria degli Angeli, lo sostituiva nel farmi i folti capelli e non la barba (Vincenzo, caro amico scomparso a Firenze dove si era trasferito con la famiglia come dipendente scolastico, uomo socievole e sorridente, rispettoso di tutti che non mancava di allietarmi le ore durante l suoi ritorni estivi al paese), raccontava a me e ai presenti una storia, vera in tutto o 'faragola' non ha importanza, qualche seme di verità si riscontra sempre, da farmi tanto ridere e tante volte ho raccontato ad altri facendoli straridere. Non rammento i nomi delle chiese e dei protagonisti e la ‘faragola’ la racconto così, chiedendo scusa se non vi piace, se non vi fa sorridere, se la trovate invereconda, offensiva e via dicendo. Se non altro si rammentano persone, luoghi e altro del tempo passato.
Il racconto.
Per il restauro della chiesa di Menniti, le messe si celebravano Poliolo. Finiti i lavori di restauro, il prete prendeva tempo a inaugurare il rifacimento della chiesa e a celebrare messa. Malcontento, proteste, alla fine dovette cedere, lasciare Poliolo per ritornare a Menniti.
Il sagrestano che era di Poliolo litigava sempre con il prete, figuriamoci per la sua decisione forzata di lasciare la sua chiesa. Una sera, dopo la messa vespertina, si misero a litigare con voce alta e qualche parolina sconcia. A una parola del prete, il sagrestano si trattenne da bestemmiare tappandosi la bocca con il cappello e poi, tutto infuriato lo lanciò in alto verso una parete della chiesa. Attaccato alla parete, vi era un grande crocefisso, Il cappello andò a finire sulla mano sinistra del povero Cristo in croce.
Il prete guardò, rimase in silenzio, andò sotto il crocefisso e disse:
‘ O Cristu, doppu tante pene e tanti affanni.
‘u sagrestanu ti pigghjiàu pe n'attaccapanni.’
( 'O Cristo, dopo tante pene e tanti affanni,
il sagrestano ti pigliò per un attaccapanni.'')
L’indomani era domenica, grande afflusso di fedeli, il prete officiava e il sagrestano lo serviva guardandolo con uno strano sorrisetto mentre stendeva la mano per prendere l’ostensorio. Aperta la porticina, se la sentì fortemente graffiare, vide che vi era un uccello rapace (in dialetto chiamato Cristarièdhu, in italiano Gheppio), il quale, con gli artigli e col becco, gliela rese sanguinante. Chiuse subito lo sportello e, voltandosi verso i fedeli, mostrando la mano sanguinante, ebbe a dire:
‘ Guardàti, lu Cristu s’è arraggiàtu
mùzzica e pìzzica cuòmu nu dannàtu.
Piènzica ca non vòla ccà mu stajiu
e a Minnìti pemmu mi nda vajiu.'
(Guardate, il Cristo si è arrabbiato,
morde e pizzica come un dannato.
Forse non vuole che qua io stia
e a Menniti che me ne vada.)
E guardando il sagrestano, sicuro di essere stato proprio lui il protagonista del sacrilego fatto, sottovoce gli sussurrò: 'dove vai, gran cornuto!'. Il sagrestano, sempre sottovoce, rispose:' dove vai tu, cornutazzo!'
Infatti entrambi si trasferirono assieme a celebrare messa a Menniti.
La Barcunata chiude il venticinquesimo SAN NICOLA DA CRISSA
Il Natale si avvicina e come da tradizione arriva il numero de La Barcunata. Un appuntamento che si ripete dal 1995 anno in cui la rivista ideata da Bruno Congiustì si è affacciata in paese e da quel momento è andata sempre più crescendo, coinvolgendo prima gli emigrati e poi il resto dei paesi dell’area dell’Angitolano. L’edizione Natalizia di quest’anno è stata arricchita di nuovi documenti storici, che puntualmente la redazione ha messo a disposizione dei lettori. Rispetto agli ultimi numeri, l’editore ha dovuto aumentare le pagine a disposizione, portandoli dalle tradizionali 32 a 36, ciò perché gli argomenti trattati sono molti e meritano spazi. Cresce come numero di pagine e argomenti, ma anche come collaboratori, con la rivista che ha superato le 150 unità e non si fermerà certo qui. Per questo sono nati anche “I Diari de La Barcunata”, la pubblicazione mensile online che accoglie le notizie principali provenienti dai paesi della Valle dell’Angitola e dal resto del mondo. Il cartaceo conserva, però il suo fascino e così la redazione, nonostante l’avvento del web, ha deciso di mantenere le canoniche tre edizioni, aggiungendo un numero speciale nell’arco dell’anno. Nonostante la crisi per il Coronavirus, La Barcunata ha mantenuto i suoi appuntamenti con i lettori, a iniziare con l’edizione di marzo 2020 fino ad arrivare all’ultima in fase di stampa. Nell’edizione attuale si parla di Sanità con la seconda parte della storia a San Nicola; di personaggi Sannicolesi, del resto dei paesi della Valle dell’Angitola e della Provincia di Vibo; di emigrazione; dati storici; cucina tradizionale; attualità; letteratura; antropologia; religione e un resoconto dell’anno appena passato. Accattivante anche la prima pagina, con la redazione che ha dato libera interpretazione al lettore.<<Chiudiamo quest’anno – ha commentato l’editore Bruno Congiustì – un po' anomalo per via delle vicende sanitarie, ma noi siamo riusciti a mantenere il nostro impegno con le tre pubblicazioni alle quali si sono aggiunti i Diari e il sito internet. Questo per merito della redazione e collaboratori che dimostrano tutta la loro vicinanza al giornale. Cresciamo ogni giorno, ci rendiamo conto dai numerosi e interessanti articoli che arrivano. Tutto ciò ci rinfranca e ci fa bene sperare per il futuro. La Barcunata ha ancora tanto da regalare ai lettori e lunga vita davanti a lei>>. Il 2020 si chiuderà con il venticinquesimo anniversario festeggiato in maniera sobria, ma che sarà celebrato nel 2021 con la speranza che la situazione sanitaria nel mondo migliori. Nel frattempo il prossimo appuntamento in programma sarà la pubblicazione de “I Diari de La Barcunata”, in programma il 31 dicembre per chiudere insieme l’anno.
Articolo di Nicola Pirone
PERSONAGGI ILLUSTRI : la scrittrice Maestra Ida De Sibio.
Descrivere personaggi del proprio paese, attraverso i ricordi personali è già tanto, descriverli attraverso i loro scritti è rara occasione. Gli scritti sono parole dialoganti con gli stessi ricordi di vita vissuta, che ti portano a conoscere una realtà non vissuta dalle nuove generazioni. La Maestra Ida De Sibio, ha insegnato nelle scuole elementari per quasi tutta la metà del nostro novecento, per lo più nel suo paese (Francavilla) e negli ultimi anni anche a Roma. Credo che pochi francavillesi, come pochissimi suoi alunni e alunne, abbiano letto i pregevoli libri scritti dalla Maestra, come 'Ricordo…', 'Ieri', 'Ieri, oggi' . Il motivo, lo possiamo racchiudere in una sua dedica: 'A tutti i ragazzi della mia Francavilla e particolarmente a quelli che ho avuto di conoscere- Ida De Sibio-'
Vi sono pagine storiche che riguardano l'economia, gli usi, le tradizioni, i costumi. Bellissime pagine personali, come lettere, lei non lo dice ma si comprende, scritte dalla stessa per conto di padri e madri, analfabeti, ai figli e nipoti emigrati. Molto densa di meditazione sul passato e presente la 'lettera di un ragazzo degli anni '50 a un ragazzo degli anni '90'. Il mondo della scuola descritto com'era con lei alunna e maestra (ci tiene a precisare di essere chiamata con questo titolo e non con quello d'insegnante o docente, maestra ha un significato profondo che ti avvicina a quella realtà rurale di un tempo, quando maestri, 'mastri', erano appellati coloro che formavano ragazzi e ragazze per diventare ottimi o buoni artigiani, erano le scuole professionali di allora: sartorie, falegnamerie, calzolerie, quelle dei fabbri, cestai, muratori, tessitrici, agronomi e coltivatori agricoli in genere. Situazioni difficili di lei bambina, di lei ragazza che assiste, nelle notti del 1944, ai bagliori delle bombe lanciate dagli aerei americani sui tedeschi in ritirata. Tempi duri del dopoguerra nella vita quotidiana del paese, con le aule scolastiche improvvisate non solo al centro ma di più nelle contrade di campagna. Tempi duri addolciti in famiglia dalla preparazione e consumo di dolci e cibo tradizionale, e nella comunità dalle tradizioni natalizie con la Strina, pasquali con la Cunfrunta o l'Opera Sacra, le varie cerimonie religiose nelle tre chiese. Mente femminile generosa che ricorso e descrive giochi prettamente maschili, come quello del formaggio che sul viale del Drago, allora adornato con magnifici pioppi, richiamava non solo i numerosi giocatori ma anche tanti ragazzi in attesa che qualche forma si rompesse per poi raccogliere pezzetti di 'pecorino con la lacrima'. Bellissime le pagine sul dialetto, scritte con trasporto di rimpianto benevolo attraverso un dialogo di signore che riportano amicizia di famiglie convicine che fanno intenerire veramente il cuore.
Elenchiamo brevemente i temi dalla Maestra Ida trattati nei suoi scritti.
1)Francavilla, descrizione del paese;2) Natale; 3) L'uccisione del maiale;4) Per la festa di San Giuseppe;5) Dolci; 6) Frutta; 7) Pranzo di gala; 8) Le conserve per l'inverno; 9) L'abbigliamento; 19) L'arredamento della casa; 11) Disinfestazione della casa; 12) Ultimi anni del 1930 e inizi del 1940; 13) L'era fascista vissuta nel paese;14) Inizio fine privazioni; 15) Arrivo della televisione; 16) L'apprendistato; 17) Lavoro ieri e oggi nel paese; 18) La lettura; 19) La nascita dei figli; 20) I suoceri, piaga della famiglia nel passato; 21) Piccoli allevamenti che fornivano la carne alle famiglie; 22) Radio e cinema nel 1930; 23) Rimedi per la salute e per la bellezza; 24) Avviamento all'insegnamento; 25) La Congregazione e l'auto fustigazione; 26) L'Opera Sacra; 27) Preparazione delle ostie per le comunioni; 28) Preghiera dell'uomo a Dio; 29) La vita è bella; 30) Papà; 30) Lettere immaginarie inviate a figli e nipoti; 31 Vocaboli dialetto; 32) L'eroe poeta: Domenico Servelli; 33) La vendemmia, lo zibibbo bollito per uva passita, il vino cotto; 34) Il baco da seta;35) San Foca;36) Conventi; 37) La fiera al Drago;38) L'estate al mare;39) La banda del 1929; 40) Rosario De Caria; 41) Mietitura e donne che andavano a lavorare nel crotonese e tanti altri argomenti:
Alcuni periodi tratti dai suoi libri:
''So soltanto che molti giovani e alcuni adulti sono come le ninfee negli stagni senza radici. Pochi sentono il bisogno di conoscere fatti, usanze, tradizioni, modi di vivere di ieri.
Com'era la realtà nei nostri paesini del sud? A dispetto di tutti, voglio descriverla.
Francavilla era un paese agricolo, le campagne, coltivate principalmente a viti e ulivi, rappresentavano la ricchezza dei proprietari piccoli e grandi.
Ogni mattina la gente se ne andava in campagna a piedi o in groppa agli asini e, dopo una giornata di lavoro, si tornava a casa. Anche i componenti delle famiglie perbene andavano in groppa agli asini, qualcuno in carrozza tirata da un cavallo……
Durante le feste natalizie si facevano le 'zeppole', i 'vecchi' che sono delle palline di farina e patate con dentro alici salate o tonno……
A Pasqua si facevano i biscotti (viscottini), i taralli ricoperti da una crema fatta di bianco d'uovo e zucchero chiamata 'annaspu' e il 'pan di spagna'…….Due giorni dopo moltissimi se ne andavano per la pasquetta, chiamata 'martingàla', nelle campagne vicine o al mare………''
''Il mare è vicino, dista dal paese circa cinque chilometri. Si era abituati ad andare a Praja il giorno dopo San Foca, molti si stabilivano sulla spiaggia notte e giorno sotto tende come i beduini del deserto per quindici o trenta giorni, alcuni avevano delle casette di legno con tutte le comodità, altri vi andavano la mattina e ritornavano a casa la sera con un carrozzone chiamato 'brech' dall'inglese break o 'sciarabàllu' tirato da due muli di proprietà di Antonio Lazzao…'
'' Il costume da bagno per le donne era formato da un paio di pantaloncini fino al ginocchio e da una casacca in nero o in blu di tela che nell'acqua si appiccicava addosso facendo vedere tutte le forme e ci si cambiava subito appena uscite dal mare vestendosi regolarmente.''
'' Il costume tipico francavillese delle donne, che si tramandava da madre in figlia, era formato da una camicia bianca che arrivava al polpaccio, da un telo rosso o amaranto aderente al corpo che arrivava a dieci centimetri circa sopra la camicia bianca, dalla vita scendeva una gonna piegata chiamata 'gunnèdha' che si raccoglieva dietro ai fianchi e formava una specie di coda, davanti, dalla vita fino all'altezza della vita scendeva un grembiule nero, chiamato ' faddalèdha', di sopra s'indossava una camicetta colorata. I capelli erano raccolti in una treccia o in due e formavano una corona o un toupet.''
'' Il gelataio era il signor Cricenti, di quei tempi molto esperto che si faceva portare la neve dalle montagne vicine conservate in buche sotto la paglia al fresco.''
'' un piccolo pullman chiamato 'postale' perché portava la posta, collegava Francavilla e Filadelfia alla stazione ferroviaria di Francavilla.''
E tante altre descrizioni che solo un animo buono e gentile poteva descrivere come una vera Maestra. In questi tristi giorni di pandemia passiamo il tempo, come se fossimo in guerra quando Lei, signora Maestra, guardava, stando in casa, la scia luminosa delle bombe sganciate dagli aerei, oggi le bombe sono composte di virus che seminano morte e grandi dolori. Grazie di cuore per averci dato la possibilità, con la lettura dei suoi scritti, di alleviare le nostre inaspettate sofferenze.
Vincenzo Ruperto
ESTATE "43 : IL BOMBARDAMENTO
Il ritrovamento di un ordigno bellico nei giorni scorsi nelle campagne di Montesanto nel comune di Filogaso, è solo uno dei residuati presenti sul suolo della Valle dell’Angitola. Un altro ritrovamento il 14 febbraio del 2017 in località Montemarello, questa volta nel comune di Maierato e sempre appartenuto alle forze americane. Le due località, Montesanto e Montemarello, distano pochi kilometri una dall’altra e furono tutte colpite da un'unica azione di guerra, denominata “Mediterranean air command”, con gli aerei che avevano il compito di bombardare tutte le vie di comunicazione, i ponti e le torri di avvistamento per tagliare la ritirata alle truppe Tedesche. Il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt e il Primo Ministro del Regno Unito Winston Churchill già nel gennaio del 1942 avevano pianificato l’invasione del territorio italiano puntando sulla Royal Air Force (RAF) e la United State Army Air Forces (AAF) insieme per attivare il “terrorbombing”, detto anche “carpetbombing” e “dehousing”, ovvero bombardamenti sulle città come distruzione materiale. I mesi di luglio, agosto e settembre del 1943 saranno un periodo che vedrà l’area da Briatico all’Angitola lungo la costa tirrenica, e da Mileto, compreso tutto il circondario, fino a Vibo Valentia e nuovamente incrociando verso l’Angitola un continuo bombardamento di strade, caserme, ponti, vie di fuga che fecero retrocedere la fuga dell’avanzata dei panzer tedeschi. Due obiettivi furono prioritari: distruggere l’aeroporto militare di Vibo Valentia contro ogni possibile difesa in volo; il ponte dell’Angitola quanto l’area ferroviaria di Maierato-Francavilla per sbarrare il passo alle truppe tedesche e ai suoi carri armati. Durante le diverse incursioni, 7 solo sull’aeroporto vibonese, furono sganciate migliaia di bombe dai velivoli B-24 e B-26 decollati dalla base tunisina El-Bathan. Il 16 luglio 1943, questi falchi di acciaio fecero cadere sul solo aeroporto vibonese 2760 bombe. Soldati, avieri, civili, Carabinieri morirono sotto le bombe del 14° gruppo Fighter dell’Air Force degli Stati Uniti. Aerei americani B-25 con attività di attacco con bombe e mitragliamento fecero diverse incursioni sull’area dell’Angitola per due volte utilizzando aerei Wellington. Se il primo tentativo fallì completamente, il secondo lasciava comunque spazi al passaggio di automezzi pesanti al punto che è stato necessario programmare sbarco sulle coste di Pizzo Calabro per chiudere a barriera difensiva eventuali passaggi sul ponte dell’Angitola che rimase l’unica via di fuga, ultimo accesso verso Vibo Valentia che resistette ai bombardamenti dal cielo e ai colpi di cannone degli alleati e dei tedeschi. L’Angitola fu registrato “Obiettivo L”: Le operazioni furono guidate dal colonnello Gordon Harrison Austin e alla fine nell’aeroporto vibonese sventolò la bandiera inglese e quella americana messe dalle avanguardie della quinta divisione dell’ottava armata Montgomery. Tra luglio e agosto ai giorni 17 e 18 che videro impegnati nelle due giornate 84 aerei tra Wellington e Mitchelles che inondarono di bombe l’area dell’Angitola, colpendo pesantemente i ponti di Monterosso, località Cellaro nel comune di Capistrano, Centofontane e Abate a San Nicola da Crissa. Alcuni di loro, furono minati e distrutti parzialmente per essere nuovamente ricostruiti nel 1945. Tra gli avieri anche un emigrato capistranese, Michele Tucci. I ritrovamenti di questi ultimi anni sono solo una minima conferma di quanto accaduto e riportato nei libri, altre bombe che non hanno raggiunto il bersaglio dovrebbero riemergere dai terreni.
di NICOLA PIRONE - GIUSEPPE CINQUEGRANA
PERSONAGGI ILLUSTRI DELLA MIA FRANCAVILLA
Mastro Raffaele Fanello
Articolo di Vincenzo Ruperto
Spesso del mio paese, assieme ai luoghi, mi appaiono nella mente amiche figure di persone che hanno lasciato in me, credo non solo, il segno di una vera identità paesana.
Tante volte ho preso penna per scrivere storie di persone che mi hanno sorriso, dato una mano, una gioia desiderata, un racconto della loro gioventù a me ragazzo, giovane e adulto. Difficile avere un aiuto di foto dei familiari, di biografie correttamente e brevemente da citare. Poi lascio la penna e non continuo a scrivere, pensando con amarezza che a nessuno interesserebbe sapere di tizio e di caio, di me con i momenti di vita passata con tizio e con Caio. Per me, oltre ad essere una personale presenza attiva nell'agorà dei social media, è un grande desiderio di comparare l'identità del passato con quella del presente, identità di usi, costumi, tradizioni, tempo vissuto tra gioie e dolori, insomma tra tempeste e serenità che si alternano nelle stagioni che offre la vita. ……Tralasciamo.
Mastro Raffaelle Fanello lo ricordo come falegname ed ebanista, quando già era un arzillo anziano. Novantenne aveva capelli più neri che bianchi, comunque folti, e i denti ancora forti e bianchi. Dopo avere bevuto qualche bicchiere di vino, dopo aver fatto visita alle cantine, da Sotto la Piergola di don Nicola De Caria a quella della rivendita di don Foca Fiumara a Pendino, si accostava, stando in piedi, allo sbocco di via Lungoborgo tra le case Ruperto e Teti. Saltellando sorridente recitava versi e, da sornione, narrava vicende della sua vita passata. In gioventù confidava di essere stato un ruba cuore, un giovane desiderato da belle donne nei paesi, dove era stato emigrato, addirittura forse anche a Cuba, secondo quanto lui diceva, precisamente all'Avana, forse per questo ogni tanto maldestramente fumava qualche mezzo sigaro. La moglie era una pia donna che non si faceva notare, apparteneva a una nota famiglia francavillese, quella dei Barbina, credo che si sia mossa raramente dalla casa paterna, ancora oggi, sui ferri del balcone, vi sono le lettere A e B (Antonio Barbina, padre anche di Domenico sposo di mia zia Enrichetta Aracri), la ricordo vagamente per averla vista, qualche volta, seduta sul balcone di casa che si affacciava dietro il Vico Corso Nuovo. Dei due figli, il più grande era emigrato in una città del nord e non si è più visto tornare al paese, il più piccolo fu il mitico Micuzzu, impiegato comunale con varie mansioni, da usciere a servizi di ordine e manutenzione della casa comunale. Micuzzo, merita uno scritto a parte, per la memoria che rappresenta tra i personaggi della Francavilla che non è più.
Tornando al ricordo di mastro Rafiele.
Una volta capitò che una signora andasse a trovarlo nella sua bottega, sempre aperta, per chiedergli qualche chiodo. Arrivata sull'uscio, cominciò a chiamarlo, ma lui non rispondeva, rispose invece la nuora dal balcone:'' aspettate che scendo io e i chiodi che cercate ve li do io.'' Appena scesa entrarono entrambe nella bottega. La signora, inorridita vide mastro Rafièle steso in una bara come fosse morto, in verità dormiva beatamente smaltendo la sbornia. La povera signora si mise a gridare: '' Fuoco mio, don Rafièli è morto!'' Ma don Raffaele, svegliatosi per le grida, si vide risorgere dalla bara.
La ruga di Tafuri fu sempre un luogo molto conosciuto e frequentato dai francavillesi, era la ruga, come lo è tuttora, dove s'innestano Corso Mannacio e via Garibaldi, Vico Corso Nuovo e quelle del Lungoborgo. Ai tempi di mastro Rafièle era affollata per le famiglie Monteleone-Simonetti, Lazzaro, Bonelli, Limardi, Ferro, Bilotta, De Caria, Galati e, prima che fosse edificato l'edificio scolastico, vie erano le scuole elementari alle case dette degli Enrichi (Caria) e Petrocca, vi era Foca Bilotta calzolaio e stimato musicante in varie bande, vi fu dopo, in fondo al vico che portava al Lungo borgo, la falegnameria di mastr'Enzo De Caria.
Don Rafièle non partecipava animosamente alle baraonde elettorali, allora molte rissose. Quando qualche amico passava, lo salutava, stante lui sull'uscio della bottega, dicendogli di andare a sentire un comizio, lui canticchiando rispondeva:'' Cu parra don Nicola? 'U ciarmatùri de sièrpi vinna menu alla parola.'' (Chi parla don Nicola? L'incantatore di serpenti venne meno alla parola, cioè alle promesse'').
Mastro Rafièli era musica e voce, il cui canto rallegrava la gente di Tafuri e non solo. Ora tutto tace, nessun suono che rallegra si sente a Tafuri, cuore dell'Adierto (parte altra del paese), ora sono veramente morti tanti rioni, resta qualcuno ma moribondo.
DISSA MASTRU RAFIELI.... Spampinàru cuòmu hiùri l’allegrìzzi e li dolùri, chiù non siènti e non vìdi nènta chi àva ‘u dìcia o fàcia ‘a gènta, chiù non rìdi non ti spùtti ca de tùtti ti strafùtti, de cu càmpa e de cu mòra chiù non dìcu na palòra, aspièttu ccà sùlu e mùtu mu mi mèntanu nto tambùtu, vèna l’ùra ‘u na cogghìmu e ciangìra non avìmu. Bòtta ‘e sàngu mu nci pìgghia a cu vèna ‘u mi risvìgghia quàndu duòrmu nto tambùtu po’ vìnu c’aju mbivùtu. ------- Sbocciarono come fiori le gioie e i dolori, più non senti e non vedi niente cosa dice o fa la gente. più non ridi e non ti sfotti perchè di tutti ti strafotti di chi vive e di chi muore più non dico una parola, aspetto qua solo e muto perchè mi mettano nella bara, viene l'ora di morire e piangere non dobbiamo. Colpo di sangue che ci pigli (ictus) a chi viene a svegliarmi quando dormo nella bara per il vino che ho bevuto.
Vincenzo Ruperto ( da Canti, Chianti e Risi)
Al professor Vito Mannacio il premio “Eroe 2020” della Filitalia International
SAN NICOLA DA CRISSA – Un premio per chi si è contraddistinto in azione quotidiane nell’affrontare l’emergenza Coronavirus, sarà assegnato domenica 20 dicembre a Philadelphia, negli Stati Uniti, da parte della Filitalia International & foundation guidata da Paula Bonavitacola e fondata dal dottor Pasquale Nestico. Nell’elenco dei 9 “Eroi”, 5 Americani e 4 Italiani, figura anche il professor Vito Mannacio, professore associato dell’università e cardiochirurgo al policlinico Francesco II di Napoli. La candidatura al premio di Vito Mannacio è stata avanzata dal chapter di Vibo Valentia della Filitalia International, guidata da Nicola Pirone, che analizzando una serie di candidature fatte pervenire dai soci, ha deciso di candidare il noto cardiochirurgo per i meriti acquisiti nella gestione del Coronavirus all’interno del proprio luogo di lavoro, ma anche dando assistenza gratuita ai suoi concittadini in un momento difficile, tanto da ideare l’apertura di un ambulatorio all’interno della struttura di Villa Sara, per visite a costo zero. Il dottor Vito Mannacio è professore associato presso il Dipartimento di Chirurgia Cardiaca, Scuola Università Unica dell'Ufficio di medicina e Chirurgia Federico II, Napoli, Italia e nel corso della sua carriera ha ricevuto numerose onorificenze alle quali si va ad aggiungere una nuova internazionale. Nel 1979 ha ricevuto la sua laurea in Medicina e Chirurgia alla seconda Scuola Medica di Napoli, con specializzazione in Chirurgia generale nel 1984 e in Chirurgia cardiovascolare nel 1990. Nel biennio 1982 al 1983 ha conseguito una borsa di ricerca nella chirurgia cardiaca pediatrica presso l'AcademichMedichZentrum ad Amsterdam e nel 1985 è stato nominato presso il Dipartimento di Chirurgia Cardiaca della Scuola Università dell'Unione europea e della chirurgia. A fare compagnia al professor Vito Mannacio in questo speciale premio ci saranno il capitano della Polizia di Philadelphia, Louis Campione; Michele De Castro, infermiere professionale della Thomas Jefferson Università Hospital; George Bochetto, direttore sanitario di chirurgia sempre in Pennsylvania; Geno Merli, professore di Medicina e Chirurgia alla Thomas Jefferson Medical College; dottor Paolo Ascierto, Direttore dell'Unità di Melanoma, Immunoterapia contro il cancro e terapia innovativa dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione “Pascale” di Napoli; Lucia Errico, infermiera dell’ospedale "Umberto I" di Nocera Inferiore e il Direttore dell'Unità di Medicina di Laboratorio, dell’ospedale "Antonio Cardarelli" di Campobasso dottor Massimiliano Scutellà. Per il centro della Valle dell’Angitola, arriva così un nuovo riconoscimento internazionale, dopo le borse di studio e il premio alla residenza Villa Sara per come ha contrastato il Coronavirus. Intanto, i sanitari del territorio e chi si è impegnato nel supporto della popolazione saranno premiati nell’iniziativa che la Filitalia International chapter di Vibo Valentia organizzerà il prossimo mese di agosto alla presenza del dottor Pasquale Nestico.
Dichiarazioni
Dottor Pasquale Nestico – Fondatore Filitalia International & foundation: “Il premio della Filitalia International & foundation celebra tutte quelle persone che sono state coinvolte in prima persona con la crisi del Covid-19 e su altre questioni di rilevante interesse pubblico e della salute. Insieme ai presidenti dei chapter americani e italiani abbiamo deciso l’assegnazione in base ai meriti, poiché la Filitalia premia sempre le eccellenze, in particolare in questo momento difficile, con uomini e donne che rischiano in prima persona pur di salvare vite umane”.
Nicola Pirone – Presidente Chapter Vibo Valentia Filitalia International: “La candidatura e la successiva premiazione del professor Vito Mannacio – hanno fatto sapere dalla Filitalia International di Vibo Valentia - è un messaggio che si vuole lanciare al mondo, quello di investire nelle eccellenze locali e soprattutto per chi si occupa di sociale. Vito Mannacio ha trasmesso a questo chapter la massima solidarietà verso il prossimo, partecipando a eventi come quello della scorsa estate e promuovendo insieme l’iniziativa delle visite gratuite. A questi si aggiunge il profondo legame con la sua terra di origine”.
“Il Soffio del Bene” (Autore Vincenzo Varone)
LO SPIRITO DI MAMMA NATUZZA CONTINUA A SOFFIARE FORTE TRA LE COLLINE E GLI ULIVETI DELLA SUA PARAVATI. Recita la canzone: ”BEN ARRIVATI, BEN ARRIVATI, MIEI FIGLI AMATI"
Nel libro viene raccontato a undici anni dalla sua dipartita terrena il cammino lungo le vie della Fede di NatuzzaEvolo, morta in odore di santità il primo novembre del 2009 e proclamata Serva di Dio nel 2019.
Lo spirito di Mamma Natuzza continua a soffiare forte tra le colline di Paravati. Lungo il “Viale della Salvezza”, dove si affaccia con le braccia aperte e accoglienti il Cristo vestito di bianco, fino alla grande chiesa della “Villa della Gioia” per proseguire poi fino alla cappella della Vergine Maria, dove la mistica riposa, i pellegrini, i viandanti, i suoi figli spirituali e i tanti cercatori di Dio continuano a sentire la sua materna protezione.
A poca distanza da via Umberto - il luogo dove ha sede la Fondazione “Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime”- a passo veloce ci si ritrova nel giro di appena qualche minuto nei quartieri “Lupa” “Marina” e lungo “A Calata a cruci”, autentici luoghi della memoria, dove i muri delle vecchie case, consumate dalle intemperie, dall’abbandono e dall’usura degli anni, raccontano nel loro struggente polveroso silenzio il sudore di intere generazioni di contadini dediti al lavoro e allenati al sacrificio e alla privazioni. Luoghi dell’anima, dove la piccola Fortunata, figlia di questi vicoli dimenticati dall’uomo ma benedetti da Dio, era solita dare quel poco che aveva agli altri bambini del posto che sbucavano magri e affamati, ma dignitosi nei loro sguardi curiosi e smarriti, da ogni angolo . A volte solo un pezzo di pane. L’abbiamo già scritto più volte, la miseria in quegli anni regnava sovrana. La povertà era la compagna inseparabile del popolo governato.
In questi stessi posti che sanno di mattinate pensose, di pomeriggi torridi e muti, di nottate stanche e dolorose, una donna anziana dal viso antico - tra i pochi testimoni ancora rimasti della prima metà del secolo breve - continua a ripetere a più di un pellegrino che il soffio del bene di cui Natuzza si è fatta portatrice sin da bambina non si cancella ma rimane scolpito nel cielo a futura memoria. Parole vere che toccano il cuore.
Ad un tiro di schioppo un’altra donna, con zaino in spalla e con il rosario tra le mani - giunta da chissà dove e afflitta da un inconsolabile, questo è certo, dolore - prega senza risparmio nel meriggio solitario di una giornata d’estate come tante all’angolo della chiesa dell’Addolorata nel cui presbiterio svettano, quale segno di una Fede che si tocca con mano, gli affreschi dei quattro evangelisti, opera del pittore locale Eugenio Colloca. La donna ha i capelli biondi e ariosi, le occhiaie vuote e il volto scavato. All’improvviso quasi indispettita da chissà quale oscuro pensiero si terge la fronte dal sudore e con il passo lesto di chi è abituato alle lunghe e solitarie camminate scompare dal paesaggio di questo piccolo lembo di terra guardato a vista da secolari alberi di ulivo che circondano la terra di Natuzza. A pochi passi un uomo anziano del posto, con sulle spalle curve gli attrezzi del “massaro”, arranca silenzioso lungo la salita. Il suo passo fiero e doloroso è la somma della fatica dei tempi andati della gente di qui tra gli uliveti e i frutteti a ridosso del fiume Mesima.
Al centro del paese si trova la chiesa della Madonna degli Angeli - il luogo dell’incontro e della religiosità pulsante della Comunità, dove Mamma Natuzza era solita incontrare decine di pellegrini all’uscita della sacre funzioni sin dai tempi del canonico don Clemente Silipo e dei suoi moderni successori don Pietro Gallo, don Salvatore Sangeniti e don Pasquale Barone - che continua a vegliare come sempre sul popolo di Paravati e sui tanti viandanti che qui giungono quotidianamente da ogni dove per liberarsi dai lacci dell’angoscia, dal gozzovigliare osceno della società dei consumi e dalle mille capriole del grande carnevale della vita di ogni giorno, dove il profitto, l’apparire e il chiacchiericcio pettegolo dominano la scena e gli ingranaggi della società. Succedeva al tempo dei borboni. Successe al passaggio di Garibaldi. Succedeva ai tempi del fascio. Stesso andazzo con l’austero De Gasperi e a seguire con il quasi intramontabile Andreotti e il rampante Craxi. Così è oggi. Così, probabilmente, sarà domani. Lo scenario non muta. Il “mazzo” continua ad essere composto dai soliti furbi privi di rossore.
Sulla via Nazionale, un piccolo gruppo di giovani immortala, incurante del caldo quasi insopportabile, la piccola casa in cui Natuzza ha vissuto buona parte della sua vita di sposa, di madre e di dispensatrice di parole buone e giuste. L’abitazione è chiusa, ma i suoi muri è come se parlassero. I suoi muri raccontano gli incontri, le preghiere, le sofferenze, le conversioni e quasi si muovono nel turbinio dei ricordi e nel susseguirsi di una sfilza di pensieri affannosi. Dolori antichi si mescolano alle litanie del tempo che fu e alle anime dei morti che qui sono figure familiari. A me sembra quasi di vedere, avvolta dal suo eterno e mai spento sorriso, mia sorella Carmelina e uno per uno le tante figure che popolavano questa via di Paravati che ho sempre considerato la parte più importante della mia vita.
Un ritorno alla letizia e al candore interrotto ogni tanto dal rumore scipito e scomposto che tenta di fasi largo sulla scena. A seguire una serie di vecchi ricordi si incrociano con le parole di Fortunata Evolo (“Benvenuto figlio mio”) e alle preghiere di ogni giorno: dall’”Ave Maria piena di grazia il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetta è il frutto del tuo seno Gesù” al “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”.
Uno strano sentimento attraversa il cuore di chi assiste a quella visita giovanile e all’apparenza spensierata. Poi all’improvviso si leva un alito di vento. Il corpo trova ristoro, i pensieri diventano lievi e nell’aria restano i segni di un mistero segnato dalla Fede. Una Fede autentica che va oltre la superba analisi della ragione e al di là del pittoresco clamore cercato per fare audience, per catturare applausi effimeri o come si usa dire oggi, nell’era dei social, per guadagnare like. Una Fede che viene dalla gente, dalla sofferenza e che diventa unguento in grado di lenire le ferite del corpo e dello spirito di questo nostro tempo inquieto. Recita la canzone: “Ben arrivati, ben arrivati, miei figli amati. Ben arrivati, qui sotto il colle di Paravati”. Ma Natuzza - che si è sempre considerata “un verme di terra” - ci raccomanda. “Non cercate me. Alzate lo sguardo verso Gesù e la Madonna. Io sono con voi e prego”.
IL QUOTIDIANO DEL SUD 22-11-2020 ARTICOLO DI FRANCO VALLONE
PER LA DIPARTITA DI FRANCO APOSTOLITI
A nome dei tanti amici, residenti od originari di Francavilla Angitola, che hanno avuto modo di incontrare, conoscere, apprezzare Don Franco Apostoliti nelle diverse funzioni da Lui onorevolmente espletate di Amministratore comunale, di militante politico, di Dirigente dell’Ospedaletto filadelfiese, di Presidente della Biblioteca comunale di Filadelfia, i redattori del sito www.francavillaangitola.com Vincenzo Davoli e Giuseppe Pungitore esprimono le loro sentite condoglianze, non solamente ai congiunti dell’illustre Defunto, ma a tutta la comunità di Filadelfia.
L’incredibile storia di Salvatore Nesticò, il resuscitato di Sant’Andrea dello Jonio
Quella di Salvatore Nesticò è davvero una storia straordinaria, anzi doppiamente straordinaria. Nesticò nasce nel 1953 a Sant’Andrea Apostolo sullo Jonio. Sin dalla nascita Salvatore aveva un problema, la forte esigenza di bere ed urinare in continuazione e, per la medicina dell’epoca, questi sintomi portavano dritti ad una diagnosi precisa ed univoca: diabete. Il medico condotto del paese un giorno si rivolge ad un collega di Catanzaroe questo gli suggerisce di provare con un nuovo farmaco che doveva arrivare dall’America. Aveva appena 4 anni Salvatore nel 1957 quando, per questo problema, il medico lo sottopone ad una visita presso il proprio ambulatorio. Il bambino era in compagnia della nonna paterna, il medico gli inietta la fiala di medicina ‘mericana, insulina, in fase sperimentale. Il bambino dopo questa puntura viene riportato a casa da nonna Rosa; la madre è ancora in campagna a lavorare. Salvatore dopo mezz’ora inizia a non sentirsi bene, sale al piano superiore della casa e si corica sul letto. Verso le 14.00 rientra la madre e non vedendolo chiede alla suocera: «dov’è Salvatore?» La nonna non dice nulla della puntura, risponde dicendo: «Salvatore è di sopra, si è sentito male e si è coricato». Quando la madre sale al piano superiore trova il piccolo sul letto, Salvatore è freddo come il ghiaccio, immobile, con gli occhi chiusi e non respira più, non dà alcun segno di vita. Le urla della donna inondano improvvise le strade di Sant’Andrea. Accorrono i vicinie qualcuno manda a chiamare il medico, che arriva in un attimo, lo visita è comunica alla nonna: Rosa, togli Salvatore dalle braccia di sua mamma, perché il bambino purtroppo è morto, il medico redige il certificato di morte accertata. Qualcuno dei parentisi reca nella vicina falegnameria e compra una baretta di colore bianco. Sistemano il corpicino del bambino con un vestitino, una coroncina del santo rosario tra le manine, e lo mettono sopra un lenzuolo, nella bara disposta al centro della stanza, su di un tavolo. Poi inizia il triste e mesto tempo della veglia funebre e il via vai della gente del paese dentro la piccola stanza, con amici e parenti che piangono e danno le condoglianze. Nonna Rosa ammantata di nero non si sposta un attimo dal piccolo; lo veglia di continuo e lo accarezza. Il tempo si ferma, arriva lenta la sera e poi la notte. Salvatore sta inerme, tra fiori, candele e lacrime di pianti. Sono le 4 del mattino, la nonna tiene ancorala testa del piccoloavvolta tra le sue mani, quando improvvisamente si accorge di un movimento degli occhi. Lancia un grido, il piccolo viene tolto dalla bara con tutto il lenzuolo funebre e viene poggiato sul letto. Salvatore si sveglia tra l’incredulità dei tanti presenti, si siede in mezzo al letto e, rivolgendosi alla propria madre, chiede: «aMà, perché ci sono tutte queste persone e perché piangono?» La madre risponde con un’altra domanda: «a Sà, da dove vieni?» è a questo punto che Salvatore raccontadi essere stato in una località impervia della zona, «c’era un grande prato in fioreassolato di luce», poi racconta di aver visto «centinaia di bambini che giocavano a pallone e, su un ’albero e a mezz’aria, c’era un signore con i capelli bianchi e lunghi, vestito di celeste e con un bastone in mano», che lo chiama e gli dice: «Salvatore, non è qua il tuo posto, vai dalla mamma». Salvatore, il piccolo bambino morto per quasi sedici ore. La sua “seconda morte” Nesticò la racconta così: è il 1964; un giorno esce in mare con degli amici poco più grandi. Sulla battigia prendono in “prestito” una barca, che è di proprietà del sindaco del paese, e si recano al largo, a 40 metri dalla rivavi è una secca, un fondale basso dove si tocca con la punta dei piedi. Tutt’attorno alla secca c’è un gradone ed il fondale varia improvvisamente sui 15 - 20 metri di profondità. Gli amici di Salvatore conoscono la sua storia, con fare goliardico, quel giorno lo buttano in acqua, lo calano, come si dice in dialetto, per scherzo.«Toizendavaffanculu, e mi buttano in mare – racconta–,tantu tu no’mmori!». I ragazzi lo lasciano in acqua, lo abbandonanoe se ne tornano remando a riva. Salvatore a questo punto decide di tornare a nuoto, racconta: «mi metto a nuotare, ma faccio solo 10-15 metri», poi il racconto prende, a questo punto, una svolta inattesa. Salvatore dice, che quando galleggiava nel fondo marino, a pancia in su, d’aver visto, in alto, l’orlo dell’acqua in superficie con il suo corpo inerme, e – allo stesso tempo –, dall’alto del mare, galleggiare, in profondità, il suo stesso corpo! Si trattava, dunque, di uno sdoppiamento di personalità, che il protagonista non riesce, in nessun modo, a spiegare. Pensavo in me: «Signore questa volta mi devi tenere». Rimango in uno stato di benessere e rilassamento. Intanto gli amici arrivano a riva, trovanoil sindaco eriescono a raccontare a malapena, ansimanti per lo spavento, tutto l’accaduto, gli riferiscono che è successa una disgrazia, che Salvatore è caduto in acquaed è andato giù come un sasso inghiottito dai flutti, nel mare trasparente dello Jonio catanzarese.A questo punto il sindaco e dueragazzi diciottenni che erano in spiaggia si precipitano in acqua con la stessa barca a remi, accompagnati da uno dei ragazzini colpevoli della calata, per cercare Salvatore. Passano veloci i minuti ma sono ormai troppi. Dopo aver individuato e raggiunto il posto descritto riescono finalmente ad avvistare Salvatore, il mare è calmo,trasparente, e si vede la sabbia di sotto, il piccolo è in fondo, immobilee a pancia in su. I due giovani diciottenni si tuffano in acqua e cercano di scendere, vi è una profondità di circa 12 metri, il recupero è difficoltoso. Al terzo tentativo, ormai stremato dalle forze, uno dei giovani riesce a scendere sul fondale, a raggiungere e recuperare il piccolo Salvatore; lo porta in superfice e lo adagia sul fondo della barca. Il bambino non respira più, sono passati 35 lunghi minuti, troppo tempo per sopravvivere. Lo portano a riva e lo mettono a testa in giù, due dita in bocca, ed il bambino butta abbondante acqua salata dalla bocca, poi si riprende improvvisamente come se niente fosse e fugge via veloce come una saetta. Percorre, in pochissimo tempo, una ripida strada in salita, dal mare al paese, fino a Sant’Andrea superiore. Il sindaco, in auto, si reca velocemente a casa dei genitori del ragazzino, per raccontare il fatto appena accaduto, ma Salvatore, a piedi, è arrivato inspiegabilmente primadi lui…. È già a casa, ancora una volta “resuscitato” inspiegabilmente. Da allora la storia e la vita di Salvatore è strapiena di fatti incredibili, di una guarigione repentina e inspiegabile, di uno spostamento, nel 1995, di 85 chilometri di strada percorsi in soli 10 minuti, di incontri molto particolari e di visioni lungimiranti. Salvatore Nesticò nel marzo del 1973 è stato convocato da un team di 7 esperti ricercatori e sottoposto alla prova della famosa macchina della verità, presso l’Università Bocconi di Milano, con esito positivo. «Finita la registrazione –racconta oggi Nesticò–mi hanno confermato la verità e mi hanno detto: abbine cura e fede, perché tu sei stato in quella dimensione».
Franco Vallone
LE RICORRENZE DEL DUE E DEL QUATTRO NOVEMBRE
AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
In quest’autunno del 2020 le due ricorrenze civili e religiose del “2 Novembre-Commemorazione dei defunti” e del “IV Novembre-Festa dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate”, entrambe profondamente “sentite” e assai partecipate dalla comunità francavillese, sono state notevolmente ostacolate dalle restrizioni imposte dal graduale diffondersi, anche nei Comuni limitrofi, del famigerato coronavirus. Il 2 novembre, per disposizione del Vescovo di Mileto,Mons. Luigi RENZO non è stato possibile celebrare davanti la Cappella del cimitero la tradizionale Messa in suffragio delle anime dei defunti; né si sono visti quei francavillesi, emigrati nel Centro-Nord, che nel periodo dei Santi, dei Defunti e dei Caduti erano soliti tornare in paese per onorare i parenti defunti collocando personalmente fiori e lumini sulle tombe dei loro cari.
Ugualmente per la ricorrenza del IV Novembre sono state annullate le tradizionali cerimonie commemorative; tuttavia nel primo mattino di mercoledì 4-11-2020 il Sindaco, avv. Giuseppe Pizzonia, ha voluto rendere omaggio a tutti i francavillesi Caduti in guerra, collocando in loro onore una corona d’alloro sul Monumento in piazza Santa Maria degli Angeli, come documentato dalle fotografie scattate da Giuseppe Pungitore.
VINCENZO DAVOLI
Qui di seguito si allega il testo del discorso che il Sindaco Pizzonia, avrebbe voluto pronunciare presso il Monumento ai Caduti, qualora la cerimonia si fosse svolta nella maniera tradizionale.
Un caloroso saluto a tutti,
quest’anno a causa della pandemia Covid-19 per la ricorrenza del 4 novembre non abbiamo invitato le scolaresche, niente gonfalone, non c’è la banda e la cerimonia è molto spartana.
La pandemia Covid-19 non ci permette e non ci possiamo permettere di creare assembramenti che possano contribuire in qualche nodo alla diffusione del virus nella nostra piccola comunità.
È prassi che ogni anno il Sindaco per questa cerimonia faccia un discorso per ricordare il senso, il valore e l’importanza di questa ricorrenza, per non dimenticare le tante, tantissime, vite umane spezzate dall’odio della guerra, ma anche dal desiderio e dagli ideali di materializzare principi e valori altissimi, nobili, tanto nobili da sacrificare appunto la propria vita. Quest’anno mentre riflettevo su cosa dire, pensavo come il mondo e la vita stessa siano connotati da qualcosa di ciclico: il 4 novembre1918 ha rappresentato e rappresenta, nonostante siano passati ben 102 anni, il raggiungimento della completa unità nazionale con morti e distruzioni, oggi per evitare contagi e morti cerchiamo di attuare la “regionalizzazione” dell’Italia; dobbiamo stare divisi, lontani.
Ringrazio i nostri eroi per quello che ci hanno lasciato e speriamo che da lassù preghino per noi per aiutarci ad uscire dalla pandemia.
Anche nel 2020 stiamo affrontando una guerra, una guerra silenziosa, dove non sono i tuoni dei mortai ad annunciare la morte, ma il suono delle campane delle Chiese che rimbombano in paesi ormai semi deserti a comunicare i decessi dei tanti contagiati.
Pensando al 4 novembre non posso non ricordare le battaglie più significative e più dolorose che gettarono le basi per l’Unità d’Italia.
La battaglia sul fiume Piave, che vide marciare il nostro esercito coraggioso verso l’Austria; battaglia che fu una delle più gloriose della storia d’Italia: costò all’Austria 150.000 uomini. Ma anche la sconfitta di Caporetto del 1917, allorquando le truppe italiane ebbero l’ordine di arretrare. La battaglia di Monte Grappa dove si decisero le sorti della guerra. La poderosa offensiva scatenata dagli austriaci nel giugno 1918 si disgregò contro l’eroica resistenza degli italiani e le divisioni nemiche vennero sconfitte e incalzate dalle nostre valorose truppe.
Ma oggi come allora,le nostre Forze Armate hanno un ruolo decisivo che con grande sacrificio e senso del dovere permettono una convivenza civile e pacifica su tutto il territorio della Repubblica. In questo momento di pandemia hanno un onere in più: quello di salvaguardare gli Italiani dalla diffusione del nemico Covid 19; questo lo fanno insieme ai tantissimi medici, infermieri, volontari che ricordo e ringrazio con grande ammirazione e rispetto per il duro e complesso lavoro che ogni giorno hanno svolto e svolgono per salvare di vite umane.
Dunque, in questo momento storico caratterizzato da una pandemia a carattere mondiale e dove tutte le nazioni si stanno attivando affinché il corona virus venga bloccato, ancora una volta le Forze Armate assumono un ruolo importante e determinante in quanto attraverso i controlli fanno sì che la epidemia in atto venga circoscritta. Viva le Forze Armate, Viva la Repubblica, Viva l'Italia.
Francavilla Angitola 04.11.2020
Il Sindaco
Giuseppe Pizzonia
RANIERI Giuseppe – UN CADUTO FRANCAVILLESE ASSOLUTAMENTE SCONOSCIUTO
(ricerca di Vincenzo Davoli)
Fino al 24 ottobre 2020 erano stati individuati 26 militari di Francavilla Angitola deceduti durante la 1^ guerra mondiale. Nella 1^ lapide commemorativa, collocata sulla facciata della chiesa del Rosario il 5 marzo 1923, furono incisi i nominativi di soli 16 francavillesi Caduti in quella guerra. Successivamente sulla nuova lapide del Monumento ai Caduti di tutte le guerre, inaugurato a Francavilla il IV novembre 1968, i nomi di quei 16 deceduti nel 1°conflitto mondiale furono inframmezzati, in ordine alfabetico, con i nomi dei militari francavillesi morti o nella guerra d’Etiopia (1936-37) o nella 2^ guerra mondiale. Nel voluminoso libro conosciuto come “Albo d’Oro” contenente i nominativi dei militari calabresi Caduti nella guerra 1915-18, vennero elencati 25 francavillesi, cioè i 16 già noti e 9 “dimenticati”. In verità il Comune di Francavilla Angitolalamentava la morte nella 1^ guerra mondiale di un altro suo figlio, il soldato Vincenzo Bilotta (deceduto il 7-09-1918), non incluso nell’Albo d’Oro dei Caduti in quanto considerato disertore. Di conseguenza nel Monumento ai Caduti di Francavilla attualmente risultano commemorati 26 militari deceduti nella 1^ guerra mondiale, di cui 16 sono segnati nella lapide del 1968 e 10 sono riportati su una seconda lapide collocata nel 2017.
Il 24 ottobre scorso, per una coincidenza assolutamente imprevedibile, mentre cercavo di reperire notizie sulla data e sul luogo di decesso di un francavillese emigrato negli Stati Uniti nel secondo decennio del ‘900, ho invece trovato trascritto sul registro comunale degli atti di morte del 1921 il nominativo di un altro militare francavillese Caduto nella 1^ guerra mondiale. Il 17-03-1921, l’allora segretario comunale di Francavilla, Giuseppe Servelli, trascrisse al n° 1, parte II, serie C, del registro degli atti di morte, il testo integrale dell’atto inviato al Comune di nascita da parte del Ministero della Guerra – Direzione generale Leva Sottufficiali e Truppa. RANIERI Giuseppe, iscritto nel registro atti di morte in tempo di guerra del 4° Reggimento alpini, a pag. 81 e al n° 79 d’ordine. Anno 1918, giorno 28 settembre nel Comune di Novale mancava ai vivi alle ore 8,45 e in età di 31 anni il soldato Ranieri Giuseppe, del 4° Alpini, nato a Francavilla Angitola, provincia di Catanzaro, figlio di Antonio e di Fruci Maria, ammogliato con Ruscio Rosa, causa di morte =, sepolto nel cimitero di Novale.
In verità per tutti i francavillesi il suddetto Caduto nella 1^ guerra mondiale è un perfetto sconosciuto, in quanto il cognome “Ranieri” non appartiene a famiglie di Francavilla, e perché nell’Albo d’Oro dei militari calabresi Caduti nella guerra 1915-18 non figura alcun soldatodenominato “Ranieri Giuseppe di Antonio, nato a Francavilla Angitola”.
Nell’atto di morte sopra riportato leggiamo che Giuseppe Ranieri era morto nel 1918, all’età di 31 anni; ne derivache egli dovevaesser nato nell’anno 1887. In effetti sia nel registro nascite dello Stato Civile di Francavilla, sia nel libro dei battesimi della parrocchia di San Foca, troviamo registrata nel giugno 1887 la nascita di un bimbo di nome Giuseppe partorito da FRUCI Maria. Riportiamo brevemente come venne denunciata all’Ufficiale di Stato Civile la nascita del bambino. Il 14-6-1887 la ventitreenne Maria Fruci, filatrice, dichiarò all’Ufficiale di Stato Civile, Michele Solari, che dalla sua unione con un uomo celibe e non parente, era nato il 10 giugno 1887, alle ore 6 pomeridiane, nella casa di piazza Annunciata 5, a Francavilla Angitola, un maschio, cui diede il nome di Giuseppe. Il neonato fu iscritto al n. 27 del registro nati dell’anno 1887 con il nominativo di FRUCI Giuseppe.
Molti anni dopo, e precisamente il 01-06-1911, di fianco alla registrazione della nascita di Giuseppe, fu apposta questa interessante annotazione: Fruci Giuseppe, figlio di RANIERI Antonio fu Giorgio da Pizzo, e di FRUCI Maria fu Francesco da Filadelfia, è stato legittimato dal padre naturale Antonio Ranieri, per susseguente suo matrimonio con Maria Fruci, celebrato il 24-03-1902 nel Regio Consolato italiano di Alessandria d’Egitto. L’annotazione ci fornisce informazioni importantissime su entrambi i genitori e sul loro figlio Giuseppe. Si scopre che nessuno dei genitori vantava origini francavillesi; la madre Maria Fruci era di Filadelfia; il padre, Antonio Ranieri, era invece di Pizzo. Il nome del nonno paterno, Giorgio, identico a quello del Santo Patrono di Pizzo, conferma chiaramente l’origine pizzitana di questi “Ranieri”. In conseguenza del summenzionato matrimonio celebrato in Alessandria d’Egitto nel 1902, il pizzitano Antonio legittimò, con il suo cognome Ranieri, il figlio Giuseppe che era nato il 1887 a Francavilla dalla sua unione con Maria Fruci. Oggi ci sembra strano che il matrimonio tra Antonio Ranieri e Maria Fruci sia stato celebrato nel lontano Egitto anziché in qualche paese di Calabria, come Francavilla, Filadelfia, Pizzo o altro Comune limitrofo; forse Antonio, come tanti pizzitani, lavorava come marittimo a bordo di navi mercantili, e quindi non gli sarebbe stato molto difficile raggiungere lo scalo portuale d’Alessandria d’Egitto e sostare per qualche tempo in quella grande città, dove peraltro abitavano tantissimi italiani. Infatti, tra il 1865 e i primi anni del Novecento, diverse migliaia di italiani si erano trasferiti stabilmente in Egitto, nella regione del delta del Nilo, tra Alessandria e Suez, attratti dall’opportunità di partecipare, in primo luogo ai lavori di costruzione, e poi alle attività di gestione del Canale di Suez; pertanto non si può escludere che nei primi anni del Novecento i nostri Antonio, Maria e Giuseppe Ranieri abbiano soggiornato per qualche tempo in Egitto, ad Alessandria e/o dintorni.
Dopo il 1° giugno 1911 (data dell’annotazione che conferma la legittimazione del figlio Giuseppe fatta da suo padre Antonio Ranieri) non c’è nessuna traccia scritta ufficiale (né civile né religiosa) che riguardi quel giovane Giuseppe, nato a Francavilla il 14-6-1887. È bene precisare che nel 1911 Giuseppe Ranieri compiva 24 anni e quindi aveva un’età idonea per contrarre matrimonio; ma nei registri di matrimonio civile o religiosodi quel periodo (1905-1918) non risulta che a Francavilla siano state celebrate le nozze tra Giuseppe Ranieri e Rosa Ruscio (questo è il nominativo della moglie che venne menzionata nell’atto di morte del medesimo soldato Giuseppe Ranieri). Né tantomeno è stata registrata l’eventuale nascita di qualche figlio dei coniugi Rosa Ruscio e Giuseppe Ranieri. Considerato il cognome della consorte, “Ruscio”,sembra più probabile che il matrimonio tra Rosa e Giuseppe possa essere stato celebrato a Filadelfia o a Polia, Comuni nei quali il cognome Ruscio è maggiormente diffuso, o addirittura a Pizzo, paese d’origine dei Ranieri.
Non potendo disporre del Foglio matricolare del nostro Soldato, che descrive dettagliatamente le diverse fasi del suo servizio militare e indica i vari fronti di combattimento in cui egli era stato impegnato, l’analisi critica dell’atto di morte ci fornisce comunque alcune informazioni interessanti. Giuseppe Ranieri partecipò alla guerra 1915-18 come Soldato semplice del 4° Reggimento alpini. Per il coraggio dei suoi uomini e la condotta eroica dei suoi reparti, il 4° Alpini nella 1^ guerra mondiale meritò la Medaglia d’oro al valor militare e 4 Medaglie d’argento. Il glorioso Reggimento aveva due motti distinti: uno in latino “In adversa, ultra adversa” (cioè Nelle avversità, oltre le avversità) ed uno più popolare, in dialetto settentrionale “Mai strac!”, ossia “mai sfinito dalla fatica”. L’unica località indicata nell’atto di morte è NOVALE, Comune autonomo fino a maggio del 1924 (quando fu aggregato a Valdagno), situato in provincia di Vicenza. In questo paese, sito 3 chilometri a nord del centro laniero di Valdagno (famoso per l’industria Marzotto), in diverse fasi della guerra si fermò a riposare un battaglione del 4° Alpini, denominato “Monte Levanna” o più semplicemente “Levanna”. È probabileche il nostro Giuseppe Ranieri appartenesse proprio al “Monte Levanna”, uno dei battaglioni del 4° Rgt. Alpini, dove il soldato francavillese era arruolato.
Se davvero fosse stato arruolato al Btg. “Levanna” l’alpino Ranieri avrebbe potuto partecipare alle prime scaramucce contro gli austroungarici di maggio 1916 ai piedi del monte Pasubio. Poi a luglio e agosto 1916 il battaglione fu spostato in Val Pòsina (prov. Vicenza) sul versante orientale del Pasubio, dove rimase fino a metà dicembre. Il “Monte Levanna” scese per la prima volta a Novale il 27-12-1916 e vi restò a riposo fino al 21-01-1917. Da lì il battaglione fu trasferito nella Vallarsa, versante occidentale del Pasubio (ora prov. Trento), dove fu impegnato a rafforzare le nostre linee di difesa. Poi il 1° marzo il Btg. “Levanna” dalle montagne scese a Recoaro (Vicenza); quindi a fine aprile fu trasferito in Venezia Giulia nella valle del fiume Isonzo. A maggio 1917 il battaglione fu impegnato in asperrimi combattimenti sul Vodice, regione montuosa a sinistra dell’Isonzo; per il valore dimostrato dai suoi alpini in quegli scontri furiosi al Btg. “Monte Levanna” fu conferita la Medaglia d’argento al valor militare.A giugno 1917 fu rispedito sul fronte del Pasubio, nelle posizioni dell’Alpe Cosmagnon. Dopo aver respinto a luglio e ad agosto alcuni attacchi degli austroungarici, il Btg. restò su quelle posizioni per tutto l’autunno e l’inizio dell’inverno. Il 12 febbraio 1918 finalmente poté scendere a riposare, di nuovo nel paese di Novale, dove si fermò fino al 9 marzo. Dal 9 marzo fino al 4 aprile tornò a presidiare le posizioni ai piedi del Pasubio. Il 4 aprile ridiscese a Novale, dove gli furono aggregate forze fresche (240 uomini di complemento ed una compagnia di mitragliatrici). Ai primi di luglio il “Levanna” fu rimandato a rafforzare le linee montane dell’Alpe Cosmagnon, ma vi subisce dolorose perdite per l’eccesiva vicinanza delle opposte trincee, italiana ed austroungarica.
Il 15 agosto il battaglione ridiscende a Novale; poi mentre alcuni manipoli si spostano in Vallarsa ed altri scendono a Recoaro (20 settembre), l’alpino francavillese Giuseppe Ranieri, rimasto a Novale, vi morì il 28 settembre 1918, appena 38 giorni prima dell’armistizio del IV Novembre.
Purtroppo nell’atto di morte non è indicata la causa del decesso, e neppure è specificato il luogo (casa, caserma, infermeria …) dove G. Ranieri cessò di vivere alle ore 8,45 del 28-09-1918. A mio modesto parere mi sembra improbabile che il soldato Ranieri sia deceduto in seguito a ferite riportate in combattimento, perché in tale caso poteva essere ricoverato in qualcuno degli ospedali allestiti nelle vicine città di Valdagno, Recoaro, Schio e non lasciato nel paesino di Novale. Se invece fosse deceduto per malattia, io non escluderei che egli sia rimasto vittima della febbre “spagnola”, che proprio all’inizio d’autunno del 1918 cominciava ad infierire sia tra le file dei combattenti della Grande Guerra, sia tra la popolazione civile di tutto il mondo.
Vincenzo DAVOLI
OGNISSANTI ….. BUON ONOMASTICO A TUTTI QUANTI!
In tutta l’Italia, ma soprattutto nel Centro-Sud, è molto diffusa l’usanza di festeggiare le persone care (parenti o amici) e porgere loro gli auguri di “buon onomastico!” nel giorno in cui cade la solennità religiosa del Santo che porta lo stesso nome del festeggiato. Siccome però certi nomi personali sono “adèspoti”, cioè non hanno il loro “Santo” in calendario (questo capita soprattutto per i nomi stranieri o per quelli mutuati da personaggi di successo del mondo del cinema, della televisione, della musica, dello sport), in molte località l’onomastico delle persone, che portano questi nomi “singolari” e “strani”, viene festeggiato il 1° novembre, in quanto giorno di Ognissanti, cioè di tutti i Santi In questo scritto ci occuperemo di due categorie ristrette di nomi propri:a) nome di persona corrispondente al nome dell’abitante di una città;
b) toponimi di paesi della Calabria che sono anche nomi propri di persona.
NOME di PERSONA EGUALE AL NOME dell’ABITANTE di una CITTÀ
Al momento abbiamo trovato solo i seguenti casi:
FIORENTINO = abitante di Fiorenza (antico nome di Firenze), festa al 14 febbraio.
GAETANO = cittadino di Gaeta (provincia di Latina), festa al 7 agosto.
LOREDANA = donna di Loreto (provincia di Ancona), festa al 10 dicembre
MADDALENA = donna di Magdala, nome greco di un villaggio della Galilea, detto in ebraico “Migdal”, cioè “torre”.
PADUANO = uomo di Padua (antico nome di Padova). Questo nome fu talvolta usato al posto di “Antonio”, quando si voleva affidare la protezione del bimbo battezzato non al Sant’Antonio abate egiziano (patrono degli animali e famoso per il medicamento che guariva dal “fuoco di Sant’Antonio”), bensì al frate francescano di Lisbona, veneratissimo in Italia e conosciuto come Sant’Antonio da Padova, la città veneta dove aveva trascorso gran parte della sua vita e dove poi fu sepolto. Portava tale nome “Paduano Mannacio” che fu sindaco di Francavilla nel 1594-95. La festa religiosa cade ovviamente il 13 giugno.
ROMANO = cittadino di Roma, festa al 28 febbraio.
TRENTINO = cittadino di Trento, adespota.
TRIESTINO = cittadino di Trieste, adespota.
I due ultimi nomi personali ebbero un certo successo nel periodo della Prima guerra mondiale, al termine della quale le due città furono unite all’Italia. Chi porta tali nomi può festeggiare l’onomastico il 1° novembre.
Invece non teniamo conto di altri nomi personali di durata effimera, legati soprattutto alle vicende coloniali, come Tripolino, Bengasino, Asmarino eccetera.
TOPONIMI CALABRESI EGUALI A NOMI PROPRI DI PERSONA
Al 1° gennaio 2019 in tutta la Calabria c’erano 404 Comuni; in 60 dei loro toponimi compaiono esplicitamente i nomi di Santi; in 54 casi (che per brevità non elenchiamo) il nome del Santo sta all’inizio del toponimo (ad esempio: San DEMETRIO Corone; San PIETRO a Maida); in 6 casi (che qui invece riportiamo) il nome personale sta alla fine e funziona da apposizione:
-Motta San GIOVANNI (Reggio Calabria)
-Motta Santa LUCIA (Catanzaro)
-Serra San BRUNO (Vibo Valentia)
-Sorbo San BASILE (Catanzaro)
-Torre di RUGGIERO (Catanzaro)
-Villa San GIOVANNI (Reggio Calabria).
In Calabria ci sono inoltre 30 località, tra Comuni e frazioni, il cui toponimo coincide casualmente con un nome proprio maschile o femminile, raro o diffuso, antico o moderno:
-AMATO- Comune in prov. di Catanzaro – festa di Sant’Amato il 13 settembre.
- BELLA – Frazione di Lamezia Terme – nome frequente tra le donne ebraiche – adespota –festa eventuale il 1°novembre.
- BIANCO – Comune in pr. di Reggio Calabria – nome rarissimo; più diffuso il femminile Bianca, con festa il 2 dicembre.
- BOVA – Comune in pr. di Reggio Calabria – antico nome celtico, con festa religiosa al 24 aprile.
- BRANCALEONE – Comune in pr. Reggio C.- nome antico, reso famoso dal celebre film – adespota (1° novembre).
- CIANO –Frazione di Gerocarne (VV) – diminutivo di Luciano, che si festeggia l’8 gennaio.
- CLETO – Comune in pr. di Cosenza – raro, è il nome del terzo Papa di Roma, con festa religiosa al 26 aprile.
- DIAMANTE – Comune in pr. di Cosenza – nome femminile adespota; più frequente la versione “Diamantina”.
- FABRIZIA – Comune in prov. di Vibo Valentina, che assunse tale nome in onore del feudatario, principe Fabrizio
Carafa; il 22 agosto si festeggia San Fabrizio.
- FILADELFIA – Comune in prov. VV – è la versione femminile di Filadelfo, santo che si festeggia il 10 maggio.
- San Giovanni in FIORE – Comune prov. CS –Fiore è un nome sia maschile, sia femminile. Come nome maschile si
festeggia il 31 dicembre (San Fiore di Catania).
- FIRMO– Comune prov. CS – è la versione antica del nome Fermo, che si festeggia il 9 agosto.
- GASPERINA – Comune in pr. CZ – Diminutivo di Gaspara, femmin. di Gaspare – festa di San Gaspare il 28 dicembre.
- GERMANO – Villaggio di S. Giovanni in Fiore (CS) – festa di San Germano d’Auxerre il 31 luglio.
- GIOIA TAURO – Comune prov. RC –Il nome Gioiaè poco frequente; esiste anche il nome Tauro, anche se è rarissimo.
Pertanto il Comune della Piana è legato a due nomi, uno femminile e l’altro maschile, ma entrambi sono nomi adespoti.
-GIOIOSA Ionica – Comune prov. RC – Gioiosa è un nome raro e privo di Santa – Si può festeggiare il 1° novembre.
- MARINA di GIOIOSA Ionica– Comune provincia RC – Il toponimo contiene due nomi femminili;riguardo a Gioiosa
vale quanto scritto sopra; Marina si festeggia il 18 giugno.
-MARCELLINA –Fraz. di Santa Maria del Cedro (CS)- Marcellina, sorella di Sant’Ambrogio, sifesteggia il 17 luglio.
- MELISSA – Comune prov. Crotone – essendo adespota si festeggia il 1° novembre.
- MILETO – Comune prov. VV- Si conosce una sola persona con questo nome, Mileto Manzù, figlio del famoso scultore
Giacomo Manzù – Nome adespota.
- MIRTO Crosia – Comune prov. CS – Mirto, nome rarissimo, versione maschile di “Mirta”, è adespota.
- PAOLA – Comune prov. Cosenza. Si festeggia il 26 gennaio (Santa Paola romana) o l’11 giugno (S. Paola Frassinetti).
- REGINA – Fraz. di Lattarico (CS) – Si festeggia il 1° luglio o il 22 agosto.
- Accaria ROSARIO – fraz. di Serrastretta (CZ). Si festeggia il 7 ottobre, festa della Madonna del Rosario.
- Corigliano-ROSSANO – Comune prov. CS – Il nome Rossano è famoso per l’attore Rossano Brazzi – Adespota.
- SILVANA Mansio – Villaggio turistico di Serra Pedace (CS) –Il 4 maggio si festeggia San Silvano.
- SORIANO Calabro – Comune in provincia di Vibo Valentia- Il nome Soriano, desunto dal convento di San Domenico
di Soriano è abbastanza noto in Sudamerica. La festa di San Domenico venerato a Soriano si celebra il 15 settembre.
-Vibo VALENTIA – Valentia, versione latina di Valentina o Valenza, era un nome femminile discretamente diffuso nella
Francavilla dei secoli XVIII-XIX. La festa di Valentina o Valentia si celebra o il 15 luglio o il 25 luglio. Se non si tiene conto dell’accento, i toponimi di altre 3 località calabresi sono uguali a nomi personaliben conosciuti.
-CIRÒ – Comune del Crotonese – Togliendo l’accento si legge “Ciro”, Santo festeggiato il 31 gennaio.
- CIRÒ MARINA – Comune del Crotonese –Prescindendo dal primo accento, dal toponimo completo si ottiene un nome
maschile, Ciro (festeggiato il 31 gennaio) e il nome femminile Marina (festeggiata il 18 giugno).
- LAZZÀRO – Frazione di Motta San Giovanni (RC), l’accento cade sulla seconda sillaba –Se si sposta l’accento sulla
prima sillaba, si legge LÀZZARO, nome dell’uomo resuscitato da Gesù; l’onomastico di Làzzaro si celebra il 29 luglio.
Vincenzo DAVOLI
COMUNE DI FRANCAVILLA ANGITOLA
PROCLAMAZIONE LUTTO CITTADINO PER LA PREMATURA DIPARTITA DEL PRESIDENTE DELLA REGIONE CALABRIA ON. JOLE SANTELLI.
PROCLAMA
il lutto cittadino per l'intera giornata del 16 ottobre 2020 durante la quale avranno luogo i funerali
DISPONE
l'esposizione della bandiera a mezz'asta
INVITA
I cittadini e le attività commerciali ad esprimere, in forma autonoma, la loro partecipazione al lutto, in segno di rispetto in occasione delle esequie che avranno luogo nella Chiesa di San Nicola in Cosenza il giorno 16 ottobre 2020 alle ore 16.30.
FRANCESCO CIPRIOTI ORGOGLIO DI REGGIO
Nei giorni scorsi alla Capitaneria di Porto di Reggio Calabria si è tenuta , rispettando le disposizioni anti coronavirus , la cerimonia per la nomina del Contrammiraglio (CP) Francesco CIPRIOTI a Presidente Onorario del Gruppo dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia di Reggio Calabria . Il riconoscimento è stato conferito dal Presidente Nazionale Ammiraglio di Squadra Paolo PAGNOTELLA.
Presenti alla cerimonia il Direttore Marittimo della Calabria e Basilicata Tirrenica Capitano di Vascello (CP) Antonio RANIERI ,il Consigliere Nazionale ANMI Cav. Pasquale COLUCCI , il Delegato Regionale ANMI Avv. Paolo APICELLA , l’ing. Nicola PAVONE Presidente coordinamento Associazioni d’Arma di Reggio Calabria.
Alla iniziativa presenti anche i Presidenti dei Gruppi ANMI di : Reggio Calabria ,Scilla , Siderno ,Gioia Tauro , Trebisacce e Ferruzzano .
Ranieri, Colucci , Apicella e Pavonenei loro brevi interventi , hanno messo in luce la professionalità , generosità , disponibilità , sensibilità e collaborazione che hanno scandito l’operato dell’Ammiraglio Ciprioti.
L’attestato di nomina è stato letto e consegnato dal Direttore Marittimo RANIERI , la tessera di Presidente Onorario è stata consegnata dal Presidente del Gruppo ANMI di Reggio Calabria AQUILINA mentre il distintivo di carica è stato consegnato e affisso sulla giacca dal consigliere nazionale COLUCCI.
L’Ammiraglio Ciprioti visibilmente emozionato ed onorato ha ringraziato tutti i presenti che hanno contribuito a dare lustro e significato alla cerimonia . Un grazie particolareè stato rivolto all’ Ammiraglio PAGNOTELLA che nel corrente mese lascerà la Presidenza Nazionale dopo aver espletato 3 mandati consecutivi.
L’Ammiraglio Ciprioti a conclusione del suo breve intervento ha voluto ricordare con un applauso coloro che sono salpati per l’ultima missione:
Natale DE GRAZIA -- Medaglia d’Oro al Merito di Marina ;
Pietro SALSONE --- Direttore Macchina Navi Traghetto e Socio ANMI di Reggio Calabria ;
Candeloro CALABRO’ --- già Socio ANMI del Gruppo di Reggio Calabria .
DALLA TIMPA DEI MOLINI A TALAGONE
Vincenzo A. Ruperto
' Che noioso, rompe sempre con i suoi scritti, adesso si occupa pure delle antiche fontane e degli antichissimi luoghi, cose vecchie che non interessano a questa nuova generazione, cose vecchie più della gramigna di Santotodaro…'.
Più vecchio della gramigna di Santotodaro, è il superlativo per eccellenza usato dai francavillesi per indicare persone o cose la cui età si perde nella notte dei tempi.
Talagone con la sua fontana, è più vecchio di questa famosa gramigna (interessa sapere il motivo di questo detto? In altra occasione).
Nei documenti antichi, specialmente in quelli del 1600 e 1700, il toponimo esisteva, tanto è vero che frati agostiniani di Santa Maria della Croce possedevano uno dei più importanti molini ad acqua (ancora esistono i ruderi con le mura). Il fondo sottostante a Talagone si chiamava Maricello, attuale Luchi (così denominati nel tempo presente per la famiglia di Luca Simonetti che lo deteneva in proprietà (ancora oggi è posseduto dagli eredi di questa famiglia). Il torrente è sempre il Drago che è denominato come le località attraversate.
Parlando del Drago, in altro scritto, spiegavo l'esistenza di questo toponimo, come eredità greco-bizantina assieme al culto di San Foca Martire. Anche il toponimo Talagone ci riporta a quell'eredità. In dialetto dicesi Talafùni e non Talafùri, come giustamente osserva Gerald Rohlf. Quel vizio che hanno alcuni nostri esimi dialettologi, di mettere la lettera –r come fosse 'petrosino' per ogni minestra', è umano sino alla curva e diabolico proseguire oltre (scrivono – Francavidra, Zitèdra ecc., ma iàti duva avìti mu iàti, la –r l'usano i gghiègghiari nel loro bellissimo idioma). Era facile associare il Talafùri a Tafùri, ma Tafuri è cognome veramente esistito. Era di un cittadino nicastrese che, nel 1743, si trasferì per aver contratto matrimonio con una 'pendinòta' poi diventata ' dirtòta', non è una novità.
Tornando a coppi. Talagone e Maricello. Maricello piccolo mare, non perché vi fosse stato qualche lago simile a un piccolo mare, bensì perché vi era stato veramente il mare (età paleolitica o neolitica). testimoniato dalle numerose rocce di duro tufo piene di conchiglie dei molluschi marini, in dialetto 'nguòngoli', rocce ancora esistenti lungo la vecchia strada che univa la famosa Timpa dei Molini a Talagone e la sua fontana. Detta Timpa, i francavillesi della mia età che guardano solo il tramonto, la chiamavano 'Timpa e Sotto la Timpa' sotto il trappeto Costa e sopra una vasta grotta poi coperta, come altre, dai muraglioni antiscivolo, Trattasi precisamente del terminale a scendere del vicolo dell'Annunziata, ove era parte della vecchia casa Solari e dove i briganti del Bonelli massacrarono quasi l'intera famiglia di questo prestigioso casato francavillese (altra interessante storia da scrivere), che ora, per consiglio esaudito di un carissimo amico defunto, si è dernominato in Vico Ciènzu Scardamaglia (poteva essere ricordato e commemorato, forse più degnamente, dedicandogli altro sito, non quello di Vico Annunziata- Lungoborgo o Vico della Timpa dei Molini. E' una mia considerazione, forse peregrina e non viziata da risentimenti verso amministratori e alcuni amministrati).
E allora, perché Talagone, Talafuni? Non sono un archeologo, mi piace seguire gli scavi archeologici anche della parola. In greco mare viene indicato con la parola Talassa e lo scorrere con Goneo, con la elisione delle lettere finali –ssa resta Tala più Gone (o) si avrebbe il Talagone, che scorre verso il mare? (Si precisa che l'area sovrastante Talagoni sino a Lanzaro era chiamata Cormari). Ed è il primo scavo. Il secondo riguarda la parola dialettale Talafùni. presa in seria considerazione dal Rolhf. Se – Tala è abbreviazione di Tala-ssa per dire mare, Foneo in greco significa oltre che parlare anche fare rumore, avremmo così il significato di –rumore di mare, -voce di mare e così via. Da sopra una timpa vicina, un povero Muto sentiva il rumore dello scorrere delle limpide acque del torrente e della fontana, ma non poteva parlare. Ora il silenzio è sovrano, resta il Muto senza sentire lo scorrere d'acqua, senzs vedere e sentire le donne lavare confidandosi gioie e dolori. Muto fu e muto è, non ci dirà se oggi sente il grugnito dei cinghiali.
FESTEGGIATA MARIA BONELLI Per il suo collocamento a riposo
In occasione del collocamento a riposo della dipendente comunale (LSU) Maria Bonelli, l’Amministrazione municipale e i dipendenti comunali hanno voluto festeggiare la signora Maria, coniugata con Vincenzo De Caria, con un cordiale e simpatico incontro che si è tenuto la mattina del 28 settembre 2020 nella stanza del Sindaco a Palazzo Solari, sede del Municipio di Francavilla Angitola. La Signora Maria, visibilmente commossa, ha salutato colleghe e colleghi di lavoro, esprimendo loro la sua gratitudine per la collaborazione ricevuta in tutti gli anni di servizio prestato presso il Comune, ed ha ringraziato i vari amministratori, che si sono succeduti a governare il nostro paese, per la fiducia e la stima tributatele.
Il Sindaco avv. Giuseppe Pizzonia , ribadendo che la dipendente Maria Bonelli sarebbe andata in pensione a decorrere dal 1° ottobre, l’ha ringraziata per tutto il lavoro da lei svolto con impegno e professionalità, sempre in un clima di serena collaborazione, sia quando la Signora ha prestato servizio nella sede municipale, sia quando ha lavorato come cuoca nella mensa del plesso scolastico francavillese. L’incontro di saluto e di commiato si è concluso con un piacevole rinfresco.
Giuseppe Pungitore
XX SETTEMBRE 1870-2020 = TRA SACRO E PROFANO
TRA LA BRECCIA DI PORTA PIA E LA FESTA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE
(a cura di Vincenzo Davoli)
Sono trascorsi 150 anni da quando, il XX settembre 1870, bersaglieri e fanti del regio esercito italiano, attraverso una breccia aperta nella cinta muraria a fianco di Porta Pia, entrarono nella “Città eterna”, così da porre fine allo Stato pontificio e annettere Roma al Regno d’Italia. Alle prime luci dell’alba di martedì 20 settembre, la 2ª e la 8ª batteria del 7° reggimento artiglieria di Pisa iniziarono a cannoneggiare contro le mura adiacenti a Porta Pia. I tiri delle due batterie continuarono finché non venne aperto un piccolo varco ad una cinquantina di metri sulla sinistra della Porta. Dopo un breve ma intenso fuoco di fucileria, scambiato tra le truppe italiane e i difensori pontifici, il varco fu allargato a breccia. Verso le dieci di quel mattino i primi reparti italiani, ossia un battaglione di bersaglieri e un battaglione del 39° reggimento fanteria, attraverso la breccia di Porta Pia entrarono in Roma sparando e facendo prigionieri. Con l’intervento di altre truppe regie italiane ci furono qua e là per la città alcuni scontri, che però si spensero in poche ore dopo che il comandante pontificio ordinò ai suoi uomini di arrendersi. Alle ore 17,30 di quel 20 settembre il generale Kanzler, comandante pontificio, firmò la capitolazione del suo esercito alla presenza del gen. Raffaele Cadorna, comandante del Corpo italiano incaricato della “presa di Roma”.Secondo i dati forniti dal gen. R. Cadorna, l’intera compagna d’occupazione del Lazio e di Roma costò 49 morti e 141 feriti all’esercito italiano; 20 morti e 49 feriti a quello pontificio. Uno dei 49 morti dell’esercitoitaliano portava un nominativo tipicamente calabrese, Domenico Bertuccio; e tra le migliaia di regi soldati che occuparono Roma ci fu anche un giovane di Francavilla Angitola.
Il combattente francavillese che il 20 settembre 1870 partecipò alla presa di Roma attraverso la “Breccia di Porta Pia” si chiamava Domenico TETI. Era un giovane pendinotoe filiano della parrocchia Madonna delle Grazie. Figlio di Francesco, lavoratore in un mulino, e di Caterina Pungitore, era nato il 12-03-1852 ed era stato battezzato il giorno dopo nella chiesa delle Grazie dall’Economo rev. Don Giuseppe Attisani.
Quando come bersagliere si trovò a combattere per l’occupazione di Roma, Domenico era molto giovane, in quanto aveva solo 18 anni e mezzo. Concluso il servizio militare, contrassegnato dalla sua partecipazione ad un evento storico - quale fu il XX Settembre 1870, presa di Roma – Domenico Teti fece ritorno a Francavilla.
Passarono alcuni anni prima che Domenico, il giorno 4-03-1876, sposasse la compaesana Anna Concetta De Bretto. Nel registrarne il matrimonio lo sposo venne indicato come mugnaio, per cui Domenico, lavorando in un mulino, faceva lo stesso mestiere di suo padre Francesco.
In onore di Anna De Bretto, divenuta moglie del bersagliere di Porta Pia, diverse sue discendenti portano il nome Anna; ricordiamo in particolare la nipote Anna Teti (figlia di Giuseppe & Barbara Parisi) una delle prime donne ultracentenarie (1913-2016) di Francavilla; e la pronipote, un’altra Anna Teti (figlia di Domenico & Cristina Accetta) coniugata Rattà e sistemata a Catanzaro. Il bersagliere di Porta Pia e molinaro di Pendino, Domenico Tetimorì, nel mese di settembre del 1911, nella sua casa di vico I Grazie n. 7.Una quarantina di anni fa il pronipote Giuseppe Pungitore (figlio di Ezio e di Barbara Teti, sorella della suddetta ultracentenaria Anna) visitando il Museo Storico dei Bersaglieri allestito appunto a Porta Pia, nell’elenco dei bersaglieri che avevano partecipato alla “presa di Roma” lesse, con orgoglio e commozione, il nominativo del proprio bisnonno, Domenico Teti. Ai nostri giorni, quasi per rinverdire lo stretto legame dei discendenti del bersagliere di Porta Pia con il glorioso Corpo dei “fanti piumati”, il trisnipote Francesco Rattà (figlio della summenzionata Anna Teti Rattà) è Ufficiale in servizio permanente effettivo nel Corpo dei Bersaglieri col grado di capitano.
Dei molti figli del suddetto Domenico, quello meglio conosciuto dai francavillesi si chiamava Giuseppe Teti, nato il 2-12-1883 nella casa paterna a Pendino, in vico I Grazie. Simpaticamente denominato dai compaesani col soprannome Sbùlica, poi con tale nomignolo è stato immortalato da Vittorio Torchia in uno dei suoi “ritratti” più avvincenti e meglio riusciti, dedicati a personaggi francavillesi; il ritratto di Sbùlicaè uno dei capitoli più belli de“Il paese del drago”. Togliendo a quel soprannome ogni connotato negativo, V. Torchia illustrò quel vocabolo dialettale come l’attributo più efficace e più azzeccato a rappresentare una persona abile e capace di “sbrogliare” le faccende più complicate e delicate.
I francavillesi anziani ricordano Peppe Teti come Uomo umile e grande nelle diverse occupazioni che lo tenevano impegnato nei giorni feriali e in quelli festivi, al servizio della Chiesa oppure delComune. Al di là delle normali attività di coltivatore dei campi, di potatore e innestatore, Peppe Teti spiccava tra la gente del paese come un “metronomo” umano, regolatore e controllore del tempo e delle ore, in quanto era puntuale e preciso campanaro alla chiesa delle Grazie, nonché “caricatore” dell’orologio ufficiale di Francavilla, quello collocato sul campanile della chiesa del Rosario. Devotissimo alla Madonna delle Grazie, da lui venerata con i nomi rispettosi di ‘a Signuraovvero ‘a Sirrisi, era scrupoloso ed attento custode della sua statua, pregevole opera d’arte lignea realizzata dallo scultore serrese Vincenzo Scrivo. Se per i pendinoti Peppe Sbùlicaera campanaro, crocifero, o, in poche parole, sagrestano-factotum, per tutti i francavillesi era l’insuperabile banditore-tamburinaro. Giuseppe Teti è morto a Francavilla il 20-04-1966.
Per una speciale coincidenza la giornata del 20 settembre 2020 diventa a Francavilla una duplice ricorrenza:
-religiosa, perché capitando nella 3ª domenica di settembrevi si celebra la tradizionale festività della Madonna delle Grazie, particolarmente cara agli antenati e ai discendenti della famiglia Teti; -ricorrenza civile, in quanto è il 150° anniversario della “Breccia di Porta Pia”, a cui partecipò, unico soldato francavillese, il sopra ricordato bersagliere Domenico Teti (1852-1911).
Vincenzo DAVOLI
RASSEGNA FOTOGRAFICA DELLA FESTA RELIGIOSA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE A FRANCAVILLA
IL XX SETTEMBRE 2020 ALL’OMBRA DEL CORONAVIRUS COVID 19
UN RICORDO DI M° GIUSEPPE SERVELLO TRA FILADELFIA E FRANCAVILLA
TRA MUSICA E RESTAURO DI OPERE LIGNEE
Sabato 5 settembre 2020 si sono svolti a Filadelfia i funerali di Mastro Pino Servello, abile falegname e restauratore non solo di antichi, classici mobili in legno, ma anche di artistiche statue di Santi, ora custodite in diverse chiese locali. Giuseppe Servello apparteneva ad una famiglia di esperti artigiani, operanti nell’ambito della falegnameria, ebanisteria e del restauro di opere lignee.
Suo padre, Foca Servello, è tuttora giustamente ricordato per avere accuratamente restaurato il Crocefisso custodito nella chiesa di Santa Barbara.
Come valente artigiano Mastro Pino era socio della Società Operaia di Mutuo Soccorso “Onestà e Lavoro” di Filadelfia; come devoto al Santo Patrono della Calabria era confratello della Confraternita filadelfiese di San Francesco da Paola; come appassionato di musica, suonava i piatti nella Banda musicale “Giovanni Gemelli”. A Filadelfia Mastro Giuseppe Servello è ricordato, con affetto e meritata stima, in qualità di accurato restauratore delle tre principali statue lignee della sacra rappresentazione della “Cumprunta”pasquale, ossia il “Cristo risorto”, l’apostolo-evangelista San Giovanni, e l’Addolorata.
La comunità di Francavilla Angitola, e in modo particolare i redattori del sito www.francavillaangitola.com lo ricordano con ammirazione e gratitudine per avere salvato dalla rovina e magistralmente restaurato un busto ligneo di San Giuseppe. Condividendo l’idea di Giuseppe Pungitore, webmaster del sito internet sopra indicato, di ricordare i propri genitori Foca e Rondinelli Carmela, con un’opera non effimera ma duratura, i due “Giuseppe”, ossia il francavillese Pungitore e il filadelfiese Servello, in segno di profonda devozione al Santo del loro onomastico, si assunsero l’onere di restaurare decorosamente un busto ligneo del Santo sposo di Maria, che, assai malconcio e alquanto rovinato, era depositato nell’interrato della chiesa del Rosario a Francavilla.
Terminate le varie e lunghe operazioni: -di pulitura; -di rifacimento di alcune parti rotte o andate perdute; -di restauro generale del busto ligneo; operazioni tutte effettuate accuratamente nel suo laboratorio di Filadelfia; Mastro Pino non voleva più staccarsi da quella statua, quasi fosse divenuta una sua creatura. Nell’anno 2006 il 19 marzo cadeva di domenica; ma essendo in quaresima la festa
religiosa di San Giuseppe, in ossequio alle norme canoniche, veniva spostata a lunedì 20 marzo.
Ad ogni modo il busto di san Giuseppe, magistralmente restaurato da Giuseppe Servello, fece ritorno a Francavilla nel pomeriggio del 17 marzo. Il parroco di allora, arciprete Don Pasquale Sergi, coadiuvato dal francescano, Padre Tarcisio Rondinelli, organizzò una suggestiva manifestazione di accoglienza nel piazzale antistante l’oratorio nuovo intitolato a San Domenico Savio. Dopo la benedizione della statua restaurata impartita da Don Pasquale e la lettura delle 7 orazioni “I dolori e le gioie di san Giuseppe”, la statua venne portata processionalmente nella chiesa parrocchiale di San Foca, scortata dalla moltitudine dei fedeli, ciascuno dei quali portava in mano un giglio, fiore simbolico della purezza del beato Sposo di Maria. Ospite d’onore della manifestazione ovviamente era il Maestro restauratore Giuseppe Servello. La processione era accompagnata dalle musiche della banda filadelfiese “Diapason”; di questa compagine musicale, costituita nel 1998 e successivamente intitolata al medico “Giovanni Gemelli”, faceva parte come suonatore di piattimastro Pino Servello, che infatti è stato uno dei più anziani e più simpatici musicanti della “Banda musicale G. Gemelli”.
A conclusione della sua vita terrena ricordiamo con commovente affetto Mastro Giuseppe Servello, musicante, membro artigiano della Società Operaia, devoto di San Francesco da Paola e di San Giuseppe, e soprattutto accurato restauratore di pregevoli opere in legno, sacre e profane.
VINCENZO DAVOLI
La Filitalia al fianco dei più deboli
Continua l’opera benefica della Filitalia International con la casa madre di Philadelphia e il chapter di Vibo Valentia che nella serata di martedì 18 agosto alle ore 22.00 in piazza Marconi consegneranno alla struttura Villa Sara un contributo proveniente al programma “Italy in Crisis medical relief fund” indetto negli Stati Uniti per aiutare il paese colpito dal COVID-19. Il chapter di Vibo Valentia, dopo avere esaminato gli enti e le strutture che avrebbero potuto ambire al fondo di beneficienza ha optato per la struttura guidata da Carmelo Militello per come ha gestito l’emergenza, dove nessun ospite e personale sanitario ha contratto il virus preservando l’intero comparto di Villa Sara e la sicurezza di tutti con semplici protocolli che hanno avuto il proprio effetto. Inoltre, la Filitalia ha confidato sulla stabilità futura della struttura che garantirà assistenza per altri 15 anni a seguito della registrazione del canone d’affitto.Alla consegna ufficiale della donazione prenderanno parte Direttore Sanitario dell’Asp di Vibo Valentia Raffaele Bava, del Consigliere Regionale Vito Pitaro, del Presidente della Provincia Salvatore Solano, il Cardiochirurgo del Policlinico Federico II di Napoli Vito Mannacio e da Philadelphia in videoconferenza il dottor Pasquale Nestico fondatore della Filitalia International & foundation. L’iniziativa che sarà moderata dall’editore della rivista La Barcunata Bruno Congiustì, vedrà la presenza del gastroenterologo Gian Gaspare Balestreri oltre che dell’amministratore della struttura Carmelo Militello. La presenza dei medici servirà a sensibilizzare la popolazione su come affrontare il Coronavirus e a lanciare idee nuove per il territorio. La Filitalia International chapter di Vibo Valentia, nel periodo di lockdown si è distinta nel volontariato contribuendo al confezionamento e alla distribuzione delle mascherine e l’organizzazione dell’iniziativa rivolta ai bambini “L’arte del disegno”, oltre all’aiuto dato agli italiani e calabro-canadesi che sono rimasti bloccati a Cuba.
Le dichiarazioni del Presidente della Filitalia International di Vibo Valentia Nicola Pirone: “Siamo felici che i nostri connazionali negli Stati Uniti hanno pensato a noi in un momento molto triste. Un ringraziamento particolare lo dobbiamo al dottor Pasquale Nestico che ha avuto quest’intuizione di devolvere la somma raccolta ai chapter italiani affinché aiutassero tutte quelle realtà coinvolte a combattere il Coronavirus. Non possiamo dimenticare il direttivo della casa madre presieduto da Paula Bonavitacola, sempre vicina alle nostre richieste. La scelta ricaduta su Villa Sara è un premio alla gestione, considerando tutto ciò che è successo nei mesi scorsi in altre strutture simili, in Calabria e in Italia. In più Villa Sara lo ha fatto con le proprie risorse poiché non riceve nessun tipo di finanziamento o contributo. Il nostro piccolo gesto servirà oltre che alla struttura anche alla comunità di San Nicola poiché nella spesa è previsto un defibrillatore che servirà tutto il paese. Questo è solo l’inizio di ciò che stiamo costruendo”.
AGOSTO 09 2020 XIX DOMENICA T.O. - FESTA DI SAN FOCA M.
Omelia di Don Giovanni Battista Tozzo
Nel cap. 13,53-58 a Nazareth, paese natale di Gesù, notiamo la regressione dalla meraviglia al dubbio e da questo all’incredulità, tanto che Gesù non potè operare alcun miracolo. In questo cap. 14 vediamo invece come si passa dalla paura e dal turbamento alla fede anche se provata dal dubbio e dalla caduta. Siamo alla sezione dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci per i cinquemila uomini (vv.13-21), dove Gesù quasi costringe i Dodici a salire sulla barca e a precederlo all’altra riva. E’ il cammino di ogni fedele la Chiesa compresa, del dubbio tra incredulità e fede, dove il non credente dubita del suo non credere e il credente dubita del suo credere. Una fede dogmatica, certa e sicura di sé preclude l’accesso alla verità! Una fede adulta e consapevole occorre che abbia fatto questo passaggio e itinerario.
Dopo il dono del pane, Gesù sale da solo sul monte a pregare, mentre i discepoli si trovano da soli sul mare, a remare. Dopo il “il suo corpo dato per noi”, lui è assente. Noi ci troviamo nel cuore della notte, col vento contrario, sospesi nell’abisso agitato che vuole inghiottirci, faticando inutilmente per raggiungere l’altra riva. Nel vangelo di san Matteo abbiamo tre episodi sul mare di Gesù con i Dodici, tre scene “tempestose”dal diverso significato: la prima (Mt 8,23-27) nella quale Gesù è Colui che “dorme e si risveglia”cioè così com’era tra i Discepoli, morto e risorto che ci ha lasciato il suo pane; la seconda (Mt 14,12-23) in cui Gesù non è più con noi se non “come l’assente”, che ha vinto la morte e cammina sulle acque; ma è però presente con la sua parola e il suo pane che ci fanno camminare con lui come lui ha camminato. Nella terza (Mt 16,5-12) lui stesso scatena una tempesta di domande ai Discepoli, che non capiscono il pane e si lamentano di non averne. Hanno infatti “il lievito dei farisei e dei sadducei” fermento ben diverso dal suo. Le tre sezioni sono tra esse collegate. Gesù è l’unico vero Pane che essi hanno, ma appunto perché pieni del lievito di scribi e sadducei, non credono ancora.
Nel brano di oggi, Mt 14,22-33, è il tempo della Chiesa (la barca) in cui la presenza di Gesù è ritenuta come fosse…”un fantasma”, fino a quando non ci fidiamo della sua parola e non facciamo come lui ha fatto: ”Fate questo in memoria di me”. Nella barca o si arriva a terra o si affonda, non ci sono scappatoie! Se guardiamo a lui e alla sua promessa camminiamo. Se guardiamo alle nostre tante paure e difficoltà tentando di “fidarci” di noi stessi affondiamo. Camminare sull’abisso è il sogno di ogni uomo. Le difficoltà, le paure, la malattia e la morte, l’abisso che è la vita con le sue incertezze che cerchiamo di superare in mille modi che non sono mai quelli più efficaci ma sempre e solo palliativi illusori. Poi la realtà ci sovrasta e ci atterrisce comunque, per farci ripiombare nella paura che ci porta alla depressione e all’infelicità! Gesù ci ha liberati da tutto questo donandoci la sua Parola e facendosi lui nostro Pane del cammino in questa nostra vita. Apparentemente sembra assente ma invece nella sua Parola e nel Pane che è il suo corpo dato per noi, è più presente che mai. E’ quello che vogliamo significare quando parliamo della paura della morte che noi abbiamo e che ci illudiamo di…”esorcizzare”, cioè quasi rendere inoffensiva, in tutto ciò che facciamo. Anche “negando” e camuffando la sua scomoda ed inquietante presenza. La festa pagana di Alloween è a questo che tende…! Non così è stato per san Foca che noi veneriamo e festeggiamo quest’oggi. In queste trascorse sere abbiamo inneggiato e cantato alle sue virtù teologali, di cui “Dio lo aveva adornato e arricchito”…. la fede e la speranza in particolar modo. Queste due virtù gli hanno permesso di “camminare sulle acque dell’abisso” che era la sua vita, come anche per noi. Lui con la sua fede in Gesù Cristo, ha “camminato” e quindi ha vinto sulla sua stessa morte! Una riflessione sull’evento esodale degli Ebrei che per intervento divino, possono attraversare le acque del Mar Rosso all’asciutto, guidati da Mosè. Le acque da sempre per loro come per noi sono infide e piene di pericoli anche se la tecnica ci permette di “sostare” sotto di esse con opportuni strumenti. Ma di fatto noi nelle acque non possiamo vivere perché ci danno la morte. Nel Battesimo anche noi come il popolo ebraico siamo”scesi”, ci hanno “immersi” nelle acque per “rinascere come nuove creature”. E’ la morte del Signore che ci dà tutto questo e come lui ha camminato sull’abisso leggevamo in questo vangelo, ha dato anche a noi questa possibilità per uscirne illesi e vincitori con lui, dalla nostra atavica paura e terrore della morte. Ma come Pietro non dobbiamo dubitare mancando di fede! Anche nel primo brano della tempesta, Gesù chiama i suoi Discepoli uomini di poca fede, increduli e paurosi. Schiavi ancora di queste paure indotte appunto dalla pochezza di fede in lui, il Signore morto e Risorto per noi. E’ con questa fede ed in questa speranza che san Foca ha trovato la forza di donare la sua vita per Cristo ma non “perdendola” come possiamo pensare, bensì ritrovandola per sempre, camminando cioè forte della sua fede sull’abisso della morte ed uscendone vincitore. E’ per questo che noi lo veneriamo ancora oggi come nostro potente Protettore. Lui diventa per noi “segno” di come la fede ci fa dominare ogni paura e ogni angoscia, tale da indurci a “perdere la vita” per poterla ritrovare assicurata e al sicuro in Gesù Cristo morto e risorto per noi.
FESTA ESTIVA DI SAN FOCA DEL 9 AGOSTO 2020
La festa estiva di San Foca Martire del 2020, che quest’anno cadeva nella domenica 9 agosto, sarà ricordata negli anni futuri come un evento anomalo della storia municipale di Francavilla, in quanto il pericolo del Coronavirus ha determinato la cancellazione dei vari festeggiamenti civili connessi alle celebrazioni religiose in onore del Santo Patrono. In verità anche i tradizionali riti religiosi sono stati ridimensionati, limitando di molto la partecipazione dei devoti alle funzioni della Novena e vietando persino la processione del Santo Patrono per le vie principali del paese; la processione in onore di San Foca è sempre stata, anche nei momenti di grave crisi, la manifestazione di religiosità popolare più amata sia dai residenti nel comune di Francavilla, sia dai francavillesi (e loro discendenti) emigrati in altre regioni o all’estero, sia dai fedeli non francavillesi che dai paesi limitrofi vengono a rendere omaggio al Patrono di Francavilla.
Domenica 9 agosto, all’interno della chiesa di San Foca sono state celebrate due Sante Messe, a cui hanno potuto partecipare un numero limitato di fedeli; alle ore 8 ha celebrato il francescano francavillese Padre Tarcisio Rondinelli, che all’anagrafe è registrato con il nome “Foca”. Alla Messa delle ore 11, celebrata dal Parroco, Don Giovanni B. Tozzo, erano presenti in forma ufficiale con il gonfalone, il Sindaco avv. Giuseppe Pizzonia e la giunta comunale.
In sostituzione della processione vespertina, alle ore 18,30 in piazza Marconi è stata celebrata la Santa Messa solenne, dopo aver portato all’aperto la statua del Santo Patrono, sistemandola opportunamente sull’altare provvisorio allestito in fondo alla piazza Marconi. Alla celebrazione, presieduta dal Parroco don Giovanni, ha partecipato, insieme al Sindaco e agli Amministratori, un numero notevole di fedeli, tutti muniti di mascherina e ligi a rispettare la distanza di sicurezza.
Vincenzo DAVOLI
Festeggiamenti in onore di San Foca Martire 2020
ore 18,30 c.ca sa. Messa in Piazza Marconi.
Festeggiamenti in onore di San Foca Martire 2020
Domenica 09 Agosto: ore 08 s. Messa in chiesa;
ore 11°° s. Messa in chiesa con benedizione dei dolci tradizionali;
FRANCAVILLA ANGITOLA - LAMEZIA TERME - ROMA
IMPREVEDIBILMENTE LEGATE NONOSTANTE IL CORONAVIRUS
Riflessioni di Vincenzo Davoli tra storia della Chiesa e cronache del 21° secolo
Una delle immagini più significative della fase critica del “blocco” provocato dal coronavirus Covid 19 è quella che ritrae papa Francesco, nella giornata di domenica 15-03-2020, mentre procede a piedi lungo Via del Corso, in una Roma pressoché deserta. Il Santo Padre, con la sua veste bianca, camminava da solo, seppur seguito a debita distanza da alcune guardie del corpo, dirigendosi verso la chiesa di “San Marcello al Corso” per pregare di fronte al Crocifisso,ivi custodito da molti secoli. L’antico Crocifisso è venerato dai romani come un’icona miracolosa per aver liberato la “Città eterna” dalla peste scoppiata nel 1522 e per averla protetta nei secoli seguenti in altre situazioni di grave crisi o di morbi pestilenziali.
Oltre al Crocifisso miracoloso, in “San Marcello al Corso” è custodito qualcosa di particolarmente caro, non solo agli attuali abitanti di Francavilla Angitola, ma anche ai loro antenati, come pure ai vari discendenti ora disseminati in Calabria, in Italia e in tante parti del mondo. Si tratta delle sacre reliquie di San Foca Martire, da molti secoli Patrono di Francavilla; conseguentemente la chiesa romana di San Marcello, nella cui sagrestia sono custodite le reliquie di quel Santo soldato-ortolano, dovrebbe essere meta privilegiata sia dei francavillesi che vivono a Roma, sia di quelli che vi arrivano per pellegrinaggi o viaggi turistici.
La chiesa di San Marcello fu uno dei primi edifici di culto cristiano eretti nella “Città eterna”. Essa è intitolata all’omonimo papa, Marcello, 30° vescovo di Roma, che fu pontefice per quasi due anni(308-309). Nominato papa in un periodo particolarmente burrascoso, Marcello I fu perseguitato anche da frange cristiane; allontanato da Roma, morì in esilio, ed in luogo sconosciuto; fu comunque ben presto venerato alla stregua diun santo martire. Nel lungo elenco dei Romani Pontefici compare soltanto un altro papa con lo stesso nome; ovviamente costui porta l’appellativo di Marcello II.
Marcello Cervini, ossia il futuro pontefice Marcello II, nacque il 6/5/1501 a Montefano, paese delle Marche, da una nobile famiglia toscana originaria di Montepulciano; poiché trascorse la sua giovinezza nella città di origine della sua famiglia, qualcuno scrive erroneamente che egli fosse nato a Montepulciano; un errore veniale poiché nei ritratti ufficiali è presentato come “politianensistuscus”, ossia cittadino toscano di Montepulciano. Dopo i primi studi nella città degli avi, fu mandato (verso il 1520) all’università di Siena, dove studiò sia le materie umanistiche (in particolare greco, latino, filosofia) sia matematica e astronomia. A Siena amò frequentare alcuni prestigiosi sodalizi culturali e letterari, come la famosa Accademia senese. Dopo la morte del padre (1534) si trasferì a Roma; grazie ai forti legami della sua famiglia con quella del papa allora regnante, Paolo III Farnese, il chierico Marcello divenne prima amico e poi precettore-segretario del nipote di Paolo III, ossia dell’adolescente Alessandro Farnese, creato giovanissimo cardinale, a soli 14 anni d’età.
Nel 1535 Marcello Cervini fu ordinato sacerdote. Grazie alla sua notevole preparazione culturale, alla buona fama acquisita nella Curia papale, e alla benevolenza accordatagli da Paolo III e dal cardinale A. Farnese, Cervini partecipò ad alcune missioni diplomatiche presso il re di Francia e presso l’imperatore Carlo V.
Il 27 agosto 1539 fu nominato vescovo di Nicastro, ma non avendo ricevuto la consacrazione episcopale, non scese mai in Calabria e guidò da lontano la diocesi nicastrese con l’aiuto di vicari locali. Anche se non vi mise mai piede ci piace comunque segnalare che la cattedrale di Nicastro, prima sede vescovile assegnata a Marcello Cervini, era ed è intitolata agli apostoli Pietro e Paolo, ossia ai due Santi Patroni della città di Roma, di cui poi divenne Vescovo (solo per 22 giorni) con la sua elezione a papa nell’aprile 1555.
Nel contempo, mentre ufficialmente continuava ad essere vescovo di Nicastro,il 19-12-1539 Marcello Cervini fu creato cardinale. Come tale, ebbe un ruolo di primo piano nella legazione diplomatica papale che dapprima (9-02-1540) ad Amiens incontrò Francesco I, re di Francia, e poi a Gand (24 -02-1540) l’imperatore Carlo V. Fino al 24-09-1540 rimase vescovo di Nicastro; quindi dal 24-09-1540 fino al 29-02-1544 il cardinal Cervini fu vescovo di Reggio Emilia. Nella suddetta data del febbraio 1544 fu trasferito alla sede vescovile di Gubbio, dove rimase per oltre 11 anni, finché non venne eletto papa. Operando nella Curia papale e nella Segreteria di Stato il card. Cervini ebbe modo di conoscere molti personaggi importanti; in particolare conobbe e divenne amico di Ignazio da Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù.
Nel dicembre 1545, dopo diversi rinvii, si aprirono finalmente i lavori del concilio ecumenico di Trento; il card. Cervini vi partecipò attivamente, essendo egli stesso, insieme al card. Giovanni Del Monte e all’inglese card. Reginaldo Pole, uno dei tre Legati pontifici scelti dal papa Paolo III. In tale ruolo il card. M. Cervini fu praticamente il vero direttore della prima fase del Concilio. Le prime 8 sessioni si tennero a Trento, dal 1545 al 1547. Grazie all’abilità diplomatica di Cervini si addivenne ad un compromesso tra le istanze imperiali di Carlo V e quelle papali, con cui si stabilì di affiancare a decreti di natura dogmatica e teologica(temi che più di tutti stavano a cuore al papa) decreti riguardanti questioni disciplinari (che più premevano all’imperatore). Nella primavera del 1547 a Trento cominciò a diffondersi una specie di tifo petecchiale; sennonché col pretesto di preservare i padri conciliari dal pericolo di essere contagiati, ma soprattutto per sottrarli alle ingerenze di Carlo V, il cardinale Cervini suggerì al papa di spostare la sede del Concilio da Trento (città imperiale) a Bologna, città dello Stato pontificio. Nella sede di Bologna si svolsero altre due sessioni, ma a causa dei continui aspri contrasti tra il papa Paolo III e Carlo V i lavori del Concilio furono interrotti il 2 giugno 1547. Alla prima fase del Concilio parteciparono alcuni ecclesiastici molto apprezzati da M. Cervini; in particolare i tre gesuiti, Padre Lainez (valente teologo e primo successore di Sant’Ignazio nella carica di Preposito generale della Compagnia di Gesù); Padre Salmeron e P. Pietro Favre (primo gesuita ad essere ordinato sacerdote, e canonizzato nel 2013 da papa Francesco); nonché il chierico Guglielmo Sirleto, calabrese di Guardavalle, un fedelissimo e dotto collaboratore di Cervini, già dal tempo in cui costui era stato vescovo di Nicastro.
Liberato dagli impegni di dirigere i lavori del Concilio,il card. Cervini si dedicò più intensamente ai suoi vari interessi culturali; così progettò nuove edizioni degli autori classici latini; in ambito antiquario predispose la raccolta sistematica delle tracce artistico-architettoniche delle antichità di Roma. Quindi accogliendo le istanze dell’umanesimo cristiano promosse la pubblicazione di manoscritti in greco dei Padri orientali della Chiesa. Avvalendosi poi dell’aiuto del suo fidato collaboratore G.Sirleto ˗ che tra gli ecclesiastici di quel periodo risultò essere il massimo esperto nelle lingue greca, latina ed ebraica – favorì il recupero, la raccolta e la trascrizione di codici in lingua greca conservati, o più realisticamente rimasti sepolti,in antichi monasteri basiliani di Calabria, come ad esempio nello scriptorium dell’Abbazia del Carrà, ubicata nel territorio della diocesi di Nicastro. Nel 1548 in segno di apprezzamento delle sue molteplici iniziative culturali fu incaricato di dirigere la Biblioteca Vaticana; poi nel 1550 fu nominato Bibliotecario Vaticano a vita. Nel novembre 1549 morì papa Paolo III; nel susseguente conclave i maggiori favoriti a diventare papa erano due dei tre Legati pontifici al Concilio, ossia il card. Cervini e il card. Pole. Alla fine la spuntò invece il terzo Legato, il card. Giovanni Del Monte, che da papa assunse il nome di Giulio III (febbraio 1550).
A causa del suo stato di salute cagionevole e delicato, Cervini non si poté più impegnare nelle trattative che erano state avviate per riaprire i lavori del Concilio di Trento; perciò il nostro Cardinale trascorse i 5anni del pontificato di Giulio III (1550-55) dividendosi tra Roma e Gubbio, sua sede vescovile. A Roma, siccome non condivideva la politica palesemente nepotistica di Giulio III, Cervini seguitò a coltivare le attività culturali-editoriali connesse al suo ruolo di Cardinale Bibliotecario Vaticano (tra l’altro intratteneva ottimi rapporti con Paolo Manuzio, figlio del famoso stampatore Aldo Manuzio); contemporaneamente favorì la riorganizzazione dell’Ordine degli Agostiniani e protesse paternamente i frati dell’Ordine dei Servi di Maria che a Romasi riunivano nella chiesa di Via del Corso intitolata a San Marcello papa. A Gubbio invece, nel 1549 presiedette il sinodo diocesano e provvide ad emanare le Costituzioni sinodali eugubine che dovevano regolare la vita del clero locale; poi promosse il restauro e l’abbellimento interno della Cattedrale.
A marzo 1555 Giulio III morì. Nella giornata del 9 aprile, martedì santo di quell’anno, i cardinali riuniti in conclave elessero papa il card. Cervini. In un periodo di profondo discredito del papato, lacerato dalle lotte tra fazioni dinastiche contrapposte e macchiato dal più sfacciato nepotismo, Cervini, appena eletto papa dichiarò di voler conservare il proprio nome di battesimo, Marcello, per far capire che da pontefice nonavrebbe cambiato il suo stile sobrio e austero,alieno dal lusso e dallo sfarzo, né la sua condotta moralmente rigorosa, improntata agli insegnamenti evangelici. Appena eletto papa si fece “consacrare” vescovo poiché fino a quel momento non s’era reputato degno di meritare l’ordinazione vescovile. Col nome di Marcello II, divenne il 222° pontefice romano (aggettivo ordinale facile da ricordare perché legato al numero 2).Fu anche l’ultimo pontefice a non cambiare nome dopo l’elezione a papa. Il 10 aprile fu incoronato papa; ma per non disturbare i concomitanti riti della Settimana santa volle che la sua incoronazione fosse celebrata in forma semplice e con toni dimessi. Quindi rinunciò ai festeggiamenti pubblici, devolvendo ai poveri il denaro stanziato dalla Curia per le rituali onoranze da tributare ai papi neoeletti. Diede anche l’ordine di fondere tutte le stoviglie e gli utensili d’oro della cucina papale e fece distribuire ai poveri il denaro così ricavato. Addirittura vietò ai suoi familiari di venire a Roma a fargli visita, poiché non intendeva accordare ad essi privilegi o incarichi rilevanti.
Nei giorni successivi alla sua incoronazione inviò ai sovrani europei i consueti “Brevi” apostolici con cui comunicava la sua elezione a papa ed anche la sua intenzione di convocare una conferenza di pace per far riconciliare gli stati belligeranti, non con l’uso delle armi, ma con serie trattative diplomatiche.Volendo darerisalto più al ruolo spirituale di successore di Pietro, che non a quello di sovrano dello Stato pontificio, ventilò persino l’idea di abolire la “Guardia svizzera” poiché riteneva che la Chiesa andasse difesa con la “forza” della fede e non con quella delle armi. Erano in tanti a sperare che il nuovo papa attuasse una profonda riforma della Chiesa, sia nel clero, correggendo la condotta immorale di molti vescovi, sacerdoti e religiosi, e punendone severamente gli abusi; sia all’esterno, combattendo energicamente le “eresie” propugnate dai protestanti.Durante le funzioni del Venerdì santo (12-4-1555) egli rimase negativamente colpito dal forte contrasto tra la celebrazione orale del doloroso mistero, così ben espresso dal testo liturgico, e lo sfavillante e reboante accompagnamento musicale eseguito dalla corale, la cui eccessiva sonorità non solo copriva le parole del testo sacro, sino a renderle incomprensibili, ma disturbava così tanto l’atmosfera mesta della funzione sacra da alterare il significato della dolorosa ricorrenza che veniva celebrata. Conclusa la cerimonia, Marcello II volle avvertire i cantori e i musicisti presenti, tra cui il compositore Pier Luigi da Palestrina, che compito precipuo della musica sacra fosse quello di “ausilio al sentire e all’intendere la Parola divina”.
Le fervide attese suscitato nel mondo cattolico dalle qualità morali e intellettuali del nuovo papa, e dai primi provvedimenti che egli subito prese, purtroppo ben presto andarono deluse. Il suo stato di salute delicato e precario già nei mesi antecedenti all’elezione, cominciò a peggiorare a causa della troppo intensa attività svoltafin dai primi giorni del suo pontificato, quando volle intervenire a tutte le lunghe, estenuanti celebrazioni della Settimana santa e di Pasqua. Alla fine d’aprile s’aggravò ulteriormente, finché morì nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 1555, dopo soli 22 giorni di pontificato. Mancavano 6 giorni al suo 54° compleanno; nessuno tra tutti i pontefici successori è deceduto ad un’età minore della sua. Ricordando le parole pronunciate da papa Marcello II il Venerdì santo del 1555, riguardo alla musica sacra, Pier Luigi da Palestrina compose in suo onorenel 1562 la Missa papae Marcelli, autentico capolavoro di musica sacra a 6 voci, in cui polifonia e comprensibilità del testo liturgico sono perfettamente e armoniosamente conciliabili.
In onore di Marcello Cervini, primo vescovo di Nicastro a diventare papa, sulla facciata della navata sinistra del duomo dei Santi Pietro e Paolo, chiesa cattedrale della diocesi ora denominata di Lamezia Terme, si trova collocato un busto marmoreo del papa con la scritta latina “MARCELLUS II” e l’anno di pontificato “1555”.
Per le cure ed aiuti offerti a poveri e a emarginati, per lo stile di vita semplice e scevro dal lusso, per il sostegno benevolo a letterati ed artisti di ogni genere, per il ripudio di favori nepotistici a familiari ed amici, l’attuale Santo Padre Francesco si dimostra degnissimo successore di quel Marcello II, che fu papa per soli 22 giorni.
Vincenzo DAVOLI
Festa di San Foca Martire 09 Agosto 2020
Lo scorso 5 marzo 2020, festa liturgica di San Foca Martire, il flagello del Coronavirus ancora non era arrivato nei nostri paesi e perciò fu ancora possibile onorare il celeste Patrono di Francavilla, celebrando la Santa Messa solenne all’interno della chiesa a Lui intitolata. Quel 5 marzo fu l’ultima volta che si vide la chiesa parrocchiale gremita dalla folla dei fedeli; fu anche l’ultima processione che si poté svolgere lungo le vie principali del paese. Ora purtroppo, perdurando il pericolo del Coronavirus, e in ossequio alle norme DPCM del Presidente del Consiglio e alle connesse disposizioni di S.E. Mons. Luigi Renzo, Vescovo di Mileto, il programma religioso viene sensibilmente ridotto, eliminando in particolare la tradizionale affollata processione. La mattina di domenica 9 agosto all’interno della chiesa saranno celebrate due sante messe alle 08.00 e alle 11.00, ma poiché l’accesso ad ogni funzione è limitato a soli 40 fedeli, al posto della processione verrà celebrata alle ore 18,30 circa, in piazza Marconi, la Santa Messa solenne, con l’intervento dell’amministrazione comunale di Francavilla Angitola, guidata dall’avv. Giuseppe Pizzonia; svolgendosi all’aperto, vi potrà partecipare un numero maggiore di persone, che tuttavia dovranno attenersi al rispetto delle vigenti normative di distanziamento sociale, indossando nel contempo le prescritte mascherine protettive. Il pomeriggio di domenica 9 agosto saranno chiuse le strade di vico Castello con la balconata e la piazza Marconi, con divieto di transito e di parcheggio.
Si invitano tutti i cittadini di Francavilla ad abbellire con coperte, damaschi, lumini e con una immagine di San Foca i balconi del nostro paese in segno di devozione al nostro Santo.
Cari Francavillesi,
cari Emigrati, che puntualmente rientrate in questo mese al paesello natìo carichi di entusiasmo e di positiva energia rallegrando il piccolo borgo, quest’anno sarà un Agosto diverso dagli altri, senza manifestazioni, senza particolari eventi; tutto questo non per “desiderio” dell’Amministrazione Comunale, che, come sapete, negli ultimi tre anni, ha cercato di riempire e allietare con spettacoli vari buona parte delle serate dell’Agosto Francavillese, ma a causa del Covid-19, che certamente ha modificato e sensibilizzato le nostre abitudini.
Speriamo di riuscire, nel rispetto delle regole, a realizzare almeno per il giorno del nostro Santo Patrono il mercatino di San Foca.
Invito tutti alla prudenza, al rispetto e all'osservanza delle norme anti-covid; la salute degli altri è la nostra salute! Comportiamoci bene per un egoismo e un benessere comune.
Nel porgere buone vacanze a tutti, Vi auguro buona permanenza.
Il Sindaco
Giuseppe Pizzonia
AGOSTO 02-2020 XVIII DOMENICA T.O.
Omelia di Don Giovanni Battista Tozzo
La prima letture dal Profeta Isaia è un invito esplicito e solenne ad accogliere pienamente i doni che Dio stesso ci fa in maniera totalmente gratuita e con abbondanza e a saper scegliere ed impegnare le nostre energie per ciò che conta ed ha valore senza sprecarci per ciò che alla fine risulta inconsistente ed effimero. Ciò è significato dal dono dell’acqua (segno della Vita ) – che ci rimanda al dialogo con la Samaritana, il dono dell’acqua viva – e del vino e latte segni della vita in pienezza. Nei versetti 1-12 di questo stesso capitolo del vangelo di Matteo e che precedono quelli di oggi, troviamo la morte per decapitazione di Giovanni il Battista, fatto ammazzare in carcere da Erode durante un banchetto che aveva organizzato per la sua corte in occasione del suo compleanno e della quale si fa cenno appunto nel versetto 13 di stamattina. In questi versetti successivi (13-21) troviamo Gesù che inizialmente si dirige in barca verso un luogo solitario e deserto. La gente capisce e lo segue via terra a piedi dalla città. Alla vista di quella folla Gesù prova un moto di compassione e quindi li guarisce dalle loro malattie. Dunque un Gesù solidale che prova compassione e misericordia per “i guai” e le sofferenze della gente. Verso sera i discepoli si accorgono e si preoccupano della folla che non ha di che mangiare e chiedono a Gesù di rimandarli, trovandosi nel deserto, affinché possano procurarsi loro stessi del cibo. Ma il programma di Gesù è diverso da quello dei suoi Dodici e ordina loro di dare da mangiare loro stessi alla folla. I Discepoli sgomenti rispondono che non hanno che cinque pani e due pesci (cinque più due, numero perfetto e quindi divino…), al fronte di una folla di “cinquemila uomini, senza le donne e i bambini” (v. 21). Gesù ordina che gli si portino i cinque pani e i due pesci e ordina che si faccia sedere la gente per terra, sull’erba. E’ curioso notare questi “ordini”, “comandi” di Gesù. E’ evidente come domini tutta la scenae si avverte una sorta di tensione-attesa; sta compiendo qualcosa di grande e straordinario. Notiamo anche questi “passaggi di mani” : da chi possedeva i pani e i pesci (che questo vangelo non ci rivela) agli Apostoli, da questi a Gesù e da Gesù nuovamente agli Apostoli perche li distribuiscano alla folla. Nulla possediamo che non abbiamo ricevuto da Dio. Ma tutto ci viene donato non per tenerlo “chiuso” esclusivamente per noi, ma perché anche noi a nostra volta impariamo a….ridistribuire e condividere con tutti! E’ a questo che ci porta il mistero della moltiplicazione effettuata da Gesù. Con questa scena si ritorna con la mente a quanto Gesù ha operato nell’Ultima cena. Infatti prende i pani e i pesci e alzati gli occhi al cielo li benedice, li spezza e li dà ai Discepoli perché li distribuiscano alla folla. Tutti ne mangiarono, se ne saziarono e ne “sovrabbondarono dodici ceste piene”, oltre ogni aspettativa! Dopo la sepoltura del profeta Giovanni c’è il pane del deserto. C’è una contraddizione tra il palazzo di Erode con i suoi idoli morti, i suoi servi schiavi dell’avere, del potere e di apparire e dove regna la morte ed il deserto dove invece apparentemente c’è assenza di vita ma che invece Gesù trova occasione per sanare e sfamare le folle, cioè dà loro la Vita. Il banchetto di Erode prepara quello di Gesù “che dà la Vita” e la dà… “in abbondanza”, vedi le dodici ceste di pezzi avanzati! Dio ci chiama ad “uscire dal palazzo”, dalla schiavitù e dalla morte per incontrare la Vita, quella che Dio ci dà. Chi non esce dal palazzo delle false sicurezze non trova la Vita! Il ritiro di Gesù con i suoi non è “una fuga” ma l’inizio del nuovo esodo cioè l’uscita dalla morte incamminandosi verso la Vita. Il popolo esce dalla città di Caino per fondare una nuova convivenza. Le folle che precedono a piedi Gesù in barca con i Dodici, hanno bisogno “di quel Pane”. La “compassione” di Gesù è il mistero dell’amore di Dio. La parola compassione in greco ha la sua radice che richiama “le viscere”, “l’utero materno”. Dio è Padre in quanto “materno”. Ogni azione che non muove da questa misericordia o compassione partecipa al “banchetto di Erode”, banchetto di morte. Gesù “ha cura” cioè “venerazione, rispetto” degli in-fermi, di quelli che non stanno in piedi. La debolezza che noi usiamo per asservire, Gesù la usa come momento e occasione di servizio. La medicina con cui la cura sarà il suo pane, rimedio di vita eterna. “Giunta la sera”: la sera è la fine del giorno, tempo disponibile per l’uomo. Inizia la “notte”, e le tenebre si mangiano la creazione scaturita dalla luce. La “fatal quiete”, in cui tutto ritorna al caos primitivo, rimanda all’ultima sera, nella quale Gesù ci diede il suo Pane-Corpo (Mt 26,20), per consegnare poi il suo corpo alla terra (Mt 27,57) come “il segno di Giona”. Il suo ultimo giorno sarà tutto immerso nelle tenebre e nel buio; anche il sole si oscurerà nel suo splendore. Sarà la notte in cui Lui, Luce del mondo, entrerà nelle nostre “notti” per illuminarle. Ora come anticipo, la notte nel deserto profumerà della fragranza del Pane. Dopo la morte in carcere di Giovanni, a Gesù viene “fatto l’annuncio di quella morte-nascita al Cielo” che per lui diventa presagio del suo ritiro nel deserto dove invece darà “il suo Pane”, Pane per la vita eterna. Direi che questo brano ci pone già nell’aspettativa dell’ora suprema di Gesù, quando il Male e la morte pensano di aver distrutto Gesù e invece decretano la loro sconfitta e la loro morte. Solo così Gesù può fare del suo Corpo santissimo il Pane che allevia ogni fame e del suo sangue la bevanda che toglie ogni sete e nutrendoci dei quali entriamo fin da ora nella sua stessa Vita, vita di comunione con il Padre, Vita eterna. AMEN!
GIOVEDI’ 30 LUGLIO. Ore 18,00: S. Rosario – S. Messa – Discesa della Statua di San Foca.
Festeggiamenti in onore di San Foca Martire 2020 Ai Fedeli tutti.
Carissimi fratelli e sorelle!
Quest’anno, condizionati dalla pandemia da Coronavirus che ha falcidiato le comunità cristiane e non, specialmente e con particolare virulenza quelle del Nord Italia, siamo tenuti e sottoposti all’osservanza delle normative per la sicurezza e la tutela della salute pubblica emanate prudentemente e a più riprese dal PCDM insieme alla CEI per quanto riguarda le manifestazioni religiose. Pertanto saltano in occasione di festeggiamenti patronali – come sta già avvenendo in tutte le parrocchie - tutte le manifestazioni pubbliche o che prevedano comunque assembramenti e difficoltà a mantenere il distanziamento sociale ed il contatto fisico tra persone. Ovviamente sempre mantenendo le misure di sicurezza e di comportamento come già stiamo facendo da tempo nelle chiese, continueremo a svolgere regolarmente i programmi SOLO religiosi come già facevamo gli altri anni. Allo scopo di prendere visione e poter quindi programmare la partecipazione a dette funzioni CON L’OBBLIGO IN CHIESA DI INDOSSARE LE MASCHERINE ho ritenuto opportuno anche quest’anno offrirvi il programma delle funzioni specialmente per la Novena del nostro Santo Patrono che inizieremo Venerdi 31 Luglio alle ore 18,30. Consapevoli che san Foca Martire è anche potente Protettore invocato dai nostri avi durante le carestie e le pestilenze, accorriamo maggiormente fiduciosi in preghiera per chiedere liberazione e protezione da questa prima terribile pandemia del terzo millennio!
PROGRAMMA RELIGIOSO Giovedi 30 Luglio: ore 18,30 s. Messa e “Discesa del Santo” Venerdi 31 Luglio: ore 18,30 solenne inizio Santa Novena con celebrazione eucaristica. Tutte le sere: ore 18,30 Novena cantata e celebrazione Eucaristica; confessioni. Lunedi 03 Agosto: Giornata degli Emigranti: preghiera dell’Emigrante. Giovedi 06 Agosto: Giornata dell’Ammalato e dell’Anziano: con particolare Preghiera di protezione e liberazione dal contagio del Coronavirus. Sabato 08 Agosto:Benedizione dei Bambini e affidamento a San Foca. Domenica 09 Agosto: ore 08 s. Messa in chiesa;
ore 11°° s. Messa in chiesa con benedizione dei dolci tradizionali;
ore 18,30 c.ca sa. Messa in Piazza Marconi. N.B.: Partecipando alle funzioni religiose, particolarmente il giorno della Festa, faremo viva attenzione ad evitare assembramenti in Chiesa come sul sagrato, evitando di soffermarci a chiacchierare, a salutarci e quant’altro ed essendoci giorno di San Foca tre SS. Messe, cercheremo di distribuirci attenendoci diligentemente all’ordine e al distanziamento non essendo assolutamente permessi sovraffollamenti e assembramenti vari.
Con affetto e benedizioni il Parroco don Giovanni Battista Tozzo
PREGHIERA A S. FOCA MARTIRE IN TEMPO DI COVID 19
O gloriosissimo e potente nostro Patrono San Foca Martire.
In questo tempo di pandemia, di prove e di indicibili sofferenze,
di chiusure, di privazioni e di distacchi anche dagli affetti più cari
a causa del temuto e pericolosissimo Coronavirus
che ha causato innumerevoli lutti e dolori,
perdite di lavoro e fame
in mezzo al nostro popolo come nel mondo,
noi tuoi fedeli devoti di Francavilla Angitola
dove Tu per provvidentissimo ed arcano disegno divino
hai voluto misteriosamente porre la tua dimora tra di noi
oggi ti supplichiamo e ti invochiamo:
in questo Giorno solenne della tua Festa
ti preghiamo di proteggerci, liberarci, e premunirci
con la tua potentissima mano ed intercessione a Dio
dal contagio e dall’infestazione di questo orribile nemico
che insidia e flagella le nostre case,
le nostre famiglie,
le nostre nazioni ed il mondo intero.
Tu mostrati ancora una volta
potente e benevolo Intercessore
e Protettore nostro.
Stendi come sempre
la tua mano benigna e caritatevole su tutti noi
senza distinzione di razza o di nazionalità,
di religione o di cultura e tradizione
affinché TUTTI possano riconoscere
il tuo potente e benefico patrocinio
e possano rendere gloria a Dio
e al tuo santo nome già tanto glorioso,
che si è compiaciuto renderti forte e generoso
nella vita come nella fede,
tale da diventare nostro Protettore e Benefattore
e tutti possano invocarti
come Santo benefico
verso gli amici e fedeli
come verso gli infedeli nemici di Dio
e della cristiana Religione
i quali possano così diventare
per il tuo sperimentato soccorso
fedeli e convinti cristiani! AMEN
LUGLIO 26-2020 XVII DOMENICA T.O.
Omelia di Don Giovanni Battista Tozzo
Siamo nella sezione delle quattro parabole per i Discepoli di Gesù, quell’insegnamento che dicevamo “privato” cioè interno e che Gesù riserva ai suoi Apostoli. Si tratta delle parabole del tesoro nascosto (vv.44), della perla preziosa (vv.45-46), della rete (vv. 47-48) e dello scriba (vv.52). Le prime due parabole trattano della chiamata a “decidersi” per “qualcosa di più grande” e di più prezioso: il tesoro nascosto e la perla di particolare pregio. Con queste due immagini Gesù ci fa intendere ciò che dobbiamo fare per entrare a “possedere” il suo Regno. Il tesoro nascosto e la perla preziosa rappresentano appunto il suo Regno, il Regno di Dio e la Sapienza della sua Parola che ci dice come avere la pienezza della Vita eterna. La sua preziosità è talmente grande ed incomparabile rispetto a ciò che già possediamo o a quanto è terreno e provvisorio che vale la pena impegnare tutto ciò per entrare a possedere quanto Gesù ci promette e che è la sola realtà che possa riempirci di gioia duratura. Quante volte ci ritroviamo ad impegnare e quindi a “dissipare” energie ed impegno per cose di nessun valore o alle quali diamo un’eccessiva importanza che non meritano perché durano lo spazio di un momento. Del resto non possiamo tentare “furbescamente” come forse penseremmo un po’ tutti quanti, di mantenere tutto e tentare di “afferrare” anche il Regno di Dio. Qui non si tratta solo di cercare o trovare quanto Lui ci promette, ma DECIDERSI a favore di…, che equivale a valutare a cosa teniamo di più: non possiamo servire a due padroni…, ci ricordava qualche domenica fa! Qui sta la vera Sapienza, nel saper scegliere e “decidersi per…”. Nella prima lettura dal 1Re, Salomone il grande sapiente che riconoscendosi umilmente troppo giovane ed inesperto, chiede a Dio l’essenziale: il discernimento tra bene e male e un cuore docile che sappia amare e rendere giustizia al popolo affidatogli da Dio stesso. Dio lo premia per aver scelto bene e gli dà senza misura la Sapienza necessaria in questa impresa, tale che la regina di Saba si parte dal suo lontano paese per venire a conoscere quella Sapienza la cui fama si era sparsa dovunque e che caratterizzava il re Salomone. Anche per noi l’aver scelto il primato del Regno manifesta quella Sapienza che ci viene dall’alto e che ci dà una gioia non paragonabile a quella che possono darci le cose terrene e che caratterizza e suscita la gioia per la decisione a favore del Regno. Come sbagliano quelle persone che di fronte alla proposta di Gesù restano quasi indifferenti, come una cosa “dovuta” alla quale dovranno pur pervenire ma senza entusiasmo quasi come chi…”subisce”. Non è così! Il contadino che trova casualmente il tesoro in quel campo che non è suo, va pieno di gioia ed impegna-vende tutto ciò che ha per poter entrare in possesso del campo e quindi di quel tesoro inaspettato in esso contenuto. Per il Regno vale la pena impegnare tutta la nostra vita qualunque essa sia. Anche la seconda parabola, quella della perla preziosa segue lo stesso itinerario. Il mercante che va in cerca di perle preziose, ne trova una di inestimabile VALORE e va, vende ciò che ha per entrare in possesso di QUELLA PERLA, senza la quale, quelle che già possiede sarebbero…insignificanti! Solo se entreremo a possedere il Regno di Dio ci saremo realizzati, diversamente avremo fallito e perduto ogni cosa anche la nostra stessa vita. Solo il Regno di Dio può essere “il nostro tesoro nascosto e la nostra perla preziosa”. Questa è la prima cosa essenziale che dobbiamo comprendere. I tentennamenti come abbiamo già visto, anche per cose che a noi sembrano “essenziali” , le perdite di tempo a favore di cose pur squisitamente lecite ma troppo umane, non possono frapporsi per diventare impedimento tra il Regno e noi, rischieremmo di perderlo irreparabilmente. Gesù che si identifica con il Regno, vuole essere scelto, preferito, anteposto ad ogni altra cosa. Lui VUOLE il primo posto! Nemmeno il dovere di seppellire gli affetti più cari come il proprio padre (Mt 8,21-22) può essere anteposto a Lui. La seconda coppia di parabole insiste sulla responsabilità di chi è chiamato ad entrare a fare parte del Regno di Dio. La Chiesa è quella rete che calata nelle profondità abissali dell’umanità porta in superficie, “pesca”, pesci di ogni genere, buoni e meno buoni. E’questa la sua missione e vocazione. Anche la Chiesa è chiamata e inviata a “pescare”, a tirare su dall’abisso ogni uomo, di ogni genere come i pesci della parabola, senza potersi chiudere a nessuno. Non siamo noi a poter ”scegliere e selezionare”. In altri termini siamo chiamati ad usare il metro della misericordia con tutti, affinché alla fine anche a noi venga usato lo stesso metro e metodo di giudizio. Chi non usa la misericordia non agisce da figlio di Dio e non è “figlio”! Già nel Padre Nostro ripetiamo continuamente questa stessa parola: “Perdona a noi i nostri debiti, come anche noi perdoniamo agli altri…”. Ma forse raramente la prendiamo sul serio quando preghiamo quelle parole che Gesù stesso ci ha insegnato. Come domenica scorsa anche stamattina, solo alla fine avverrà la separazione di ciò che è buono da ciò che buono non è. Solo alla fine “la rete sarà piena”, quando il fine che è la salvezza di TUTTI gli uomini…) sarà realizzato e tutti gli uomini avranno accolto la Parola di Dio. Non spetta quindi a noi effettuare questa operazione, ma solo Dio può farla correttamente e con somma giustizia, laddove la misericordia avrà la meglio su ogni giudizio (quello di Dio ovviamente…). Lo “scriba” cioè colui che proviene dal mondo giudaico e che ha riconosciuto Gesù Cristo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo, divenuto suo discepolo è chiamato a trasmettere con verità questo tesoro, antico nella sua novità e sempre nuovo nella sua radice antica per aiutare anche gli altri a riconoscere ed accogliere Gesù come Unico Salvatore. Qui è contenuta la questione della Legge antica e del NUOVO che è Gesù. E’ Lui il “nuovo” che apre i nostri occhi alla comprensione del Regno di Dio e che si manifesta come la piena realizzazione delle antiche promesse che di conseguenza non sono più comprensibili senza di Lui. “Alla sua Luce, avremo la Luce…”! AMEN.
In pubblicazione il nuovo numero de La Barcunata
Il classico appuntamento estivo con la rivista La Barcunata, fondata a San Nicola da Crissa da Bruno Congiustì nel 1995, si rinnova e per la prima volta la data di pubblicazione viene anticipata al mese di agosto. Fino allo scorso anno, infatti il periodico di storia, antropologia e tradizioni veniva diffuso tra i lettori durante le feste di Pasqua, Ferragosto e Natale. Da questo numero, invece ci saranno delle date fisse per permettere una quarta uscita nel mese di ottobre con un numero speciale. Non è l’unica novità che i lettori e appassionati della rivista potranno notare nelle prossime pagine, con la redazione che ha reso il giornale ancora più interessante con l’aggiunta di alcune rubriche e la pubblicazione delle foto dei vari collaboratori a corredo dell’articolo. Ancora una volta ci saranno articoli tradotti in lingua inglese e spagnola, per avvicinare il pubblico giovanile delle Americhe. Confermato il format delle ricerche storiche, nel nuovo numero si parlerà di personaggi del paese, ma anche di storie e cultura degli altri centri della Valle dell’Angitola. Tra i nuovi collaboratori entrano Nicola Martino “Puffo” che si occuperà dell’angolo della cucina, Nicola eRaffaele Galloro, Marianna Barone, mentre sono stati riconfermati gli altri che hanno preso parte alle precedenti edizioni. Nelle 32 pagine si parlerà della Sanità locale, ma ci sarà spazio anche per i bambini, che come annunciato pubblicheranno le loro impressioni del periodo di lockdown diretti dall’insegnante Maria Assunta Carnovale.Spazio anche alla residenza Villa Sara, fiore all’occhiello del paese, con l’editore che presto siglerà un accordo con il proprietario Carmelo Militello. La Barcunata, che sarà presentata al pubblico nelle prossime settimane, lancerà a breve un nuovo progetto ed ha inserito l’articolo di ringraziamento ai medici cubani che hanno prestato servizio in Piemonte e Lombardia. Il giornale è stato confezionato quasi per intero a San Nicola da Crissa, poiché da quest’edizione anche la grafica è locale. A corredo della rivista diretta dal giornalista Nicola Pirone, ci sarà anche un supplemento a cura di Nicolino Cosentino (di Salerno), per omaggiare i lettori per i 25 anni di attività. Il periodico, oltre che in Calabria e in Italia, è distribuito anche in Canada, Stati Uniti e Cuba
Le dichiarazioni dell’editore Bruno Congiustì: “Siamo riusciti anche questa volta a chiudere il nostro giornale e consegnarlo alla stampa in tempo per la pubblicazione. Nonostante l’emergenza sanitaria La Barcunata è andata avanti spedita, anzi è riuscita ad anticipare la pubblicazione. Abbiamo pensato al mese di luglio per dare più tempo tra un’edizione e l’altra anche perché ormai ci avviamo costantemente al quarto numero che uscirà ogni mese di ottobre. Non sarà solamente questa la novità del 2020, poiché a breve comunicheremo altri due progetti che ci terranno compagnia.Volevamo avvicinare i giovani alla nostra rivista e lo stiamo facendo coinvolgendoli su tutti i vari punti. Abbiamo così ideato l’impaginazione nella nostra redazione e di questo si è occupato Davide Facciolo, seguito dal nostro direttore. I giovani sono importanti per noi, poiché bisogna trasmettere tutte le nostre conoscenze. La Barcunata è anche questo, con il giornale che sarà aperto a tutti quelli che vogliono collaborare”.
Ai devoti di S. Francesco di Paola Oggetto: richiesta di aiuto per lavoro di restauro della statua di San Francesco di Paola.
Quante volte ci siamo rivolti al nostro caro S. Francesco per chiedere grazie e protezione!
Ora è lui che si rivolge a noi per chiederci di restaurare la sua bellissima statua.
Chi di noi avrebbe il coraggio di negare un aiuto, secondo le proprie possibilità, a S. Francesco che ci chiede il restauro della sua immagine?
In qualità di Parroco ho sottoscritto doverosamente l’impegno.
Ora a nome di S. Francesco, faccio un accurato appello ai parrocchiani, ai numerosi devoti e cultori di S. Francesco vicini e lontani di sostenermi in questo oneroso impegno assunto.
Ho fiducia che ci sarà una nobile gara di generosità.
Il nostro caro S. Francesco non si lascerà vincere in generosità, concedendovi aiuti e protezione.
In fiduciosa attesa vi saluto e vi benedico.
Potete versare le vostre offerte tramite M.P.S. intestato alla Parrocchia S. Maria delle Grazie e S. Francesco di Paola. IBAN IT57V0103076540000001716056 Causale: restauro della statua di S. Francesco di Paola
LUGLIO 19-2020 XVI DOMENICA T.O.
Siamo alla sezione delle altre tre parabole che Gesù espone alle folle nel cap. 13 di san Matteo. Domenica scorsa avevamo esaminato la parabola del Seminatore il quale seminava la Parola di Dio su terreni diversi e dai quali il Seminatore che abbiamo identificato con Gesù, si attendeva una crescita da tutti i tipi di terreni, confidando non certo nella bontà della qualità del terreno ma esclusivamente sulla fiducia in Dio che provvidenzialmente alla fine farà crescere e fruttificare i vari tipi di terreno, come SOLO Lui sa. Stamattina in queste altre parabole della zizzania, del granello di senape e del lievito, san Matteo ci pone dinanzi il mistero del Bene e del suo agire inseparabilmente dal Male, in questo continuo crescere e farsi del Regno di Dio che solo alla fine avrà esito certo e splendido. In questa fase difficile che è “la semina” come dicevamo domenica scorsa, siamo chiamati a seminare a larghe mani e senza risparmio guardando non all’immediato né al Male che troviamo frammisto al Bene che seminiamo e che potrebbe essere deludente, ma al futuro e confidando totalmente nella sicura provvidenzialità di Dio. Nei versetti 24-30 Matteo espone la parabola della “zizzania”, seminata nottetempo dal “Nemico” del Padrone del campo, il quale invece aveva seminato grano di ottima qualità, grano “bello”. I servi si accorgono mentre quest’ultimo va crescendo, come vi si trovi presente la cattiva e velenosa “zizzania” e chiedono di poter andare ad estirparla perché “inquina e soffoca” il buon raccolto. Ma il Padrone che conosce l’agire del Nemico e che “sa il fatto suo”…, ordina perentoriamente di lasciare crescere il “grano buono” insieme alla “cattiva zizzania” e solo al momento finale del raccolto di separare i due destinando al fuoco distruttore e purificatore la zizzania mentre il buon grano verrà riposto nei granai del Padrone. Spesso anche noi vorremmo far funzionare ogni cosa a modo nostro, anche il grande Mistero del Regno dei Cieli, cercando idealmente ma illusoriamente di apportare modifiche forzate nel tentativo inutile di ottenere il meglio in ogni cosa. Questo è l’efficientismo del nostro tempo! Spesso anche nelle relazioni interpersonali cercheremmo sempre il meglio, pronti ad interrompere, distruggere, annullare tutto quanto non rientra nei nostri schemi e nelle nostre aspettative. Come domenica scorsa “la pioggia – cioè la Parola - non ritorna a Colui che l’ha mandata, senza aver prima prodotto il suo effetto” così stamattina il Padrone non resta “sconfitto” dal suo Nemico, lui si che certamente ne uscirà sconfitto e con… le ossa rotte nel suo vile e malvagio intento, ma solo alla fine della raccolta apparirà il successo del Padrone che ha la pazienza di aspettare e di attendere. Talvolta per “fini buoni” abbiamo cercato anche nel campo più squisitamente religioso e cristiano di separare le due opposte e diverse realtà, Bene e Male, riuscendo invece solo a creare più danni. Dobbiamo riconoscere che anche noi, secondo quella “sapienza del mondo” che abbiamo già incontrato, non riusciamo ad accettare questa “necessaria convivenza” che lungi dal distruggere ed impedire, si risolverà in un servizio al Bene con la sua totale e definitiva vittoria e riuscendo solo ad esaltare maggiormente il Bene stesso. Così, non esiste una Chiesa ed una comunità di “perfetti” come immaginiamo noi. Del resto il bene e il male coesistono in ciascuno di noi senza distinzioni di sorta, sarebbe da stolti non volerlo riconoscere e che solo nella Croce di Gesù Cristo troverà la soluzione (san Paolo Rm 7,21-25)! Dio stesso fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. Dio che nel bene si rivela come dono, nel male si rivela nella sua essenza più intima e propria come per-dono, amore senza condizioni e senza limiti. In questa sezione del vangelo di san Matteo ci troviamo di fronte ad una doppia semina: quella del bene prima e poi del male (vv.24-26) e delle doppie posizioni, quella dell’uomo “andiamo a strapparle (le zizzanie)” e quella di Dio “lasciate che crescano insieme”. Dio dunque è pienamente consapevole della situazione di preponderanza delle forze del male e della esiguità e contaminazione del bene stesso. Tuttavia sceglie volutamente la strada della debolezza, della piccolezza del seme (vv.18-23) ma che tutta via Dio fa si che diventi un grande albero, dell’apertura a tutti del suo Regno (vv.31-33) e dell’esiguità del lievito ma che fa fermentare tutta la pasta. E’ Lui che permette certe cose perché “le sue vie non sono le nostre vie e i nostri pensieri non sono i suoi pensieri”. L’agire di Dio resta infinitamente diverso e lontano dal nostro. Questa logica del Regno deve esserci sempre presente per non dimenticarla mai. Gesù che ha seminato la Parola del Padre e la vive è la misericordia verso tutti. La Chiesa si ritrova invischiata con il male ( la storia di questi ultimi anni ma anche quella di sempre è piena di esempi come gli scandali, le divisioni e gli scismi), ciononostante ne uscirà sempre vincitrice e non certo per sua capacità o meriti…! Tentata di strapparlo via con violenza è chiamata invece a vincerlo con il bene, facendolo oggetto di misericordia anziché di condanna. E’ la legge scandalosa e sapiente della Croce, apparentemente sconfitta, ma che alla fine vince sul Male del Mondo, anzi lo è già. Qui sta tutto il Mistero del Regno! Chiamati ciascuno a farne parte, buoni e cattivi, consapevoli della nostra inadeguatezza, debolezza ed indegnità ma in continua conversione (siamo chiamati perché Dio è infinitamente buono…) questa Parola ci invita a fidarci e ad avere piena confidenza in Dio, il solo che provvede e fa crescere come “albero meraviglioso (la Croce) presso i cui rami albergano - cioè si rifugiano - tutti gli uccelli del cielo” il suo Regno di amore, di gioia, di giustizia e di pace, Regno di santità, manifestando così l’universalità dello stesso. Un’attenzione particolare va posta alla finale molto forte dei vv.41-43 dove si fa chiaro riferimento ad una “fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”, dove verranno gettati gli operatori di iniquità. Lungi dal volerci incutere paura o terrore essa vuole invece richiamarci alla responsabilità che ciascuno avrà come di fronte all’ascolto della Parola così di fronte alla scelta liberissima e oltremodo personale tra Bene e Male. Il Male certamente non resterà impunito come spesso scioccamente e superficialmente pensiamo o possiamo pensare quasi come se dovesse avere la meglio su tutto. Così pure come richiama a riflettere quanti pensano che l’Inferno sia… “una storiella” per metterci paura! I figli di Dio sono i Figli della Luce e di questa devono essere portatori! Del resto essendo rinati nel santo Battesimo come nuove creature, dovremmo aver dichiarato, come Il Figlio, guerra aperta ad ogni manifestazione del Male, senza avere alcuna connivenza con esso a costo della vita che invece riposa sicura tra le braccia del Padre che si prende costante cura di tutti e di ciascuno come per “i passeri e i capelli del nostro capo” (Mt 10,30). AMEN!
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Voleva prendere il sole Un racconto fra leggenda e realtà di Pino Furlano È il 17 di agosto del 1961. Sulla spiaggia del “Pioppo” a due passi dal mare, appisolato sotto l’ombrellone al riparo dal sole del primo pomeriggio, mi giungono le parole di mia madre e dell’amica d’infanzia Eleonora, che lavorando all’uncinetto, insieme ricordano la storia di Vincenzo che, innamorato di un sogno, voleva prendere il sole e morì per amore.
E Vincenzo protese il braccio per l’ultimo affondo prima di riposare per qualche istante. Si fermò sulle gambe come fosse terra ferma e con le braccia creava equilibrio per restare a galla. Lo sguardo si allungava verso la riva del mare che si nascondeva a tratti dietro alle piccole onde di spume e riflessi. Distingueva ancora bene gli ombrelloni colorati dell’estate e la gente, donne e bambini e uomini rilassati al sole del tardo pomeriggio.
La Pineta era una macchia lontana, allungata sulla sabbia arroventata d’agosto. Disegnava una linea più scura come un primo contrafforte allo sguardo che si allungava verso le alture più appresso. Lui sapeva che erano le montagne delle Serre, solo quello gli veniva alla mente ma tanto gli bastava per sorridere ancora.
Vincenzo si lasciò accarezzare la schiena e le spalle dal sole e poi si voltò a guardare il cielo, il viso rivolto all’azzurro nella posizione del “morto a galla”.
Si concesse qualche minuto e poi riprese a forti bracciate a incrociare le onde e le spume che lo investivano. Provava una certa euforia al solletico dell’acqua nelle orecchie e nel naso e le sue bracciate divennero più distese, morbide per quanto efficaci all’andare lontano.
Vincenzo non faceva il bagno, non scappava dal mondo.
Vincenzo andava incontro al sole.
Aveva detto che voleva incontrarlo al tramonto e finalmente era sempre più vicino. Più vicino che mai, da quando era bambino. Sì perché Vincenzo era stato bambino, con i suoi piccoli sogni, le grandi speranze e un desiderio: incontrare il sole.
Vincenzo non aveva memoria di quanti tramonti aveva osservato, immobile e rapito da quel fenomeno e voleva capire il fascino che riempiva i cuori delle persone “grandi” affrancati alla spiaggia per vedere la palla di fuoco coricarsi nel blu più profondo scurito al far della sera.
anche dall’alto della campagna del Paese aveva guardato affascinato la palla di fuoco immergersi. Lassù dove gli ulivi erano inframmezzati da immensi fichi d’india, pale spinose legate fra loro da piccoli nodi e difese da spilli minuscoli come sospiri di gnomi.
Da lassù tutto pareva immenso, il mondo si perdeva ai suoi occhi bambini ed allora gli appariva più grande di quanto la sua fantasia potesse raggiungerne i confini. Frugava con gli occhi il frastagliato orizzonte sperando potesse apparire seppure confuso, il Monte: Stromboli gli avevano detto, sì un nome tutt’ora strano per lui semplice uomo di mare e di mezza montagna.
Come allor, lentamente, spiegava le braccia come un bianco gabbiano non a volo nell’aria ma nell’acqua di sale, avvolto da profumi trascinati da secoli di carezze e parole d’amore e promesse. E tornava a nuotare.
Vincenzo pensava all’amore, quello che aveva vissuto, presente ancora nella mente e nel cuore. Chiamava l’amore per nome, come in un mistico pensiero: Maria. Gli ritornava il suono della sua voce e la ascoltava come faceva da sempre senza interrompere il suono carezzevole che si confondeva al sapore delle sue labbra, il profumo del suo respiro.
Vincenzo amava da sempre Maria. Le offriva fiori e promesse, le mani e la sua giovinezza e lei gli sorrideva. Complici e irridenti all’attenzione delle loro madri ben consce nel loro silenzio di quel tenero amore. Sfuggivano ancora bambini agli occhi dei grandi nell’angolo in fondo alla strada scambiandosi un tenero bacio. E promesse, eterne come può essere eterno l’amore che nasce fanciullo.
Il sole era sempre laggiù alla fine del mare e l’acqua gli mostrava la strada lasciandosi brillare da raggi dorati distesi a lambire fantasie e ricordi che Vincenzo sentiva scaldare nel cuore.
Ancora qualche bracciata e ancora uno sguardo lontano, appoggiato alle onde di spume a vedere indistinti puntini di genti attardate all’oziare, ora lontani agli occhi di sale che frugano lo spazio interrotto da quei pini posti a barriera fra il mare ed il mondo, profano ai battiti del cuore di Vincenzo.
Era solamente di ieri quel bacio su labbra fragranti, ardore come lui aveva inteso sentire. E Maria che gli sorrideva, dolce e morbida e gli occhi di velo. Si stringeva a lui con tremante timore e lui coglieva l’intenso desiderio.
Uno sguardo di Vincenzo al mare e uno ancora lassù verso il cielo che aveva lo stesso colore degli occhi di Maria, perché lui aveva la certezza che il cielo avesse assunto lo stesso colore, invidioso degli occhi di Maria. E anche le sete più belle facevano fatica a competere con i suoi capelli. E i velluti più morbidi rischiavano vergogna al tocco della sua pelle.
Con quei pensieri Vincenzo riprese a nuotare per andare a prendere il sole e donarlo al suo grande amore. Nulla è impossibile per chi ama ed è riamato. Ma se “l’amore tradisce, i palpiti e le forti emozioni d’improvviso svaniscono”.
Ma Vincenzo non aveva ragioni per temere di perdere l’amore, quello intenso che aveva conosciuto, che in lui era nato da sempre, da quando bambino giocava con gli altri ma cercava con gli occhi Maria.
Era amore quando si fermava alla fonte, la sorgente giù in fondo alla vecchia scarpata a sorbire quell’acqua stranamente gelata per portarne un poco alla marina: sapore di fresco e pulito da dividere fra lui e Maria. Era amore quando la accompagnava per la solita strada che passava in campagna di Bosco Madonna e sbucava appena al di sopra della fonte di “Joculanu”. Spesso si era domandato se era la stessa sorgente di Talagone o se avesse passaggio di un’altra vena. Ma lui aveva solo una vena: quella del sangue pulsante per Maria.
E ancora lente bracciate, mani a fendere morbide onde di spume di mille colori. Riflessi sempre più bassi del sole che baciò il suo viso cosparso di luce e speranza come quando vedeva Maria. Lui la cercava in ogni momento del giorno o al calar della sera seduto al gradino più alto della scala davanti alla Chiesa.
Quanto breve era il tragitto dalla Chiesa alla porta di casa. Le preghiere e gli ultimi canti rompevano il silenzio davanti alla Chiesa della Madonna delle Grazie e quel canto prometteva l’uscita del suo amore.
Quanto dolce era il suo sorriso quando incrociavano gli occhi e gli sguardi. E Maria arrossiva solo un poco, un sorriso di fede d’amore.
No. Non percepì ancora alcuna stanchezza Vincenzo. Lentamente continuò il suo viaggio come quel pomeriggio dopo il Vespro. Si, lui aveva seguito Maria che compagna di altre fanciulle, aveva allungato il suo tempo verso il basso del vecchio Paese.
Sole caldo di un gradevole maggio, fiori nuovi intorno all’antico Calvario con gli occhi a guardare la verde campagna come verdi erano le risa fanciulle di Maria e verdi le tante promesse.
Così Vincenzo aveva osservato a lungo il mare, le sue onde e le spume biancastre e il sole che andava a calare indorandone l’aria e il vento. Aveva deciso di coronare il suo sogno, quel gran desiderio di donare a se stesso e a Maria un bacio al sole al tramonto.
Un tramonto come tanti che aveva vissuto disteso con lei sulla riva sfiorati da brezze e carezze di sabbia indiscreta fra loro. Sorridenti al volo di qualche gabbiano stizzito dall’essere disturbato nell’attesa dell’ora del volo sul mare a cercare il suo cibo.
Ma Maria quel giorno non c’era, non era venuta con lui sulla spiaggia, non l’aveva preso per mano a calpestare la sabbia dorata. Non avevano cosparso di passi, di sospiri la folta pineta camminando sugli aghi distesi a tappeto sulla terra al profumo di resine e sale.
E Vincenzo continuò a nuotare instancabile verso il sole. Oramai un puntino lontano e non udiva la voce di Maria che lo chiamava a gran voce del cuore, con gli occhi inondati di lacrime, che non voleva quel tramonto e quel sole se non con lui tenuto per mano in un bacio che potesse far perdonare un istante di smarrimento d’amore.
Ancora un attimo per poter vedere, o forse ancora di più immaginare, che quei punti lontani sulla spiaggia agitassero le mani a un saluto. Che il brusio che giungeva all’orecchie non fosse altro che un sollecito sprone per Vincenzo a continuare, che oramai era tanto vicino da poter quasi prendere il sole. Ancora un sorriso dipinge il suo volto e continua a spargere amore fra le onde dischiuse al sole, al tramonto che lo ha fatto sognare. “Storia di fantasia o fatto reale? Sono passati oramai tanti anni e alla sera, sulla sabbia in riva al mare, guardando ancora il tramonto qualche vecchio può ricordare quella tenera, intensa quanto triste storia d’amore. Di Vincenzo che amava Maria e voleva andare a prendere il sole per offrirglielo come pegno d’amore.”
LUGLIO -12-2020 XV DOMENICA T.O.
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
In questo cap.13 del vangelo di san Matteo troviamo quattroparabole per le folle sul Regno dei Cieli (il seminatore, la zizzania, la senape e il lievito: Mt 13, 2b-9.24-30s.33) e quattro per i Discepoli (il tesoro, la perla, la pesca e lo scriba: Mt 13,44.45.47-50.51s). Regno che per noi resterà sempre un mistero, dove tutti i nostri discorsi e i nostri ragionamenti ne usciranno sempre spiazzati per farci restare a bocca aperta per lo stupore dell’agire di Dio. Gesù illustra l’enigma della storia sua e nostra che presenta un duplice scandalo: quello del male che sembra riuscire e prevalere e del bene che invece sembra soccombere inevitabilmente. E’ il modo come Dio vede e dirige la storia, verso “il già e il non ancora” ma che avrà sicuramente un esito positivo visto che è Lui stesso che la dirige verso il bene! Anche se il Regno stesso sembra fallire – basti osservare oggi il predominio del male, del torbido e del maligno – avrà una svolta e una soluzione tutta divina e secondo Dio che con nostra grande meraviglia ci sorprenderà e ci riempirà di stupore. E’ così che stamattina questo “seminatore” apparentemente… sprovveduto e che appare in questa prima parabola, semina su ogni tipo di terreno, fertile e non, ben sapendo che non tutto il seme darà frutto. Al contrario, il seminatore che poi è Gesù, semina senza fare scelte del tipo di terreno, su tutto e dando la possibilità a tutti di accogliere e quindi far fruttificare “il seme che è la sua Parola”. Del resto fa quello che i padri hanno fatto da sempre e come sempre si sono procacciati da vivere fin dall’antichità. Sarebbe troppo facile seminare solo sul terreno buono con la sicurezza di una crescita certa e scartando ogni altro tipo di terreno perché non buono e non adatto al nostro scopo! Strada, pietre, rovi e quant’altro, sono le resistenze che noi opporremo consapevolmente e non, alla crescita di questo “seme” che è la Parola stessa di Gesù, la terra siamo noi con il nostro cuore, là dove Gesù vuole entrare per trasformarlo senza escludere nessuno buoni e cattivi, adatti e meno adatti. Ogni terreno per Gesù è adatto per la semina e da tutti si attende frutto e risposta a seconda di quanto può dare ciascuno. Certamente noi avremmo scelto con perizia “quasi scientifica”su quale tipo di terreno seminare e avremmo abbandonato quel terreno che presuppone una scarsa ed insufficiente raccolta o possibilità di crescita del “seme” stesso! Non così Gesù il quale sa che tutto dipende dal Padre e che anche “dalle pietre può far sorgere figli ad Abramo” (Mt. 3,9)! Del resto anche Gesù nei capitoli 11-12 fa esperienza dell’indurimento del cuore dei suoi ascoltatori anche di fronte ai segni straordinari che egli compie. Quello che è certo è il risultato, come qualche domenica fa, dove l’apparente “fallimento e debolezza” per intervento provvidenziale di Dio portava a buon fine tutta l’opera della Redenzione, al di là dei mezzi e della sproporzione delle forze (Is. 55,10-11). Anzi proprio alla debolezza dà una potenzialità insperata che spiazza ogni raziocinio ed ogni logica umana. Il metodo di annuncio del Regno scelto da Gesù è per mezzo delle “parabole” cioè delle narrazioni che affondano le radici nella realtà di tutti i giorni ma che hanno una comprensione ben più profonda di un qualcosa che è nascosto alla realtà e che va al di là della comprensione e dell’intelligenza umana. Noi siamo chiamati a prendere coscienza delle nostre resistenze e a chiedere di esserne liberati. Solo ai suoi Discepoli, “i piccoli”, “i suoi”, viene rivelato il mistero del Regno a differenza “degli altri”, di coloro che non accolgono la Parola e per i quali il Regno stesso resta nascosto e oscuro. In questa opposizione del male si compie la volontà stessa di Dio, il Signore rifiutato e ucciso sarà per gli oppositori il “segno di Giona”, al male estremo Dio oppone il dono estremo, usa misericordia senza fine per tutti. Anche nella vicenda umana di Gesù il Padre risponde alle soverchianti forze del Male risuscitando in maniera “inattesa” - anche se in più parti e in più tempi preannunciata - il Figlio amatissimo. “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la Grazia” scrive san Paolo: qui si compie il mistero della volontà di Dio. I quattro tipi di terreno: strada, sassi, spine e “terra bella”, significano i diversi tipi di ascolto dentro di noi. Quando noi ascoltiamo la Parola, pressioni interne ed esterne, preoccupazioni ed inganno della ricchezza, fanno si che la Parola non venga accolta totalmente. Ma in noi c’è anche la “terra bella”, quella parte adatta e aperta ad accogliere con disponibilità la Parola seminata in noi. Dobbiamo riconoscere come queste diverse situazioni di ascolto e di accoglienza siano presenti contemporaneamente in noi, come gli Apostoli di Gesù che si riconoscono nei vari terreni. Ed è a loro che Gesù apre la loro mente alla comprensione della sua Parola, dando privatamente spiegazioni aperte e chiare, non più “velate” e nascoste sotto i molteplici significati delle parabole. Il che non significa che Gesù “abbandoni” o non si prenda cura delle folle e di coloro che non accolgono la Parola, ma, e questo è nello stile di Dio, riserva a sé la libertà di salvare come Lui vuole. Alle masse è dato di “ascoltare ma senza comprendere, guardare ma senza vedere….e non si convertano…e Lui li guarisca”. Questo è predetto da Isaia, ma indica come infondo la storia dell’uomo è sempre uguale e come solo la Grazia, la benevolenza del Dio che è “grande nell’Amore” salverà l’umanità peccatrice. E’ il mistero del Male che alla fine sarà vinto e battuto per sempre dall’Amore che è Dio, non certamente per la capacità dell’uomo. E’ dunque una Parola che ci sprona ad entrare nell’ascolto e nell’accoglienza umile della Parola ma soprattutto di sperare nell’azione benigna di Dio che non permetterà che “la pioggia ritorni a Lui, senza aver realizzato ciò per cui l’ha mandata sulla terra…” (prima lettura)! I “piccoli” sono beati intanto perché vengono messi a parte del mistero del Regno ma anche perché vedono con i loro occhi pieni di fede il realizzarsi provvidenziale del progetto di Dio che certamente non fallirà contro il male. Verrebbe da pensare che se è Dio a tramutare il male in Bene, come solo Lui sa fare, allora conviene vivere liberamente e a nostro piacimento… tanto alla fine Lui metterà tutto a posto! In realtà non è così, perché c’è una grave responsabilità in ciò che ascoltiamo! Se è vero che è Lui che cambia in bene ogni male ed ogni opposizione al suo Amore eterno, è anche vero che siamo chiamati urgentemente ad entrare nell’economia della salvezza a seconda di quello che sappiamo e riusciamo a dare e sviluppare con la sua Grazia. Anche il solo bicchiere d’acqua dato ad uno dei suoi discepoli, dicevamo qualche domenica scorsa, può diventare idoneità per entrare nella salvezza di Dio! Qui sta il suo Mistero che alla fine apparirà a tutti come “opera meravigliosa”! AMEN.
LUGLIO 5-2020 XIV DOMENICA T.O.
In questo cap. 11 del vangelo di san Matteo, Gesù ci parla del modo come si presenta il mistero del Regno dei Cieli e come accoglierlo. Giovanni che si trovava in carcere manda i suoi discepoli a domandare a Gesù se fosse lui il Cristo o se bisognava attenderne un altro. Giovanni si trova spiazzato per motivi diversi. Intanto si trova in catene, lui che aveva annunciato la presenza del Cristo in mezzo a noi, poi i segni che Gesù va facendo non sembrano adatti al Messia dal quale ci si attende invece la liberazione del popolo ebraico e finalmente un riscatto sociale del popolo di Dio, come ormai da secoli la Legge stessa andava ripetendo e promettendo. Tutto questo non sembra realizzarsi in quell’oscuro predicatore nazaretano anche se compie dei segni prodigiosi. Lo stesso Giovanni aveva delineato in maniera forte il Messia con l’immagine della “scure posta alla radice dell’albero senza frutto”(Mt 3,10). E Gesù risponde a Giovanni proprio presentando “quegli stessi segni” con i quali il profeta Isaia aveva preconizzato l’Unto del Signore: “i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!” (Mt 11,4-6). Se Gesù compie dunque quei segni vuol dire che è lui Colui che attendevamo e che inaugura i tempi nuovi non con la forza e la violenza ma con la misericordia e la lotta senza quartiere contro il male. A questa presentazione che fa esplicito riferimento agli oracoli di Isaia, Gesù fa seguire l’elogio di Giovanni il Battista definendolo “il più grande fra i nati di donna” (Mt 11,11). Ma nonostante ciò che Gesù dice e opera, i maestri e i saggi di Israele, conoscitori della Legge, rifiutano di credere in Gesù perché si presenta diversamente dai loro schemi mentali e figlio di un povero falegname. Mentre proprio quei poveri e piccoli verso i quali si dirige l’attenzione e la compiacenza benefica e graziosa di Gesù sono invece disposti a credergli. “I piccoli”, cioè coloro che non pongono ostacoli a credere ma che si fidano di ciò che Gesù dice e fa. Sono i semplici come Dio è “semplice”, liberi da mentalità contorte e che vogliono tutto capire prima di credere ma soprattutto che rifiutano ciò che non è “previsto”, che è inatteso e che ci spiazza completamente. Per loro si eleva stamattina “l’inno di giubilo e di ringraziamento” di Gesù al Padre che “ha deciso nella sua benevolenza” di aprire lo scrigno del mistero del Regno dei Cieli a loro, ma di chiuderlo a quanti pensano arrogantemente di essere i detentori della Verità e quindi di non avere bisogno di un’altra Rivelazione né di una salvezza. Gesù è il rivelatore del Padre perché è il solo a conoscerlo essendo “colui che viene dal Padre” e anzi lui lo fa conoscere liberamente a chi vuole. A questa umanità provata, schiacciata e avvilita dall’antica Legge perché incapace di osservarla, umanità stanca e oppressa che attende finalmente una liberazione, Gesù si offre come colui che “dà ristoro”, riposo e riscatto, e a portare la sua Croce, la sola che può dare salvezza da ogni male, con “cuore mite e umile” come Lui. Se la salvezza è offerta a tutti, tuttavia bisogna mettersi nella disponibilità di accoglierla fidandosi di Gesù, credendo alla sua Parola e riconoscendo in Lui l’Inviato del Padre. Già il fatto di riconoscersi “peccatori” e quindi bisognosi di salvezza, come il Battista aveva costantemente richiamato con il suo battesimo ci apre a questa “Buona Novella” e ci dispone ad accoglierla. Spesso le prove della vita - noi stiamo tentando di uscire dall’esperienza traumatica del coronavirus - ci prostrano e ci gettano a terra. Gesù è il nostro solo rimedio a patto che ci lasciamo incontrare e trovare da lui. Non è immergendoci in una nuova FUGA, cieca, concitata e senza intelligenza, pur di dimenticare erroneamente e scioccamente quanto è successo – la nostra gente sembra essersi dimenticata quasi completamente di quei trentacinquemila morti solo in Italia per coronavirus – per “riprenderci e riappropriarci di quella vita” che sembrava avessimo perso per sempre, illudendoci che solo così ritroveremo la nostra felicità! La nostra felicità non è quel correre indefinito, senza sosta e senza un senso, nel tentativo di afferrare la felicità ma ahinoi, senza mai riuscirci, anzi ritrovandoci sempre più inquieti e insoddisfatti, vuoti e più che mai “bisognosi di Altro”. E’ Gesù che stamattina si presenta appunto come quell’Altrodi cui abbiamo bisogno. Nello stesso capitolo ai versetti 16-24 Gesù aveva rimproverato e quasi schernito quella massa che pur avendo visto “i segni” che Lui compiva, continuavano ostinatamente a non volergli credere. Come non vedere in tutto questo la nostra società, quella società affamata di vita, inquieta e senza pace, alla quale Gesù stesso dice: ”Venite a me voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). E’ solo “riposando in Lui” che potremo ritrovare senso e nuova vitalità in tutto ciò che facciamo. Solo così potremo accorgerci che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4) per poter così entrare finalmente nella vera Vita che è totale comunione con il divino Maestro, con il Padre, nello Spirito Santo. AMEN!
PUBBLICAZIONE DELLO STORICO FOCA ACCETTA
Articolo di Vincenzo A. Ruperto
Foca Accetta ci offre una sua graditissima nuova pubblicazione dal titolo 'FILADELFIA Città della ''Fraterna Dilezione'', edizione Libritalia Edizioni.
La sua indiscussa dote di ricercatore ha consentito di conoscere realtà storiche dei nostri borghi, ignorate o volutamente manipolate da personaggi per magnificare, con i luoghi, le loro famiglie, nascondendo o distruggendo documenti interessanti. Foca Accetta, attento e infaticabile ricercatore, ne ha rinvenuti non pochi, in archivi pubblici e privati, rendendo così giustizia alla verità storica.
Ma chi è Foca Accetta? E' socio della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, è autore di diverse pubblicazioni concernenti la nostra regione in età moderna e contemporanea. Tra i suoi ultimi lavori si ricordano:
-Simboli d'identità: il palazzo e la pinacoteca di Francia in Monteleone (sec.800-'900); Francesco Pasquale Cordopatri, patriota filantropo e collezionista d'antichità; Vito Capialbi e le sue collezioni.Festeggiamenti di San Foca Martire patrono di Francavilla Angitola.;Il serpente e il Drago.;Logiche di lignaggio, i Marzano di Monteleone.; Il Castrum e l'Aquila, identità e memorie storiche di Castelmonardo.;Il confessore di un re, canonico don Pasquale Tommaso Antonio Masdea.; Memorie del Drago.
Queste le ultime sue pubblicazioni, non dimenticando le numerose altre precedenti, notevolissime quelle sugli Ordini religiosi di Calabria, dagli agostiniani ai francescani riformati e domenicani.
La nuova pubblicazione 'FILADELFIA', corredata da pregevoli foto antiche, tratta con acclusa documentazione:
1) Organizzazione ecclesiastica in Castelmonardo e Filadelfia. 2) Filadelfia 1860- Sentimenti nazionali e vendette private. 3)Passaggio di Montesoro dal comune di Francavilla a quello di Filadelfia-1860-.4) Alternanza amministrativa lotte politiche tra '800 e '900.
Piacevole e amena lettura estiva per avvenimenti storici documentati dei nostri gloriosi borghi. Come amico, assieme agli altri amici, non rimane che ringraziarlo per questa pregevole pubblicazione.
GIUGNO 28-2020 XIII DOMENICA T.O.
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Siamo ancora nel 10 cap. del Vangelo di san Matteo. Gesù dopo aver chiamato i Dodici, uno per uno – e con loro chiama anche noi… - dopo aver dato loro quella sorta di compendio per il discepolato, in questa domenica ci dà le modalità per seguire il Signore. Cuori grandi e massimamente liberi, ci chiede il Maestro. Non si capisce quali di queste cose che Gesù ci chiede riesca ad “irritarci” di più. Saremmo tentati di… “rispondere picche” al Maestro. Non è facile chiedere a qualcuno questo distacco totale anche dai legami familiari ai quali più di ogni altra cosa noi diamo valore e importanza. Del resto nei versetti precedenti dal 37 al 39 sempre del cap. 10, Gesù aveva detto di essere venuto per “portare la spada e la divisione” proprio tra quelli di casa a causa di lui. ”Essere “attaccati” alle persone ma anche alle cose, non ci permette di seguire Gesù, diremmo che è quasi un impedimento, un ostacolo. “Non possiamo servire a due padroni….”. Addirittura l’amore eccessivo - e perciò stesso disordinato - per il padre, la madre e tutti gli altri affetti pur legittimi, non possono essere messi avanti a Gesù. Essi necessariamente devono venire dopo di Lui. Perfino l’attaccamento alla propria vita non ci rende degni del Maestro che deve venire ancor prima delle nostre presunte “sicurezze” essendo Lui la nostra sola sicurezza. Sappiamo bene quanti attaccamenti spesso inutili e che ci distraggono dal vero bene ci affliggono e spesso ci fanno soffrire. Quando non riusciamo a raggiungere un obiettivo che ci eravamo prefissati, quando non riusciamo a possedere quello che sogniamo e che desideriamo, diventiamo nervosi, inquieti, insoddisfatti e perciò stesso INFELICI! E questa ricerca spesso frenetica assorbe le nostre migliori energie che Gesù invece vuole che le impieghiamo per la missione alla quale lui ci associa e per la quale ci invia come Apostoli e discepoli. Uno sguardo semplice e limpido, come infondo Gesù ci chiede di avere ci eviterebbe tensioni e insoddisfazioni. Forse capiremmo l’essenziale che è solo Lui, il Maestro! E Gesù ci associa totalmente alla sua missione verso il mondo, fino a identificarsi con noi e a identificarci a Lui. “Chi accoglie voi accoglie me….”. Se Dio si prende cura del passero, dicevamo domenica scorsa, quanto più si prenderà cura degli amici di suo Figlio, anzi perfino “i capelli del nostro capo sono tutti contati…”! L’amore “eccessivo” e quindi “disordinato” in rapporto all’amore per il Signore dicevamo, è un impedimento perché ci fa cadere nella “paura di perdere e di rischiare ciò che abbiamo o pensiamo di avere”. Il rimedio di tutto quanto abbiamo detto è questa “accettazione della propria croce” (seconda lettura) a cui Gesù ci invita e che cambia ogni logica efficientista e utilitarista del mondo. E’ solo accettando ciascuno la sua croce che passiamo dalla morte alla vita nuova o vita da risorti come Gesù, il quale ci ricordava invece che noi siamo nelle sue mani, quindi al sicuro. Lui è la nostra garanzia e nulla fuori di Lui e dell’Amore del Padre è sicuro e garantito. Anzi addirittura se si dovesse prospettare il pericolo di mettere a repentaglio la nostra vita per Lui, dobbiamo stare tranquilli perché Lui si prende cura di noi e della nostra stessa vita più di quanto potremmo farlo noi stessi. Spesso Gesù ci invita e ci chiama alla “povertà” che non è una situazione di ristrettezza e di bisogno come noi pensiamo immediatamente, bensì quella “libertà di cuore” che ci rende liberi davanti ad ogni realtà e situazione e ci immette nella dinamica della fiducia e della fede in Dio. Non è cattiva cosa il matrimonio, ma per i discepoli del Signore può diventare un ostacolo. Gesù è il nostro Sposo! Non è cattiva cosa la ricchezza, se usata bene, ma per i suoi discepoli essa può essere un impedimento. Gesù è la nostra sola ricchezza! Non sono cattiva cosa gli affetti più sacri e giusti che noi possiamo avere, ma per i suoi discepoli possono diventare una catena al piede che ci priva della dovuta “libertà di cuore” che ci rende capaci di ”dare la vita” per il Regno e per il vangelo. Gesù e il Padre sono la nostra vera Famiglia! Senza questa libertà è molto chiaro, non è possibile seguire il Signore. Alla fine del cap. 9 di san Luca troviamo la chiamata di Gesù ad alcuni discepoli che antepongono cose legittime ai nostri occhi, come “andare a commiatarsi da quelli di casa” o addirittura andare a “seppellire il proprio padre” prima di seguire Gesù. Il Maestro ribadisce che anche queste cose vengono dopo, è più urgente seguire Lui e il suo Regno. Nulla può essere anteposto al Regno di Dio, nemmeno gli affetti più cari! Chi mette mano all’aratro e si volta indietro…, non è adatto per il Regno di Dio. C’è poi una identificazione tra Gesù e coloro che sono mandati e inviati da Lui. Chi accoglie uno dei suoi perché è suo discepolo accoglie Gesù stesso e Gesù promette che “non perderà la sua ricompensa” neppure per un solo bicchiere di acqua fresca. E’ così che succede alla donna di Sunem che accoglie Eliseo e il suo aiutante perché riconosce in lui un uomo di Dio e viene premiata dal profeta con il dono di una maternità fino a quel momento impossibile. E’ significativo quell’aggettivo “fresca”, cioè l’acqua migliore. Le cose migliori, non gli scarti, vanno date con generosità e senza borbottare a chi pensiamo di accogliere e di beneficare perché le avremo date a Gesù specie se si tratta di un “suo piccolo discepolo”. Neanche questo solo bicchiere di acqua fresca sarà dimenticato o passerà inosservato agli occhi di Dio, la qual cosa avrà la sua ricompensa nel suo Regno! AMEN!
'Il mio o il nostro paesello'
Di Vincenzo A. Ruperto
Il paese deserto, abbandonato, senza alcuna prospettiva di sviluppo sociale ed economico' ecc…ecc., sono frasi che esprimono dei giudizi derivanti dalla non esauriente conoscenza della realtà presente. Giudizi derivanti dalla conoscenza dell'antico e glorioso abitato, con i suoi rioni storici (Pendìno, Magliacane, Brossi, Fontanella, Piazza Solari, Corsi Mannacio e Garibaldi con le rughe, Tafuri, Piazza Santa Maria degli Angeli, Corso Servelli, Sorello, il Drago ecc. e le tre chiese). Non è così! Francavilla è diventata una cittadina reticolata, con diffuse ville e villette costruite in tutti i suoi 27 chilometri quadrati di territorio, dalle zone appenniniche, collinari a quelle pianeggianti. Si riscontrano anche attività produttive varie. Il territorio francavillese è tra i più olivetati di Calabria, fu ambito nell'antichità da ordini religiosi come i Basiliani, Benedettini, Cistercensi, tanto da diventare feudo dell'Abazia del Corazzo di Gioacchino da Fiore. Fu territorio tanto ambito da essere considerato come ducato, ordine nobiliare antico tra i più prestigiosi. Avevo promesso all'amico Pino Pungitore articoli in merito, alcuni già pubblicati, altri seguiranno, nella speranza che si faccia veramente conoscere la Francavilla attuale - Vedremo come, approfittando del 15cesimo anno di creazione del sito www.francavillaangitola.com . Da dove iniziare? Vediamo dalle foto.
21 GIUGNO 2020 XII DOMENICA DEL T.O.
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Siamo nel cap. 10 del vangelo di san Matteo, in cui Gesù dopo aver chiamati i Dodici, dà loro istruzioni sul come devono comportarsi e contenersi. Gesù mostra loro l’arditezza e la preponderanza della missione per la quale li chiama e li invia, esortandoli a non contare affatto sulle loro forze né a lasciarsi prendere e sopraffare dalla paura e dal timore. Devono sapere e deve essere molto chiaro che li manda “come pecore in mezzo ai lupi” e come le pecore di fronte al pericolo rischiano anche la vita ma è quella fiducia e totale abbandono in lui che li farà comunque trionfare! E’ così predice loro che “saranno consegnati” a governatori e tribunali ma lo Spirito li assisterà, per cui non dovranno preoccuparsi di cosa dire o cosa fare. Nel momento opportuno verrà loro suggerito cosa dire. Preannuncia che saranno odiati da tutti, perseguitati e ridotti in schiavitù a causa del suo nome, ma nonostante tutto non mancherà loro forza e sostegno da parte sua. Sta tutto qui il segreto della riuscita della missione e questo vale per i Dodici ma vale soprattutto per la Chiesa di tutti i tempi passati, presenti e futuri. L’arditezza della missione non ci dà modo di illuderci che ce la faremo da soli, è troppo grande e soverchia di forze, ma la nostra forza starà nella fiducia che noi avremo nel Maestro. Così è stato per lui così sarà anche per noi suoi discepoli. Quello che Gesù ci garantisce è la riuscita di questa missione perché nulla potrà mai fermare l’opera di Dio. Nel brano di questa domenica del T.O. Gesù invita e ci invita a non temere queste forze avverse. Il mondo sarà sempre contro Dio, il male cercherà sempre di opporsi a lui perché vuole realizzarsi secondo i suoi principi, la forza, la prepotenza e la violenza. Così come i pericoli ci potrebbero far cadere nel dubbio e nella sfiducia, ma qui si manifesterà la natura della nostra fede ma anche della nostra fedeltà: fede in Dio o in noi stessi? Il Regno di Dio viene e si va facendo nell’umiltà, nella debolezza, senza opporsi al male e alla prepotenza, anzi consegnandosi di fronte ad esso ma con il cuore ben piantato nella sola fiducia in Dio. Del resto gli agnelli cosa possono di fronte ai lupi se non essere sbranati e fatti a pezzi? Così è stato anche per Gesù che pur se apparentemente il male lo ha dilaniato, non ha potuto tenerlo prigioniero ma la forza di Dio lo ha liberato e sciolto dai legacci della morte stessa! Questo stesso sarà il destino dei suoi inviati, ma la vittoria finale sarà sicura per merito suo e non certo per la nostra bravura ed attitudine. Questo non è un dettaglio di secondaria importanza ma sta tutto qui il mistero della capitolazione finale del male stesso. Il Bene trionferà. Diremmo che il vangelo di oggi ci invita e ci sprona a non guardare l’immediatezza della riuscita del Regno ma semmai a guardare alla riuscita e al trionfo finale del Regno di Dio su tutto e su tutti. Evitare i pericoli è giusto, ma non deve diventare il principio della nostra vita che ci distoglierebbe da ogni occupazione e agire. Dio si prende cura di noi! E’ questo il tema centrale di questa XII Domenica del T.O. . La morte è una cosa naturale, se è giusto non cercarla, è demoniaco rifiutarla. Essa è un evento naturale, anche se il peccato ce la fa vivere male e ci fa provare angoscia al solo pensiero. Essa non è la fine di tutto, ma l’inizio dell’Altro (cioè di Dio…) e della comunione con lui. La “sapienza” della carne ci chiude nella paura della morte, la Sapienza dello Spirito ci apre alla fiducia e alla vita. E’ per questo che Gesù ci invia “come pecore in mezzo ai lupi” forti di questa fiducia nell’amore del Padre che provvede e non ci lascia mai soli dimenticandosi di noi, così come non si dimentica delle creature “minime”. E’ancora una volta un forte richiamo alla fede e alla fiducia nella Croce, nella quale viene rivelata la Sapienza di Dio, mentre viene svelata la stoltezza del mondo. Se dovessimo guardare oggi i frutti del Regno, certamente ci sarebbe da scoraggiarsi: perdita della fede e mondo scristianizzato, diminuzione in caduta libera delle vocazioni, defezioni e presenza del peccato nella Chiesa stessa. Anche il sacrificio di Gesù nell’immediatezza sembrò una clamorosa “sconfitta”, tutti lo abbandonarono e fuggirono via. Ma Colui che ha già vinto sulla morte, solo alla fine ci mostrerà il suo trionfo totale e definitivo. Qui sta la nostra speranza. E Dio non si smentisce mai! Basta considerare come davanti a Dio – ci dice Gesù – neanche un passero “cadrà senza che Dio lo voglia”. Se dunque anche il passero conta ai suoi occhi, quanto più si prenderà cura di ciascuno di noi. Anzi, addirittura ogni capello del nostro capo è contato. Nella prima lettura il Profeta Geremia si sente anche lui osteggiato e perseguitato da un mondo che rifiuta Dio ed il suo operare, aspettando solo di vedere battuto e perduto per sempre il suo Profeta. Ma è anche consapevole che il Signore lo sostiene in quest’opera che non è umana ma che viene direttamente da lui e che quindi solo su di lui può totalmente appoggiarsi e sperare. Anche noi molto spesso facciamo l’esperienza di questo indurimento da parte del nostro mondo. E se così non fosse sarebbe troppo semplice, facile e tutta in piano la nostra missione ed il nostro essere cristiani. Ma come fu per il Maestro sarà anche per noi suoi discepoli. Tuttavia certa e sicuramente vincente sarà la Storia della Salvezza, non certamente per merito nostro, ma con la forza e la sapienza di Dio. Chiamati a collaborare alla sua realizzazione dobbiamo sapere che la sua realizzazione quanto ai tempi e alle modalità è opera della Sapienza di Dio.
IN NOSTRI 15 ANNI MERAVIGLIOSI PER NOI E SOPRATTUTTO PER VOI : AUGURI
Il 19 Giugno 2005 nasceva il sito www.francavillaangitola.com . Da quindici anni il nostro sito, malgrado sia privo di risorse economiche e quantunque disponga dimezzi tecnologici modesti e limitati, si è prima sommessamente proposto, e poi progressivamente imposto come il sito informatico più visitato tra quelli che diffondono immagini ed informazioni riguardanti il nostro paese. Ringraziamo tutti per l’affetto che ci avete dimostrato in questi 15 anni di lavoro, e in modo particolare quanti hanno collaborato in vario modo con noi, inviandoci loro articoli e fotografie
Il castello del Duca dell'Infantado in contrada Eccellente.
di Lorenzo Malta
Agli inizi del 1900 Feliciano Serrao eredita dal padre Bernardino gli ex beni feudali appartenuti al duca dell'Infantado posti in contrada Eccellente nelle pertinenze territoriali del comune di Francavilla Angitola ex feudo di Mileto. Dei tre figli è Ignazio a ricevere i beni paterni in questione . Sulla superficie del fondo Eccellente è ubicato il bastione del duca dell'infantado, maestoso ed imponente , usato per la caccia ai cinghiali allora presenti . La struttura nei tempi antichi era attraversata da un"antica strada rurale che al tempo della dominazione francese fu notevolmente migliorata. Gia all'epoca di Feliciano erano stati condotti i lavori da parte della ditta John R.Dos Passos per la posa sul suo terreno del binario unico della tratta ferroviaria Battipaglia- Reggio. 'Nel 1953 Ignazio Serrao vende a due giovani imprenditori siciliani D. Faranda e N. Gitto la vasta tenuta che dalla strada litoranea giungeva fino alla strada dei Francesi. All'atto della vendita il castello risulta diviso in due quote diseguali, il Faranda ne acquista 3/4 e precisamente la porzione posta sul lato d'accesso destro e l'intera parte posteriore, il Gitto si aggiudica la parte anteriore sinistra .Purtroppo al bastione è riservato un amaro destino., Il tempo e gli eventi atmosferici presto rendono pericolante la sezione acquisita dal Faranda, dopo pochi anni egli vede crollare il soffitto rendendo parzialmente inabitabile la sua porzione. Il lato del Gitto rimane agibile e su richiesta del comune di Francavilla viene trasformato in scuola elementare per i ragazzi delle contrade Trivio - Calcarella - Barritta e Eccellente . Gli anni del boom economico sono alle porte essi impongono al Paese un processo di radicali trasformazioni. In particolare serve intervenire in modo deciso sul trasporto delle merci e sulla viabilità. Va subito potenziata la rete ferroviaria che da Salermo arriva fino allo stretto di Reggio Calabria e da qui in Sicilia insieme a questa anche quella autostradale . La linea tracciata dagli ingegneri sulle carta topografica di quella contrada prevedono che il secondo binario debba passare proprio sopra quel vecchio complesso . Così viene stabilito e a nulla valgono i numerosi interventi di personalità di spicco della politica e della cultura ( il professore Cesare Mule' la dottoressa Zinzi, Cesare Cesareo e lo stesso Natale Gitto)per risparmiare l'antico castello. Sopra la sua superficie dovranno passare i treni ed accanto le auto. I lavori iniziano il bastione si dimostra ben saldo , ragion per cui è richiesto l'uso di robusti cavi di acciaio per demolirlo, alla fine è cancellato. Alcuni grossi blocchi in pietra vengono collocati alla stazione di Eccellente altri spartiti vengono portati via.La scuola viene spostata in contrada Trivio e i possessori del complesso debbono provvedere alla sistemazione delle famiglie dei loro coloni che pure occupavano il bastione.
FINE 1ª Parte. Nella foto il dott. Nicolò Gitto, gentilmente coinvolto da me in questa ricerca mi indica l'esatta ubicazione del castello del duca dell'Infantado , ricostruito nel disegno.
14 GIUGNO 2020 DOMENICA DEL “CORPUS DOMINI”: SECONDO SCHEMA
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Sarebbe interessante poter fare un exursus storico sulla storia della Chiesa, per vedere come nel tempo divisioni, scismi, abbandoni dell’ortodossia e creazione di nuovi modi spesso arbitrari di intendere il Vangelo, ci hanno portato ad allontanarci dalla Verità che è Gesù Cristo! Così si arriva ad una concezione vaga del sacerdozio riducendolo solo a quello comune e di conseguenza dei sacramenti, in particolare l’Eucaristia che noi oggi celebriamo nella solennità del SS. Corpo e Sangue del Signore. Non può esserci Eucaristia senza sacerdozio entrambi istituiti dal Signore Gesù Cristo nell’Ultima Cena e presenti nella Chiesa fin dai primissimi giorni. La comunione e l’Unità nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo alla quale l’Eucaristia è finalizzata è ciò verso cui TUTTI dobbiamo tendere e siamo chiamati. Nella seconda lettura di stamattina san Paolo ci dice che: “Poiché vi è un solo pane (alias l’Eucaristia…), noi siamo, benché molti, un solo corpo (la Chiesa appunto): tutti infatti partecipiamo all’unico pane”. E’ per questa Unità che Cristo si immola sulla Croce e alla quale ci chiama nella celebrazione dell’Eucaristia e che conferma quanto dicevamo. Senza Unità l’Eucaristia non ha più senso, sarebbe una profonda e terribile contraddizione. Nella lunga “preghiera sacerdotale” che Gesù prossimo alla morte, eleva al Padre per noi è a questa UNITA’ che ci vuole consacrare (Gv 17,22-23) e che lui pone come sigillo insieme al comandamento dell’amore e del servizio, appunto nell’Eucaristia. Certamente come ci dice la prima lettura tratta dall’Esodo, il Pane dal Cielo è un cibo che noi non conosciamo perché misterioso ed inaspettato, ma che Dio, in Gesù Cristo ci dona appunto nel sacramento dell’Unità che è l’Eucaristia. Nel Vangelo odierno di san Giovanni, siamo nel lungo discorso sul Pane di Vita che impegna tutto il capitolo 6 e che parte dalla moltiplicazione dei cinque pani d’orzo e i due pesci che Gesù moltiplica e fa bastare oltre ogni aspettativa per ben cinquemila uomini, tanto che ne avanza dodici canestri pieni. In questo capitolo Gesù si presenta come vero Pane di Vita, intanto perché è lui ad operare quel prodigio che però rimanda ed è rivelativo della sua persona, come del resto vogliono fare tutti i SEGNI nel vangelo giovanneo. Gesù è il vero Pane di cui tutti gli uomini abbiamo veramente bisogno. Nelle tentazioni nel deserto Gesù al demonio che lo tenta di soddisfare la sua fame “trasformando le pietre in pane” Gesù risponde che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,3-4). Lui è la Parola del Padre che per noi è vero cibo capace di toglierci ogni fame che avvertiamo nella nostra vita. “La Parola si è fatta carne perché ogni carne ritrovi la Parola”! Quanti bisogni, veri o indotti e presunti oggi più che un tempo avvertiamo in noi, bisogni che ci tolgono la pace e la serenità del vivere, senza considerare che è altro ciò di cui l’uomo ha veramente bisogno! Questa nostra società che ormai decide ciò di cui abbiamo bisogno e ciò per cui battersi e lottare, impegnarsi e rincorrere, anche a dispetto di chi ci si pone dinanzi come ostacolo e che quindi va eliminato. E’ la “società” dei poteri forti : multinazionali, industrie, politici, banche, economisti e quanti riescono ad influire e a condizionare e determinare facilmente il nostro vivere quotidiano. Ne deriva che ci inducono a vivere secondo schemi determinati da loro ma non secondo ciò che è più giusto, vero e meglio per noi, ma a seconda della loro insaziabile SETE DI GUADAGNO E DI ARRICCHIMENTO. Mi chiedo dove sia più Dio in tutto questo? Lo abbiamo espulso, estromesso dal suo Popolo, dalla nostra vita, per ridurci a “popolo che vaga nelle tenebre”, senza più punti di riferimento certi, privo di sapienza e di intelligenza, preda e in balia di questi poteri forti che riescono ad avere la meglio su tutto e su tutti e a farci inseguire e ricercare ciò che non è necessario, facendocelo apparire bello e desiderabile, essenziale e da afferrare ad ogni costo, per farci sentire “come Dio”, come successe con il famoso albero dell’Eden! E ci accorgiamo solo dopo che abbiamo “afferrato” e mangiato…, di essere “nudi, divisi in noi stessi e più soli di prima…, paurosi perfino di Dio che invece ci ama e si fa prossimo”, sempre alla ricerca di nuovi soddisfacimenti e sempre più inquieti. Come rispecchia bene questa realtà che abbiamo appena mostrato, il dopo coronavirus; questa società ansiosa di riprendere la stessa vita di prima, le solite cose che facevamo, i soliti “sballi”, le solite vacanze abbandonati…”mollemente” al sole, la “movida”, questa nuova parola che fa tendenza come tante altre oggi e che indica un movimento frenetico e senza sosta, confusione che ci fa cadere in una sorta di torpore senza più forza di volontà né lucidità, non più padroni di noi stessi e persi, anonimi nella folla o “popolo della notte”! Le tenebre del mondo, il buio della morte, del male e del peccato, sono questi! Ma come dicevamo domenica scorsa, Dio fa sentire dentro di noi la sete, il desiderio, il bisogno mai sopito che abbiamo di Lui soltanto, instillando e provocando in noi stessi quella “inquietudine del cuore” che solo in Dio può essere saziata e acquietata trovando pieno appagamento! Quante persone dopo una vita trascorsa e sciupata nel divertimento e nella ricerca del puro piacere, incontrano Dio e cambiano radicalmente modo di vivere ma soprattutto lo scopo ed il vero senso per cui vivere. Alla fine del lungo discorso sul Pane di Vita, la folla comincia a girare le spalle a Gesù, nonostante abbia mangiato quei pani del miracolo, per andarsene, per ritornare ad immergersi nel vuoto di una vita e di una esistenza “sballata”, affermando l’incapacità a comprendere quel discorso così alto e spirituale che può comprendere solo chi attraverso la fede entra in sintonia con il divino Maestro. Siamo chiamati a credere non a “capire”! Proprio loro che hanno visto dei “segni” si rifiutano di credere alla sua Parola. E’ il fallimento umano di Gesù che invece conosce e soddisfa appieno i bisogni del cuore dell’uomo. Come non vedere in queste persone i nostri fratelli separati che hanno una concezione del Pane Vivo quasi come un semplice simbolismo e non “una realtà viva e vera”. Gesù parla in termini molto concreti e reali: parla di mangiare - masticare, di bere – trangugiare e che entrambe, mangiare – bere equivalgono a CREDERE. Non c’è spazio per i fraintendimenti. E lo capiscono benissimo coloro che non volendo arrendersi alla fede, gli girano le spalle e se ne vanno lasciandolo solo perché la ritengono una cosa pazzesca, impossibile secondo loro. Non può realizzare e dare la Vita ciò che non è Vita. Se il Pane e il Vino di cui parla Gesù, non sono VERA CARNE e VERO SANGUE di Lui, non possono dare la Vita eterna nutrendosene! E’ un discorso apparentemente duro quello che solo la fede può rendercelo credibile. Ma lui non si spaventa e non cerca di fermare quella folla di “dissidenti”, anzi ne prova compassione. Ma ora rivolge ai Dodici, a noi che ascoltiamo, la famosa domanda “Volete andarvene anche voi…?”. Gesù non cerca di trattenerci obbligandoci magari con la forza. Ci lascia massimamente liberi di credere cioè di “fidarci di lui”, aspettando che la sua Parola si apra una strada nel profondo del nostro cuore, magari sostenuti e aiutati dalla sua Grazia, attraverso quel piccolo spiraglio nel nostro cuore che la nostra profonda e totale insoddisfazione di noi stessi, ha lasciato. Bella e deliziosa è la risposta di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di Vita eterna…e noi abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Gesù ci propone quale rimedio al non senso del nostro vivere, la gioia e la felicità che ci dà la piena comunione con lui, attraverso l’Eucaristia, segno della piena comunione e della Vita che è in Dio e solo in Lui: “In verità in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la Vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la Vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”. Il mangiare-masticare la carne e il bere il sangue di Gesù ci immette stabilmente in quello stesso rapporto di Amore che c’è tra Padre e Figlio e ci fa partecipare della stessa Vita, anticipandoci quella che sarà nel suo Regno. La metafora del pane diventa la carne ed il sangue che Gesù dà per la Vita del mondo. Ma la “carne” di Gesù non è una metafora, bensì la realtà stessa del suo farsi Agnello immolato sulla Croce per tutta l’umanità. Mangiando, o meglio “masticando” Lui, entriamo in comunione d’Amore con il Padre che lo ha mandato. Questi ci immette nella Vita eterna: Gesù non ci dice che non moriremo mai ma che a causa di questo “suo donarsi per noi in cibo”, passiamo dalla morte alla Vita cioè alla resurrezione come fu per Lui. Mangiando Lui veniamo assimilati a Lui, entrando insieme a Lui eternamente nella Vita del Padre stesso. Come dicevamo la scorsa domenica: Dio è Amore perché ci ha dato tutto di sé fino a farsi nostro cibo. Il darsi di Gesù nella sua carne e nel suo sangue è un forte richiamo alla sua passione sulla Croce. E’ lì, nella “sua ora” che ci da tutto questo, nel momento di massima rivelazione dell’Amore di Dio! Chi non mangia-crede e non beve di Lui, resta nella morte. E’ questo che ci fa pienamente felici e ci impedisce di cadere nel vuoto dell’essere, nel non senso dell’esistenza e della vita, in quella depressione che definisce il “male del vivere” e che nonostante le tante “movide” nelle quali possiamo immergerci, ci sentiamo soli e sperduti in questo mondo che sembra impazzito e privo di ogni controllo. AMEN!
7 GIUGNO 2020- DOMENICA DELLA SS. TRINITA’
Da sempre l’uomo, credente o no, per un motivo o per un altro, ha voluto e desiderato conoscere Dio in maniera diretta, quasi a garanzia e tutela delle tante incertezze, paure e lati oscuri della sua esistenza che lo portano a tutte quelle domande di senso che la sua stessa vita impone senza poterle evitare, pena quella infelicità esistenziale che acuisce le sue paure di riscoprirsi creatura fragile e limitata, destinata a scomparire nella morte. Nelle letture di questa solennità troviamo delle indicazioni quanto mai preziose che illuminano quanto dicevamo, anzi ci riempiono di gioia e infondono speranza. Intanto la prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, la liturgia ci presenta un Dio che si autoproclama “un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6) a queste affermazioni Mosè risponde prostrandosi dinanzi a lui e chiedendo grazia, favore e benevolenza per quel popolo dalla “dura cervice” affinché gli perdoni i peccati commessi contro di lui, per farne “la sua eredità”, cioè il popolo di sua proprietà. Nella seconda lettura, dalla seconda lettera di san Paolo ai Corinzi, dopo un invito alla “gioia” troviamo una formula liturgica chiaramente trinitaria: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” con cui Paolo chiude la sua stessa lettera. E’ una formula con cui la Chiesa saluta spesso i fedeli, nella stessa speranza e con gli stessi sentimenti con cui la pronunciava l’Apostolo Paolo, affinché uniti in comunione di carità, possano trovare il favore del Dio uno e trino che il Figlio stesso ci ha rivelato e fatto conoscere, quello stesso favore che nell’AT veniva espresso con la formula del “Dio con noi…, Dio con voi….” ecc . Il “Dio con noi” l’aspirazione, il desiderio, il sogno che tutti gli uomini hanno sempre avuto, anche se nel più profondo segreto del loro cuore. Direi e sono convinto che anche chi non crede, pur inconsapevolmente nel profondo del suo inconscio cerca questo! “Se Dio è con noi – dice san Paolo – chi sarà contro di noi”? Avere Dio dalla propria parte significa non essere né sentirsi più soli e smarriti come spesso ci sentiamo di fronte ai pericoli, ma avere la certezza che Qualcuno si prende cura di noi e non ci lascerà mai soli e sperduti in balia delle bufere e delle tempeste del vivere quotidiano. Anzi questo Qualcuno ci porta tra le sue braccia e ci fa superare ogni ostacolo seppur con fatica e trepidazione. Nel brano di Giovanni, in questo dialogo tra Nicodemo capo dei Giudei e Gesù, questi si manifesta come la certezza, la sicurezza dell’Amore che ha spinto il Padre a mandare nel mondo il suo unigenito Figlio, “perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Non era forse questo ciò che sin dalle origini del mondo gli uomini stavamo cercando? Poteva esserci una Notizia più bella di questa? Ora non abbiamo più bisogno di cercare un dio che si prenda cura di noi, è lui stesso che ci viene incontro e si manifesta attraverso il suo stesso unigenito Figlio Gesù Cristo, Dio d’Amore, Dio che addirittura arriva a sacrificarsi per noi, Dio che mette in gioco la sua vita per riscattarci dalla morte e dall’oblio della non vita. Questo Dio è Amore che si dona senza fine, attraverso quel Figlio che nulla e nessuno potrà mai toglierci, anzi ci invita ad entrare in Lui, nella sua stessa Vita attraverso la fede nel Figlio – e non c’è altra via – per riceverne tutti quei benefici e conseguenze positive che non possiamo neppure immaginare con la nostra mente. Benefici e conseguenze che non sono racchiudibili e comprensibili nei confini troppo ristretti della nostra vita terrena, ma che varcano e travalicano i confini stessi dell’Eternità, l’Eternità di Dio! Così il suo “spazio” diventa il nostro spazio, il suo Regno diventa la nostra Terra verso cui tutti tendiamo e siamo diretti. Dio si è manifestato a noi per donarci la sua stessa Vita di eternità. Anzi ci ha tanto amato da mandare nel mondo il suo Figlio a sacrificarsi per noi manifestandoci così TUTTO il suo Amore, un Dio Amore che ci chiama all’Amore. E’ questo il senso del “bacio santo” di Paolo. “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita – dice san Giovanni – perché amiamo i fratelli…. chi ama conosce Dio…. chi non ama resta nella morte”. Negli scritti di san Giovanni questo è un ritornello martellante, supplichevole e quasi benevolmente ossessivo: “Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. Il Dio di amore esige che ci amiamo tra di noi perché la Vita risiede nell’Amore ed è l’Amore che ci fa entrare in comunione con Dio dandocene quella conoscenza tutta interiore che è Amore purissimo e che diventa essa stessa “esperienza” di Dio. Amore e conoscenza in san Giovanni si equivalgono: non c’è amore senza conoscere e non si conosce se non si ama. Ed ecco perché il Dio dell’AT non aveva e non poteva avere immagini, perché l’amore non ha immagini se non i segni, i gesti attraverso i quali si dà e si fa conoscere e sperimentare: il farsi Crocifisso per amore degli uomini! Inutile lambiccarsi il cervello per tentare di capire come sia possibile un Dio Uno e Trino allo stesso tempo. Non ci capiremmo granché! Ma apprestiamoci invece a sperimentare un Dio, il Dio di Gesù Cristo che si manifesta nella famiglia Trinitaria: il Padre ama dall’eternità il suo Figlio in questo eterno scambio di Amore reciproco che è lo Spirito Santo! Il Figlio è Amore che è “generato” eternamente dal Padre, lo Spirito Santo è Amoreche “procede” dal Padre e dal Figlio fin dall’eternità! A questa esperienza di perfetta comunione, per amare ed essere riamati, oggi più che mai siamo chiamati in nome della SS. Trinità! L’Amore è forte come la morte dice il libro del “Cantico dei Cantici” (Ct 8,6). Dice ancora san Giovanni nella sua prima lettera: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Qui conosciamo Dio, qui si fa e sta tutta l’esperienza del Dio Uno e Trino. AMEN!
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
30-31 MAGGIO 2020 DOMENICA DI PENTECOSTE
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Con la solennità di Pentecoste, “cinquanta giorni dopo Pasqua”, si conclude il ciclo pasquale, la Pasqua raggiunge il suo culmine con l’invio nel mondo dello Spirito Santo, il nuovo modo attraverso il quale Cristo Risorto si manifesta presente, vivo ed operante in mezzo a noi. Quando parliamo di “Spirito” siamo in un campo totalmente diverso dal nostro, quello di esseri “terrestri e materiali” che hanno bisogno di riferimenti spazio-temporali per comprendersi e sperimentarsi, percepirsi mentre interagiscono con altri individui nostri fratelli, in poche parole per sentirsi “VIVI”! Noi uomini abbiamo bisogno di braccia e di gambe, di mezzi fatti da noi per muoverci e rapportarci agli altri, per comunicare, comprendere e farci capire, per conoscere. Quando parliamo di “SPIRITO” salta tutto questo. La stessa esperienza di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli, non è altro che un riferire, raccontare un’esperienza “spirituale” dello Spirito di Dio e che inevitabilmente il racconto stesso subisce una “diffrazione”, una sorta di “forzatura” dialettica ed esperienziale di un qualcosa che non ha nulla di tangibile e di materiale, di visibile o comunque percepibile con i sensi. E’ ovvio che non possiamo ridurre l’esperienza dello Spirito di Dio a fiammelle che si posano sulla testa, fulmini, tuoni e vento impetuoso, terremoto e cose del genere per parlare del dono dello Spirito. Proprio perché egli è SPIRITO, ha modi misteriosi totalmente diversi dai nostri per comunicare e per comunicarsi a noi, per operare e trasformare l’uomo rendendolo “creatura totalmente nuova” e realmente immagine e somiglianza del suo Creatore, immagine fedele di Gesù Cristo, Uomo nuovo, primizia della Nuova Umanità. I segni che ci riporta il libro degli Atti e i Vangeli, sono i segni attraverso i quali Dio ci fa capire che qualcosa di profondamente misterioso ma reale, sta accadendo, anzi “ci” sta accadendo pur non comprendendone la portata. Diversamente non potevamo capire e forse neanche accorgerci di quanto stava accadendo. Quelli che abbiamo riferito sono i segni più esteriori, ma poi ci sono i segni interiori, o se vogliamo più “spirituali” di quanto accade ed è accaduto nella realtà. Oltre a ciò che gli Apostoli hanno visto e sentito, il loro animo pauroso ed insicuro, dubbioso e pronto a ricredersi, diventa franco e senza timori, libero da umani condizionamenti, pronto ad affrontare ogni prova fino alla morte, una fede forte e incrollabile nel Maestro tornato dai morti, una convinzione lucida e serena, sicura in ciò che dicono e che fanno. E’ una cosa che non ha spiegazioni a livello razionale, anzi del tutto misteriosa e che ha dell’incredibile. Chi sono i veri Apostoli: quelli che camminavano con Gesù e che davano continuamente prova di non capirlo, di non fidarsi totalmente del Maestro e pronti ad abbandonarlo nei momenti cruciali e più compromettenti specie se si paventava il rischio della vita, o quelli che dopo la Pentecoste sembrano totalmente altri: coraggiosi, sprezzanti del pericolo, operatori di segni prodigiosi, capaci di discernere i cuori degli uomini per leggervi tutto quanto è contenuto in essi nel bene e nel male, pronti a raggiungere i confini del mondo per portare la Buona Novella loro che non si erano mai allontanati dal lago di Tiberiade, in grado di annunciare una Parola chiara e penetrante, dimostrando una Sapienza che non può essere loro, come mai avevano fatto prima? Quelli di prima sono gli stessi di dopo, solamente che c’è da credere che sia successo qualcosa di inaspettato e di insospettabile. Nessun trucco o mistificazione. Questa è stata solamente l’esperienza dell’effusione dello Spirito di Dio su quei poveri, pavidi ed ignoranti pescatori galilei. Anche il “fenomeno” della “glossolalia”, per il quale tutti gli stranieri capivano ciò che gli Apostoli andavano esponendo e annunciando con risoluta franchezza, ciascuno nella propria lingua nativa è umanamente inspiegabile. Siamo immersi nel Mistero della manifestazione di Dio. C’è abbastanza materiale per credere o per dubitare. Nulla ci costringe. Ma chi non crede nega l’evidenza frastornante di una realtà pur misteriosa ma reale, autentica, avvenuta ad un primo gruppo di Dodici pescatori ma che continua ancor oggi nella Chiesa magari con meno clamore e spettacolarità. Un altro cambiamento dobbiamo notare in quegli uomini: la gioia. Cuori tristi e sconfortati nonostante l’esperienza delle apparizioni del Signore Risorto delle quali anzi, qualcuno ancora dubitava e che stavano ancora chiusi a porte sprangate per paura dei Giudei che non li aveva ancora abbandonati. Difficile credere in un “Morto” che torna in vita e parla, si muove, torna a mangiare insieme a noi, entra a porte chiuse nel luogo dove si trovavano! Dopo l’effusione dello Spirito Santo escono tutti fuori e cominciano a denunciare coraggiosamente i Giudei di essere gli assassini del Figlio di Dio, invitandoli alla conversione e a farsi battezzare nel nome del Dio Uno e Trino come Gesù aveva invitato inviandoli nel “mondo”. Ma la cosa che più li caratterizza è quella gioia inspiegabile che non li abbandonerà mai più, neppure mentre stanno per morire, testimonianza suprema e credibile dell’esperienza che hanno avuto dell’oscuro Maestro di Nazaret, crocifisso, morto e risorto il terzo giorno. Come dimenticare il dolore, la delusione, l’animo avvilito e disfatto dei due discepoli di Emmaus, la sera stessa della Risurrezione del Maestro, nonostante camminino per strada insieme con Lui? Era davvero necessario che Gesù tornasse al Padre per dare il via a quella trasformazione o meglio “trasfigurazione” a cui solo il suo Spirito, lo Spirito Santo, lo Spirito della Resurrezione poteva dare corso, come avvenuto nei suoi Apostoli. Dicevamo due domeniche fa come il libro degli Atti degli Apostoli è un libro tutt’ora aperto, perché se negli scritti vediamo la Chiesa nascente corroborata, ispirata e guidata dallo Spirito Santo, bene, quel tempo è attuale e si chiuderà solo alla fine dei tempi, quando finirà il tempo e la storia terrena e si aprirà quella celeste ed eterna nel regno del Padre. In “questo tempo” lo Spirito continua ad operare, ad agire, a santificare, ad illuminare e dare sapienza e conoscenza delle cose di Dio. E’ Gesù che ci dice: “Ho ancora molte cose da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso, ma lo SPIRITO che io vi invierò dal Padre, Lui vi condurrà alla Verità tutta intera”. Comprendiamo come “l’esperienza dello Spirito” è l’esperienza più alta che possiamo fare. E’ l’esperienza a cui ogni cristiano che dicasi veramente tale, deve giungere. E tuttavia questa missione di vitale importanza che ha come fine la salvezza eterna di tutti gli uomini, cammina rispettando i tempi di crescita di ciascuno. La “Verità tutta intera” come promesso da Gesù, si fa gradualmente, man mano che lo Spirito Santo ci dà di capire e a seconda dello spazio che noi gli facciamo nel nostro cuore. Nel primo concilio di Gerusalemme, dove gli Apostoli compreso Paolo litigano per decidere se era il caso di fare circoncidere i cristiani che provenivano dal mondo ellenistico, rispetto a quelli del mondo giudaico. Si decide, non senza discussioni per il NO, cioè se crediamo che è Cristo che salva, non c’è bisogno di circoncidersi “la carne” per essere salvati. Quel rito apparteneva all’antica legge che in Gesù Cristo ora è superata dalla nuova. Nel tempo numerosi saranno i momenti in cui la Chiesa si riunirà in Concilio per pronunciarsi su verità più o meno decisivi ed essenziali per la vita spirituale dei cristiani, a seconda che lo Spirito suggerisce ad essa. In un mondo così frastornato e frastornante, dove il silenzio, l’ascolto profondo anche di se stessi, la meditazione ed il pensiero sono schiacciati dal rumore, dalla distrazione, dall’eccessivo dinamismo ed efficientismo ed in cui Dio sembra essere “morto”, assente ed escluso, torna urgente la necessità di ascoltare, meditare, pregare, relazionarsi nello Spirito a quel Dio che nulla ha risparmiato per sé ma tutto ci ha donato nel suo Unico Figlio per amore nostro. Diversamente dovremmo prendere atto non della “morte di Dio” ma dell’uomo che ha smarrito la sua peculiarità più essenziale: la sua profonda spiritualità che deriva dal suo essere figlio nel Figlio di Dio! Amen. Cristo è Risorto, Alleluja!
Nuove disposizioni, a partire dal 18 maggio. Per il bene di tutti, vi invitiamo a rispettare le seguenti regole.
17 MAGGIO 2020 - VI DOMENICA DI PASQUA OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Questo lungo discorso fatto a più riprese (la prima parte sembra concludersi alla fine del cap. 14 al v. 31 quando il Signore invita ad alzarsi e “andare via di là”…) che Gesù ci fa da alcune settimane e che chiamavamo “i discorsi di addio” nel Cenacolo, è di una profondità di sapienza e di rivelazione abissale. Gesù ci rivela quello che è Dio stesso: “Amore che si dona senza limiti e senza condizioni” e ci apre alla comprensione di quello che il Padre vuole da noi: lasciarci amare e credere in Lui e nel suo amore. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho mandati perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Se Dio è Amore quale miglior frutto se non l’Amore? La conoscenza del Dio Amore ci porta ad amare perché solo questo lui vuole ed esige da noi. E’ questo che ci insegna il gesto e il segno scandaloso della lavanda dei piedi e fino a che punto dobbiamo chinarci sugli altri come ha fatto lui. Solo così noi potremo celebrare in verità l’Eucarestia, il segno visibile, anche se nel sacramento, del suo permanere tra di noi, in noi e con noi. Ma Gesù stamattina vuole prepararci ad un altro evento. Lui sta per “tornare al Padre” e vuole che non ci sentiamo orfani perché ci manderà “un altro Consolatore, un altro Paràclito” che il mondo non può ricevere “perché non lo vede e non lo conosce”. Ma noi lo conosciamo perché rimane presso di noi e in noi. NOI che abbiamo ricevuto la rivelazione del Padre da parte di Gesù. NOI che crediamo nel suo Amore. NOI che stiamo uniti a Gesù come il tralcio alla Vite, perché “senza di lui non possiamo fare nulla” e lo sappiamo bene perché lo sperimentiamo ogni istante! NOI che come suoi amici viviamo il mistero della Croce, la sua Croce, come momento di rivelazione dell’Amore più grande e che a questo siamo chiamati, a confrontarci e a conformarci gradualmente. NOI amici di Gesù perché accogliamo i suoi comandamenti e ci sforziamo di osservarli aiutati dalla sua Grazia. NOI che siamo amati dal Padre perché amiamo il figlio suo Gesù Cristo. A NOI è promesso e donato in abbondanza lo Spirito Santo, Spirito del Risorto e dono della Resurrezione. Senza questo dono la Resurrezione sarebbe incompleta perché non formerebbe la Chiesa in questo tempo di attesa tra “il già e il non ancora”, iniziato ma non ancora compiuto, almeno in noi, viandanti e pellegrini nel tempo. Siamo nel cap. XIV ai versetti 14-21 del vangelo di san Giovanni. Mentre nei versetti precedenti dello stesso capitolo dall’ 1 al 14 i verbi insistenti sono credere-conoscere-vedere-sapere, in quelli di stamattina sono amare, ripetuto fino alla fine del capitolo ben dieci volte! Questi verbi definiscono la relazione tra il discepolo, Gesù e il Padre. Mentre “credere” è azione di occhi e di intelligenza, amare è questione di cuore e di volontà che cioè desidera ciò che “vede e conosce”. In questo vangelo di Giovanni, credere-conoscere-vedere-amare indicano la stessa cosa. Amare diventa la forma più alta del credere e del conoscere. “Chi ama conosceDio” dice san Giovanni nella sua prima lettera, perché “Dio è Amore”, chi non ama non conosce Dio e resta nella morte. La Vita di cui ci parla Gesù è “relazione amorosa” col Padre. E’ l’amore che ci mette in relazione profonda con Dio. La nostra “fede”, fatta di osservanze e di consuetudini, di esteriorità che nulla cambiano nel nostro modo di vivere, di conformismi e di assuefazione al mondo pagano e materialista del nostro post-modernismo, molto ha da imparare e da cambiare. Proprio ieri mattina durante la s. Messa, Papa Francesco metteva in guardia dalla mondanità anche la stessa Chiesa. Questo volersi conformare con il mondo esterno cercando di “truccare e abbellire artificiosamente” ogni cosa, quella ricerca sfrenata di successo e di protagonismo, di arrivismo e carrierismo. Solo l’Amore non si può “truccare”, far sembrare ciò che non è, fingere. L’Amore c’è o non c’è, non possiamo contraffarlo e camuffarlo. E’ per questo che Gesù ci porta con il suo esempio che noi dobbiamo imitare e farlo diventare il nostro stile di vita, ad altezze vertiginose, il “dare la vita per l’altro” che non vuol dire solamente che io “debba morire” per gli altri, ma mi pone in un’ottica di disponibilità, di accoglienza e di servizio totale verso i miei fratelli. E’ questo che rende la mia vita più bella e pienamente realizzata. In questa parte centrale del vangelo di san Giovanni che si snoda per ben 5 capitoli - dal 13 al 17 - l’evangelista ci sta facendo compiere un cammino di “conversione”, di cambiamento d’ottica, di rivoluzione del nostro modo di credere, di vivere e di amare, mentre ci va via, via, rivelando il vero Volto di Dio. Noi cosiddetti cristiani, ma che ancora dobbiamo “diventarlo”, nulla facciamo se non per un nostro tornaconto, spesso anche nella Chiesa, ma non per colpa della Chiesa. E’ colpa nostra se siamo egoisti, se poniamo il nostro IO al centro di tutto, se cerchiamo la nostra felicità a discapito di quella degli altri, se perdiamo la capacità di essere lievito e luce perché i modelli che il mondo ci offre ci suggestionano a tal punto da perdere il senso profondo delle cose ed il buon sapore della vita, la sapienza delvivere che consiste nel saper amare, nel servire i fratelli, nel condividere ogni cosa, nel volere il vero bene dell’altro, nel perdere la mia vita per l’altro. Pensavamo che il cristianesimo fosse andare a messa la Domenica, “Giorno del Signore” per eccellenza, qualche preghiera magari saltuaria e pure qualche elemosina…, magari a Natale, quando tutti devono essere e si sentono più “buoni”! Abbiamo faticato magari a colpi di gomitate, per farci strada nella vita e nella professione, schiacciando ed eliminando chi sembrava farci ombra e diventava un ostacolo in questo nostro avanzare nella società come un rullo compressore. Quella ragazza, Silvia Romano, liberata dalla prigionia dei sequestratori e che ha cambiato fede e anche l’abito che indossa dopo appena un mese dalla prigionia…, abbracciando quella musulmana, ma che secondo me non è molto credibile. E’ certo, se noi la fede la riduciamo a quello che abbiamo fin qui elencato…., non credo che restino motivi validi per continuare ad essere cristiani. Magari arrivando poi a gettare via la nostra vita facendoci saltare in aria per motivi ideologici, ma credo più politici…, uccidendo insieme a noi decine e decine di esseri umani innocenti! Meglio sarebbe fare professione di ateismo allora…! Perché la nostra vita non l’abbiamo donata prima per gli altri, seguendo ciò che Gesù, il Figlio di Dio, l’Unico che ha dato la sua Vita per salvarci dal male e dalla morte del peccato, ci ha insegnato? E chi perde la sua vita per me e per gli altri la trova ci dice il nostro Divino Maestro! Gesù in questo cammino di conversione e di cambiamento di mentalità ci sta chiedendo di “fidarci di Lui, di non avere paura, di avere fede in Lui, di stare uniti a Lui come il tralcio alla Vite…”. Sta qui il segreto della Vita. Se noi faremo ciò che Gesù ci chiede allora tutta la nostra esistenza starà al sicuro e nemmeno se i sequestratori ci togliessero la libertà e ci torturassero, abbandoneremmo la nostra fede perché lo Spirito della Resurrezione, datoci in abbondanza e riversato dentro di noi ci darà la forza e il coraggio per restare, nonostante tutto, fedeli a Lui. Allora saremo veramente risorti con il Risorto, allora saremo con Lui e in Lui veramente rinati a Vita nuova e già nell’orizzonte della Vita eterna che non avrà mai più fine. Nella Chiesa fin dagli albori è sempre stato così. E Gesù non si smentisce mai! Nella prima lettura tratta dal libro degli Atti, Filippo insieme agli altri discepoli annuncia Cristo Risorto, opera segni straordinari, la sua parola converte migliaia di ascoltatori, non perché sono…più “bravi” degli altri, ma semplicemente perché si fidano del Maestro, camminano con il Maestro e parlano con la forza dello Spirito Santo nel suo Nome. Gli Apostoli….! Gente paurosa e senza coraggio che si sono venduti il Maestro per 30 monete d’argento e lo hanno rinnegato per paura di essere scoperti amici del Nazareno, ormai votato e condannato alla morte di Croce e dalla quale loro fuggono abbandonandolo al suo destino. Come mai allora sono così cambiati? Non è umanamente razionale e comprensibile. Lo Spirito Santo, Spirito della Resurrezione li ha cambiati. E’ questo il modo attraverso cui Gesù rimane con noi e ci accompagna, ci guida e ci rafforza fino alla consumazione dei secoli, quando entreremo tutti nel suo Regno per contemplare e godere dell’Amore senza limiti e senza età: il Padre di Gesù e nostro Padre nel Figlio. Gesù non ci lascia orfani, cioè SOLI. AMEN. Il Signore è veramente Risorto, alleluja!
10 MAGGIO 2020– V DOMENICA DI PASQUA
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Siamo ancora una volta nel Cenacolo con Gesù. In queste ultime settimane diverse volte ci siamo trovati in questo luogo che è “il convenire della Chiesa” intorno al Maestro che sta lasciando le ultime istruzioni ai suoi amici più intimi, a noi. Certamente strani amici che non capiscono fino in fondo quei discorsi che Gesù va facendo. Ha lasciato un segno misterioso che noi chiamiamo “ultima cena” quasi fosse il pasto, l’ultimo del condannato a morte. E questo noi sappiamo per esperienza post pasquale che… non è l’ultimo bensì il “primo”, l’inizio. Gesù ci dice “fate questo ogni volta che ne mangiate”. E poi ci lascia quel segno non meno importante, sconvolgente e scandaloso del lavarci i piedi. Lui il Maestro e Signore si china, si abbassa davanti a noi poveri peccatori, traditori pronti a rinnegarlo quando il pericolo si affaccia sul nostro orizzonte vitale, che si umilia fino all’inverosimile. Lui, Gesù, il Signore dei signori! Stamattina ci fa dei discorsi strani dei quali non capiamo dove va a parare. Ci parla di una partenza ma anche di un ritorno, di una preparazione di posti che attendono ciascuno di noi e che noi dovremo un giorno occupare, ciascuno il suo. Cari fratelli, questi lunghi discorsi di addio non dobbiamo leggerli come solitamente facciamo tutti d’un fiato. Dobbiamo immaginare delle pause, dei lunghi silenzi durante i quali gli apostoli fanno quelle domande smarrite e cariche di attesa a Gesù. E’ come ascoltare la goccia d’acqua che cade in una caverna e che noi ci sforziamo di ascoltare nel silenzio più profondo. Anche noi chissà quante domande abbiamo da fare al Signore. E Gesù interrompe il suo discorso che parte dal suo Cuore divino e comprende e percepisce il loro e nostro smarrimento, le nostre paure. Specialmente in questo periodo così carico di incertezze, di aspettative, di entusiasmi che ci fanno dimenticare ogni prudenza, di paure e di smarrimenti di fronte al futuro che ci aspetta, spettri che presagiscono disoccupazione, povertà, progetti a rischio. Gesù ci dice: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” è l’invito rivolto a TUTTI noi. Aver fede in Dio. Che significa aver fede, abbandonarsi totalmente senza riserve, fidarsi ciecamente di lui. In quale Dio noi crediamo? In un Dio che ci elimina ogni problema e ci risolve i nostri guai che DEVE prendersi cura di noi, perché diversamente a che servirebbe un dio se non ci togliesse le castagne dal fuoco? Siamo tutti pronti per ripartire, ricominciare, aspettando, sperando di poterci fare finalmente, dopo un inverno così carico di paura e rinunce, di chiusure e di mancanze di effusioni affettuose ed espressive del nostro amore verso le persone per noi più significative, le tanto sospirate e attese vacanze. Dopo un inverno così carico di morte, di incertezze, di dubbi e timori, di distacchi e distanziamenti sociali. Finalmente l’estate, il sole, il mare, la “libertà”, i viaggi verso posti incantati da favola, la ripresa di quelle attività culturali di cui ci nutriamo avidamente per crescere, per spalancare i nostri confini intellettuali e umani pur leciti. Le stesse cose solite che facevamo già prima del “FERMO” a causa del coronavirus! Gesù nel chiuso del Cenacolo ci dice che lui va via… per “prepararci un posto” e che anzi, quando l’avrà preparato tornerà per prenderci con sé affinché possiamo stare sempre con lui. Noi sogniamo le vacanze, Gesù ci vuole offrire un posto. Qui si moltiplicano le domande di Tommaso detto “Didimo”, il “gemello”, gemello a noi ma anche gemello a Gesù. Tommaso è un ricercatore vuole capire e questo spiega anche il suo rifiuto a credere quando i discepoli gli raccontano dell’apparizione di Gesù nel Cenacolo, dopo la Risurrezione. Ma in questo brano sono presenti anche le preoccupazioni per le difficoltà e i pericoli interni ed esterni della comunità, della Chiesa. I pericoli interni: difficoltà a credere, defezioni e tradimenti, divisioni, liti, dubbi. I pericoli esterni: l’ostilità dell’ambiente, oggi come allora, la secolarizzazione, la scristianizzazione e la perdita della fede. Gesù continua insistentemente ad invitarci ad avere fede in Lui. Gesù indica se stesso come la Via che conduce alla conoscenza del Padre. Ma Dio, “Nessuno l’ha mai visto”, solo Colui che discende dal Padre lo ha visto e lo conosce e lo fa conoscere a chi crede in lui. Gesù è il rivelatore del Padre ma ciò che realmente è. Dio è Amore ci dice ancora s. Giovanni. E proprio nel momento che Gesù si appresta a vivere, la sua morte in Croce, ci rivela totalmente l’amore del Padre. Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo a morire per i peccatori. E’ la Croce la rivelazione più alta, totale e definitiva di Dio. E’ nella Croce che si manifesta il volto paterno di Dio. Tre personaggi: Giovanni, Giuda e Pietro. Tre personaggi che siamo ciascuno di noi che pensiamo di poter amare Dio con le nostre sole forze. Pietro quasi si scaglia quando Gesù rivela la sua imminente passione. Ancora non ha capito niente. Giovanni diversamente dagli altri tre evangelisti, non ci riporta nel racconto dell’ultima cena l’istituzione dell’Eucarestia, ma si sofferma invece e a lungo nel descriverci il gesto della lavanda dei piedi, o meglio il gesto dell’abbassamento di Dio fino all’uomo e per amore dell’uomo. Quel gesto che si concretizza e si compie sulla Croce. Un gesto che occorreva comprendere e che va al di là di un rito vuoto. “Amatevi come io vi ho amati” e “Chi ama conosce Dio” ci dice ancora s. Giovanni. E’ nell’amore che si compie la salvezza del mondo e solo nell’amore. I tre personaggi che abbiamo citati non sono amati diversamente a seconda del loro comportamento, ma tutti alla stessa maniera. E qui sta lo scandalo della Croce! Noi spesso pensiamo erroneamente che Dio ami i buoni e i giusti, mentre per i reprobi e i cattivi riservi una “giustizia” che rimetta a posto le cose. Giuda non è stato amato meno di Giovanni e di Pietro sol perché hanno avuto atteggiamenti e risposte diverse nei confronti di Gesù. Ma tutti alla stessa maniera. Questo significa il comando del Signore “come io vi ho amati”. Il “come” diventa il discriminante che indica fino a che punto noi cristiani, discepoli e seguaci di Cristo dobbiamo amarci e amare. Questo significa che Dio continua ad amarmi nonostante i miei innumerevoli peccati ed infedeltà. La nostra fede diventa un abbandono incondizionato tra le braccia del Padre che mi porta e mi sostiene nelle mie infedeltà, nei miei tradimenti, nei miei rinnegamenti. Non sono io ad amare Dio. Non potrei mai! Ma è Lui che ama me incondizionatamente. Certamente il peccato più grave che potrei commettere è pensare che Dio non mi ami. “Dio ha tanto amato il mondo da darci il suo Figlio”. Non siamo noi ad amare Dio ma è Lui che ci ama per primo. In questo senso Gesù è Via, Verità e Vita. E’ Via che rivela e conduce al Padre, non può esserci altra via al di fuori di Lui. E’ Verità che mentre rivela l’Amore di Dio rivela ciò che siamo realmente: creature piccole, fragili, spaventate dalle mille difficoltà ma chiamate a fidarci di Dio e solo di Lui. E’ Vita che ci viene donata nello Spirito Santo effuso nei nostri cuori e che noi conosciamo nell’atto di amare i fratelli come Gesù ci ha lasciato come testamento, con la forza che Egli ci dà. E noi dobbiamo accettare questa nostra quasi incapacità ad amare, consapevoli che senza di Lui non possiamo fare nulla, se non lasciarci amare ed avvolgere dalla sua Grazia. Fratelli miei. Il messaggio che la Parola oggi ci porta è incoraggiante e ci rassicura non certamente nelle nostre capacità a fare tutto da soli, saremmo battuti e avremmo fallito fin dall’inizio. Ma riconoscendo i nostri limiti e spesso la nostra cattiveria, non lasciarci condizionare da quella ostilità che spesso vediamo davanti a noi negli altri e nel mondo e che ci rende più problematico amare, ma credere che l’Amore e solo l’Amore ha la meglio su tutto. Coraggio ci dice Gesù, Io ho vinto il mondo! Dobbiamo si ripartire, ma con questa sicurezza, questa certezza nel cuore che con Gesù tutto è possibile. Lui ha sconfitto la morte per eccesso di amore verso di noi e ci ha restituito a quella Vita che è la comunione e la visione del Padre. Questo è il posto che Gesù ci ha preparato. Dio non può abbandonarci! AMEN!
Il Signore è veramente Risorto, Alleluja.
03 MAGGIO 2020 – IV DOMENICA DI PASQUA
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Questa quarta Domenica di Pasqua, ma come corre il tempo…, troviamo il brano del Pastore Bello, come Colui che si pone come Porta d’ingresso dell’ovile delle pecore e solo attraverso la quale è possibile entrare per trovare riposo, pascolo fresco, ristoro per le nostre anime. Non è un caso che la giornata di oggi sia come ogni anno dedicata alle vocazioni. Anche qui abbiamo molto da imparare noi come Chiesa. E dico noi che cerchiamo riconoscimenti, titoli, applausi, favore e sostegno in tutto ciò che facciamo. Gesù non ha cercato tutto questo. Ed è proprio Gesù, il Buon Pastore, colui che è la Porta, a dirci come fare per appartenergli, come fare per ascoltare e riconoscere la sua voce, come diventare quasi i padroni del suo cuore divino. Chi sono coloro che presumono ed esigono di entrare dentro il recinto per altre porte, per altre vie che non sono quelle del vero Pastore? Vedete, fratelli, noi non comprenderemo mai abbastanza come Gesù Cristo Figlio di Dio non è venuto sulla terra per lasciarci chissà quale religione o vuoto rito con “l’obbligo” di aderirvi e da osservare e celebrare. Vi erano e ci sono già tante religioni con i loro riti e le proprie tradizioni, visto come noi siamo morbosamente attaccati alle “tradizioni”! Non era di questo che avevamo bisogno. Gesù il buon Pastore non viene per insegnarci una filosofia, bastavano quelle dei Greci veri maestri nel pensiero speculativo. Dio non è un concetto da capire e fare nostro ma semmai siamo noi a dover fare si che diventiamo suoi: i suoi figli! Mi preoccupo quando vedo tanti di noi che fissiamo lo sguardo sulle tante immagini con cui adorniamo e arricchiamo le nostre chiese, ma dimentichiamo di fissare lo sguardo della Fede su Colui che della Fede è il datore e il dispensatore. Mi preoccupo quando vedo quelle immaginette stucchevoli con quel pastore bellissimo sotto il profilo estetico, ma così inespressivo dal punto di vista teologico della Verità. Gesù sulla Croce non attirava lo sguardo per la bellezza, ma si faceva spettacolo d’Amore fino all’estremo limite tale da ridursi ad essere inguardabile. Qui sta tutta la teologia del Buon Pastore. Quelli che sono venuti prima di lui Gesù li chiama “ ladri e briganti” perché lontanamente dal prendersi cura delle pecore loro affidate le hanno sfruttate e si sono nutriti a loro discapito. Gesù si distingue dagli altri perché per noi ha dato tutto se stesso. Anche la sua divinità l’ha messa a nostra disposizione e nulla ha trattenuto per se stesso senza condividerlo con noi. La Resurrezione del Signore nulla avrebbe da dirci se non fosse in questa linea. Quando a Pietro sulle rive del lago di Tiberiade viene chiesto dal Risorto per ben tre volte: “Pietro, mi ami tu più di costoro?” ,il povero Pietro per ben tre volte deve rispondere affermativamente di si. Ma è un “SI” che lo porterà, come il Maestro e Buon Pastore, a dare la vita per lui donandola per i fratelli. Solo perdendosi per i fratelli Pietro potrà manifestare il suo amore per il Maestro. Noi ci illudiamo quando entriamo nelle chiese e particolarmente quando celebriamo l’Eucarestia, tornandocene a casa senza nulla condividere con i fratelli e senza nulla fare per gli altri. Pensiamo scioccamente ed ingenuamente o forse perversamente che quattro preghiere e una messa ascoltata bastino per ingraziarci i favori divini. Come siamo lontani! Non è questo il cristianesimo. Non è così che apparteniamo al Buon Pastore. Come il Pastore Buono ha dato la vita per noi, anche noi dobbiamo dare la vita per gli altri, diversamente anche noi saremmo “ladri e briganti” a cui non importa nulla delle pecore ma solo della nostra vita. In questi giorni lunghi e terribili durante i quali in mille modi abbiamo tentato di sconfiggere la paura, la solitudine e l’isolamento, magari illusoriamente, cantando dai balconi oppure continuando giorno e notte a stare “collegati” via Internet ai nostri amici e parenti, forse ci hanno insegnato che la VITA è un bene assoluto, da preservare e proteggere come se potessimo chiuderlo in una cassaforte, garantircelo. Ma ci hanno illusi, anzi ci siamo illusi! Gesù ci insegna che la vita ci è stata donata perché la doniamo. In questi giorni pur ammirandoli, ci siamo sentiti “fortunati” per essere rimasti “vivi”, sopravvissuti, rispetto a quanti medici, infermieri o altre categorie varie che invece hanno “perso” la vita per servire e salvare altre vite. Non abbiamo capito nulla! Ricordo quel sacerdote che ha donato il suo respiratore per un ammalato più giovane di lui ma perdendo la sua vita. Proprio il Buon Pastore ci insegna che la vita la ritroviamo perdendola, donandola, giocandocela a favore degli altri. Diversamente l’avremmo persa irreparabilmente! Se non avremo imparato da questa orribile esperienza di precarietà, di fragilità e di debolezza, in cui abbiamo toccato con mano la nostra situazione di piccolezza ed il nostro essere esposti ad ogni rischio che non deve portarci alle chiusure e agli isolamenti, a guardarci dagli altri perché potenziali “untori” e trasmettitori di virus e di morte, ma semmai a restare sempre aperti e disponibili per gli altri, allora veramente e per davvero noi saremo rimasti chiusi e prigionieri della MORTE, quella vera, mentre coloro che si sono persi per gli altri avranno ritrovato per sempre e per davvero la loro vita. Questo non è un pensiero mio, ma Gesù Maestro, il Pastore Grande tornato dalla morte ci insegna tutto ciò. E’ questo il senso vero della Pasqua, oltre quelle funzioni e tradizioni che non abbiamo potuto vivere a causa del coronavirus. Se la cosiddetta “ripartenza” non sarà un ricominciare come uomini e donne nuovi nel cuore e nella mente, per ricreare rapporti nuovi e solidali con tutti, da veri fratelli, avremo perso e vissuto inutilmente questa esperienza che lungi dall’essere inutile e dannosa, poteva diventare una grande scuola e maestra di vita. Proprio ieri nella memoria di s. Atanasio, grande Vescovo, maestro e Dottore della Chiesa, il Santo Padre richiamava ai nostri amati e spesso contestati politici la necessità e il dovere in un momento come quello che ci troviamo a vivere, di restare uniti, così come pure all’Unione Europea. Uniti si vince diceva Papa Francesco, divisi e separati siamo definitivamente perduti! L’indecente spettacolo mentre si lotta per la vita e che ci stanno offrendo i nostri politici che trovano il tempo e la voglia di fomentare polemiche e divisioni, deve farci gridare inorriditi e scandalizzati. Così non andremo da nessuna parte. Si continuerà a tirare ciascuno per la propria strada, anonimi, separati anche se apparentemente “liberi” dove ciascuno continuerà illusoriamente la sua battaglia personale per la propria sopravvivenza, ma saremo appunto dei “SOPRAVVISSUTI” e noi non vogliamo assolutamente “sopravvivere” ma VIVERE, essere protagonisti offrendo la nostra vita ed esistenza. Consapevoli come Gesù ci ha mostrato ed insegnato che solo perdendo la vita, mettendola a servizio dei fratelli possiamo ritrovarla. Solo così ascolteremo e riconosceremo la voce del vero Pastore e lo seguiremo per la via della Vita che solo lui conosce e coloro ai quali lui stesso lo rivelerà. Si, insieme a Gesù e con Gesù soltanto “ce la faremo”, senza di Lui tutto sarà perduto! Tutto questo 2020 è un anno speciale, non perché diverso, ma perché il fermo obbligato, il silenzio che ancora tutto avvolge perfino le nostre stesse vite, deve portarci alla purificazione, alla sedimentazione di tutto quel chiasso e quella frenesia spensierata che fino ad ieri caratterizzava le nostre esistenze e le nostre storie quotidiane. Siamo nel mese di Maggio, il mese più bello dell’anno dedicato interamente a Maria, Madre del Buon Pastore, anzi… del Bell’Amore. Chiediamo a Lei che si faccia ancora nostra compagna di viaggio, che ci assista e ci illumini e continui sempre a sollecitarci ad ascoltare e seguire solo il Figlio suo Gesù, Buon Pastore. Con Lei maestra, la “ripartenza” sarà più bella e più sicura. AMEN!
75° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE – 25 APRILE 1945/2020
DUE PARTIGIANI FRANCAVILLESI QUASI SCONOSCIUTI: Antonio CARUSO e Foca PIZZONIA (a cura di Vincenzo Davoli)
Il 25 aprile 2020 si celebra il 75° anniversario della liberazione dell’Italia dall’oppressione nazifascista. Per questa importante ricorrenza vogliamo segnalare i nominativi di due cittadini francavillesi che nel periodo 1944-45 militarono nelle formazioni partigiane del Nord Italia: Antonio CARUSO e Foca PIZZONIA.
All’infuori dell’insegnante Vincenzo Caruso, unico figlio maschio del suddetto partigiano Antonio, nessun altro concittadino conosceva le vicende di questi due francavillesi, i quali, dopo aver partecipato alla prima fase della seconda guerra mondiale come soldati regolarmente arruolati nel Regio Esercito italiano, nella seconda fase della guerra (quella dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 tra Italia e gli Anglo-americani)volendo lottare contro i nazifascisti, nel 1944 si erano aggregati ai partigiani operanti in Piemonte, entrando ambedue nelle “Brigate Garibaldi”, rispettivamente nella 177ª, Foca Pizzonia, e nella 179ª, Antonio Caruso.
Il merito di aver scoperto i loro nomi va attribuito a Fausto Rondinelli, che, grazie alle sue ricerche storicheappassionate ed accurate, è riuscito a reperire nel sito “istoreto.it”dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “GIORGIO AGOSTI” le schede personali dei due partigiani nativi di Francavilla Angitola.
Antonio CARUSO nacque a Francavilla A. il 15-09-1922, da Vincenzo e Caterina Servello. Da giovane agricoltore, prima di svolgere il servizio militare, coltivava la terra (soprattutto oliveto) posseduta dalla sua famiglia. Durante il 2° conflitto mondiale venne arruolato come Soldato il 24-05-1941; giunse alle armi il 26-01-1942 ed assegnato al 23° Reggimento Fanteria; con tale ruolo partecipò ad operazioni di guerra nei Balcani, e precisamente nella Croazia, dall’11-8-1943 fino all’8-9-1943, data in cui fu annunziato l’armistizio poc’anzi ricordato. Nei giorni successivi all’armistizio, il nostro Soldato fu catturato dai Tedeschi, che controllavano quella zona dell’ex-Jugoslavia, e subito fu trasferito in Germania, in qualche campo di prigionia o in un cantiere di lavoro, dove gli venne attribuita la qualifica di I.M.I., ossia di internato militare italiano. Non si conosce per quanto tempo l’internato Antonio Caruso sia rimasto in Germania; neppure si sa in quale data e in quali circostanze egli riuscì a rimpatriare. Ad ogni modo, in un documento (datato 15-5-1946)rilasciato dalla Commissione Regionale Piemontese per accertare la qualifica di “partigiano” e nella scheda del sopra menzionato “istoreto.it” si attesta che Antonio Caruso prestò servizio nella “179ª Brigata Garibaldi” dal 01/05/1944 al 08/05/1945 e pertanto acquisì il diritto ad ottenere la qualifica di “partigiano combattente”. La “Brigata Garibaldi”, dove per un anno intero militò A. Caruso,operava in provincia di Cuneo, e precisamente nelle Langhe e nelle valli e colline limitrofe. Da buon partigiano, il nostro Antonio assunse come nome di battaglia quello di GIMMY, un epiteto di stampo americano, allora molto popolare tra gli uomini della Resistenza.
Nel dopoguerra il Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà –CVL conferì ad Antonio Caruso il BREVETTO di PARTIGIANO – N° 053419, con la seguente motivazione: “Combatté per la libertà nella guerra partigiana che arse sui monti nei piani nelle città d’Italia contro i nemici all’umanità e alla Patria”.
Tra le firme apposte in calce al brevetto si riconoscono quelle di Ferruccio Parri, di Raffaele Cadorna, di Luigi Longo e di Enrico Mattei, futuro presidente dell’ENI.
In data 25 ottobre 1965 il Comandante del Distretto Militare di Catanzaro, in riconoscimento dei sacrifici sostenuti da Antonio Caruso nell’adempimento del dovere in guerra, gli conferì tre distinti attestati:
-Croce al Merito di Guerra - 1^ concessione, in quanto combattente nella II guerra mondiale;
-Croce al Merito di Guerra, per internamento in Germania– 2^ concessione;
-Croce al Merito di Guerra, in seguito ad attività partigiana – 3^ concessione.
Tornata la pace, dopo essere stato tanto tempo lontano dai suoi cari, A. Caruso poté finalmente rientrare a Francavilla; desiderando mettere su casa e famiglia, Antonio sposò la compaesana Concettina Ciliberti e fissò la sua abitazione in via Roma 6. Dal matrimonio sono nati due figli, Caterina e Vincenzo, che portano gli stessi nomi dei nonni paterni. Entrambi i figli hanno studiato all’Istituto Magistrale e poi sono stati insegnanti elementari. Antonio Caruso è morto a Francavilla il 16 giugno 1983, all’età di 61anni.
I nipoti del partigiano “Gimmy” sono 5: quattro maschi e una femmina. Figli di Caterina “Rina” Caruso e del sindacalista “Ciccio” Russo sono i dottori: Vincenzo Russo, odontoiatra, e Antonio, avvocato.
Gli altri tre nipoti sono figli del suddetto Maestro Vincenzo “Cecè” Caruso e della di lui moglie, la Maestra Rita Cimino, originaria di Nicastro; in ordine di età sono: Antonio Caruso junior, di professione avvocato, Maria Concetta Caruso, dottoressa ingegnera informatica e delle telecomunicazioni, e Michele Caruso, dottore in legge, consigliere comunale, nonché assessore della Giunta di Francavilla Angitola.
Foca PIZZONIA era nato il 25-02-1920 ed era il terzogenito di Paolo e di Torchia Rachele. Prima di lui erano nati la sorella Anna ed il fratello Vincenzo. I Pizzonia del ramo di Foca erano agricoltori molto capaci e laboriosi, ma soprattutto erano apprezzati come abili ed esperti potatori di ulivi, di piante da frutto e di viti. Nel primo periodo (1940-43) della II guerra mondiale si consumò la triste vicenda di Vincenzo Pizzonia.
Come soldato di fanteria Vincenzo fu mandato a combattere sul fronte montano greco-albanese, assai tormentato dal freddo glaciale di quell’inverno (1940-41; non essendo protetto da un equipaggiamento adeguato a quel rigido clima, già il 28-2-1941 gli fu riscontrato un congelamento di I e II grado ai piedi. Fu subito rimpatriato e ricoverato per le prime cure nell’ospedale militare di Bisceglie (Bari). Successivamente gli fu accordata la licenza di rientrare a casa per la convalescenza, con l’impegno di continuare a curarsi gli arti ancora non guariti e con l’obbligo di sottoporsi a periodiche visite di controllo presso l’ospedale militare di Catanzaro. Per oltre un anno Vincenzo rimase in Calabria, alternando le giornate di cura e convalescenza a Francavilla con frequenti ricoveri brevi e visite di controllo nel suddetto ospedale militare; nel frattempo si era fidanzato ufficialmente con la compaesana Maria Bilotta. Un giorno della primavera 1942 Vincenzo doveva andare a Catanzaro per sottoporsi all’ennesima visita di controllo. A causa della guerra, il servizio di corriera tra Filadelfia/Francavilla e Catanzaro c’era solo una volta alla settimana; poiché quel mattino i posti della corriera erano già tutti occupati, Vincenzo, fermamente intenzionato a raggiungere Catanzaro, salì sul tetto del bus appollaiandosi tra le valigie e vari bagagli. Ma una guardia municipale, che stava controllando la partenza della corriera, gli intimò di scendere immediatamente, e non volle ascoltare le giustificazioni di V. Pizzonia, che era stato precettato per sottoporsi a visita di controllo. Nacque un diverbio tra Vincenzo e la guardia; fra i due contendenti volarono ingiurie, spinte e ceffoni. Pizzonia fu subito fermato e quindi condotto al carcere di Filadelfia con l’accusa di aver oltraggiato un pubblico ufficiale. Fu liberato dopo alcuni giorni di detenzione a Filadelfia, ma gli fu inflitta una punizione esemplare; pur non essendo completamente guarito dal congelamento, venne trasferito all’ARMIR, cioè al Corpo di spedizione militare italiana in Russia, ed inviato a combattere in prima linea sul fronte russo del fiume Don. Trovandosi di nuovo su un fronte gelato, per di più continuamente bersagliato dai tiri d’artiglieria e dai bombardamenti dei Russi, il povero V. Pizzonia morì il 4-01-1943 in un ospedale da campo dove era stato ricoverato perché gravemente ferito da un bombardamento o mitragliamento nemico.
Anche Foca Pizzonia fu coinvolto nella II guerra mondiale, ma per sua fortuna si trovò nelle retroguardie, in quanto arruolato nel Servizio di Commissariato come soldato della 58ªSezione di Sussistenza; pertanto Foca badava al rifornimento viveri, forse era cuciniere o preparava il rancio dei soldati, oppure era fornaio.
Nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, Foca con il suo reparto si trovava nella zona di Cuneo. Per i militari italiani quello fu un periodo di grande incertezza e confusione; erano persone sbandate che non sapevano cosa fare. Incerti sulle scelte da compiere: se tornare ciascuno alla propria casa; se restare alleati dei Tedeschi; se provare a mettersi in contatto con gli Inglesi e gli Americani, che però nel settembre 1943 erano comunque lontanissimi dal Piemonte, dato che allora erano impegnati ad occupare tutta la Calabria e a predisporre uno sbarco in grande stile a sud di Salerno. Siccome Foca si trovava a più di 1000 km di distanza dal suo paese e dai suoi cari, per non incappare in guai peggiori e per non correre rischi con i fascisti e i Tedeschi, che di fatto avevano assunto il controllo della zona in cui Foca allora si trovava, ossia la parte pianeggiante della provincia di Cuneo, il nostro soldato francavillese decise, come male minore, di aggregarsi alle milizie fasciste. Viceversa i militari antifascisti del Regio esercito italiano e vari gruppi armati di partigiani (civili, contadini, operai, studenti, giovani donne ecc.) in prevalenza si rifugiarono nelle colline (come le Langhe e il Roero), nelle valli e nelle zone montane del Cuneese.
Il 23-9-1943 Mussolini istituì la Repubblica Sociale Italiana –RSI, con sede del governo nella cittadina di Salò (BS) sul lago di Garda. Successivamente il 20-11-1943 il governo della RSI costituì la Guardia Nazionale Repubblicana –GNR, con compiti simili a quelli dei Carabinieri, ossia per vigilare sull’ordine pubblico e per tenere sotto controllo il territorio. Dalla scheda personale di Foca Pizzonia, redatta sempre da “istoreto.it”, risulta che già in data 15-10-1943 Foca era stato arruolato a Cuneo in qualche reparto della RSI. Rimase aggregato alle milizie fasciste dal 15-10-43 al 03-07-1944, assumendo il grado di Milite della Guardia Nazionale Repubblicana, allorquando la stessa GNR fu costituita ufficialmente (20-11-1943).
Stando a contatto con i fascisti italiani e i nazisti tedeschi, e non avendo concrete speranze di tornare presto dai suoi cari a Francavilla, pian piano Foca maturò l’idea di recidere i legami con questi individui che non gli piacevano affatto. D’altronde Foca e tutta la famiglia Pizzonia, compresa Maria Bilotta (che era stata fidanzata di Vincenzo) ce l’avevano a morte con i fascisti francavillesi, accusandoli di aver perseguitato Vincenzo così tanto da farlo trasferire sulla prima linea del fronte di guerra in Russia, dove poi purtroppo era morto. E maledicevano anche Mussolini, che aveva mandato tanti giovani italiani allo sbaraglio, senza vestiario e senza equipaggiamento adeguati per affrontare i climi rigidi delle montagne albanesi (1941) o della gelida steppa russa (inverno 1942-43). Inoltre Foca non se la sentiva di combattere o di andare a rastrellare quei militari italiani che si erano dati alla macchia, unendosi ad altri uomini e a donne delle bande partigiane; né tantomeno voleva rischiare di essere internato in campi di lavoro o lager di prigionia della Germania. Perciò, quando arrivò il momento più opportuno, Foca si staccò dalle milizie fasciste e s’aggregò ad una delle formazioni partigiane attive nella provincia di Cuneo. Si trattò della 177ª Brigata Garibaldi;Foca fu aggregato alla suddetta Brigata dal 04-07-1944 al 12-11-1944 con la qualifica di“Patriota”.Poiché Foca era nato in Calabria e dimostrava di essere un uomo astuto e molto scaltro, quando era partigiano gli fu affibbiato il nomignolo SCALABRINO, un nome di battaglia assai azzeccato perché negli antichi vocabolari della lingua italiana indicava certi uomini calabresi furbi e scaltri come il diavolo.
Non sappiamo se Foca, dopo il 12-11-1944, riuscì subito a rientrare a Francavilla; comunque, quando fece ritorno a casa, riprese a lavorare in campagna e manifestò il desiderio di sistemarsi e di prendere moglie. Con l’accordo dei suoi familiari, nell’immediato dopoguerra (anno 1945) Foca sposò Maria Teresa Bilotta, ossia la donna che era stata fidanzata del fratello Vincenzo, morto in Russia nel gennaio 1943; il nome del soldato Vincenzo Pizzonia giustamente fu poi inciso sulla lapide del Monumento ai Caduti in guerra, inaugurato a Francavilla Angitola il 4 novembre 1968. Nel 1947 nacque la prima figlia di Foca e Maria; fu chiamata Rachele, come la nonna paterna. Sempre a Francavilla nacque la seconda figlia, di nome Concetta (come la nonna materna), che negli Stati Uniti viene denominata Connie. Il terzo nato fu un maschio; a lui non venne dato il nome del nonno Paolo, bensì il nome “Vincenzo”, in onore dello sfortunato omonimo zio Caduto in Russia, che era stato anche il primo fidanzato di Maria T. Bilotta, mamma appunto del nuovo rampollo della famiglia di Foca Pizzonia.
Nel 1955 i coniugi Foca e Maria Pizzonia, con i tre figli nati a Francavilla, emigrarono negli Stati Uniti. Si stabilirono nel Connecticut risiedendo prevalentemente ad Hartford, capoluogo di quel piccolo ma popoloso Stato, sito poco ad est della città di New York. Negli Stati Uniti da Foca (ormai chiamato Frank, anche dagli amici italo-americani) e da Maria nacquero altre tre figlie, denominate in ordine cronologico: Teresa, Anna e Lucy (ovvero Lucia). Sistematosi in modo stabile negli USA ed assunta la cittadinanza americana, il nostro emigrato trascorse negli Stati Uniti tutto il resto della sua lunga esistenza.
Il francavillese di cognome PIZZONIA, denominato “Foca” nell’atto di nascita del 1920 a Francavilla Angitola; poi soprannominato “Scalabrino” quando fu partigiano nella 177ª Brigata Garibaldi; ed infine chiamato “Frank” quando visse negli USA, morì il 20 marzo 2009, all’età di 89 anni, nella città di Albuquerque, città dello Stato del New Mexico, ossia del Far West americano, dove probabilmente era stato trasferito per trascorrere l’ultimo periodo della sua vita, ricoverato e assistito in una casa di riposo per anziani.
VINCENZO DAVOLI
POST SCRIPTUM
Oggi 25 aprile 2020 il canale 23 di RAI Movie ha trasmesso il film documentario di Ermanno Olmi “Nascita di una formazione partigiana”, realizzato nel 1973. Tra i vari episodi della lotta partigiana il documentario ha ricordato l’efferata uccisione di Spartaco e Giovanni Barale, della 177^ Brigata Garibaldi, dove per qualche tempo militò Foca Pizzonia. Giovanni Barale (1887-1944), padre di Spartaco, fu il primo segretario della Federazione comunista di Cuneo; nel 1943 costituì una banda partigiana nella zona di Boves (CN). Il 31 dicembre 1943 G. Barale cercò di avvertire le altre brigate della zona che i tedeschi e i fascisti stavano per effettuare un massiccio rastrellamento. Purtroppo Giovanni fu intercettato dai tedeschi presso Castellar di Boves e nella sparatoria fu ferito gravemente ad una coscia; comunque trovò rifugio in una chiesa. Avvertito dell’incidente, il figlio Spartaco, con il compagno G. Rigoni, cercò di correre in aiuto al padre ferito. Ma anche i due soccorritori furono intercettati dai tedeschi ed uccisi nello scontro a fuoco (1° gennaio 1944). Poco dopo i tedeschi rintracciarono Giovanni Barale ed uccisero anche lui. La sera di quel Capodanno, 1° gennaio 1944, i soldati nazisti diedero alle fiamme i cadaveri dei tre partigiani cuneesi. Da quel momento la 177^ Brigata Garibaldi, a cui poi s’aggregò Foca Pizzonia, fu intitolata a Giovanni Barale.
12 Aprile 2020 PASQUA MESSA DEL GIORNO
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Con questa Domenica di Pasqua, siamo alla conclusione ma anche alla ripartenza di questo lungo cammino quaresimale che quest’anno è stato particolarmente sofferto e sentito di più perché più “pesante” ma che forse, anzi certamente ci ha aiutato a fare più Pasqua. L’altro giorno qualcuno si lamentava e mi diceva che quest’anno la gente, senza manifestazioni esterne, non sente la Pasqua. E’ perché noi purtroppo, solitamente ci fermiamo alle esteriorità. Noi invece dobbiamo arrivare al cuore, alla sostanza delle cose e di queste nostre feste. Ricordo una bella poesia del Pascoli che diceva: “C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anzi d’antico…”. E’ la famosa poesia ”L’aquilone”. Io oggi avverto questa novità, in questo marasma sociale ed esistenziale nel quale ci ha gettato il coronavirus. Oggi c’è qualcosa di diverso. Gesù è risorto! Questa notte abbiamo “svelato “ il Risorto, questa immagine che è una forzatura della Risurrezione, un nostro bisogno di rappresentarci visivamente il “Mistero”, perché nessuno è stato testimone oculare del fatto della Risurrezione. Testimoni sono i Discepoli, ma del post Risurrezione, dei segni della Risurrezione: il famoso giardiniere visto da Maria che va al sepolcro come ci dicono i vangeli sinottici, per imbalsamare il corpo di Gesù, perché non c’era stato il tempo la sera del venerdi Santo. I due ladroni insieme a Gesù quella sera vengono tirati giù dalle rispettive croci, Gesù in particolare, perchè dopo il tramonto del sole sarebbe iniziato il giorno solenne della Pasqua ebraica ed essendo giorno di festa solennissima per gli Ebrei, non potevano toccare i cadaveri perché si sarebbero contaminati e dunque non potevano celebrare poi la Pasqua da “contaminati”. E’ importante questo fatto. Allora lo hanno avvolto frettolosamente in bende e messo il sudario sul capo come ci riferisce anche il vangelo di stamattina e lo chiudono nella tomba in attesa dopo la Pasqua di continuare in quest’opera di preservazione del corpo di Gesù. Nel vangelo di questa domenica, Maria di Magdala di buon mattino si reca al sepolcro per imbalsamare appunto il corpo di Gesù e con grande meraviglia vede questa grande pietra, immaginate una pietra da mulino ma molto più grande, tale che una sola persona non avrebbe potuto spostarla e che serviva per occludere e sigillare l’ingresso del sepolcro che come era uso di allora erano scavati nella roccia come delle grotte. Lì viene deposto il corpo di Gesù. Maria esterrefatta vede questa pietra rotolata via e vedendo l’ingresso libero ha modo di entrare e vedere quel primo segno: la tomba vuota. Notiamo come Dio per parlare con gli uomini, usa il loro stesso linguaggio fatto appunto di segni. I segni sono importanti ma vanno capiti e interpretati. Il primo segno è appunto la tomba vuota. Maria non vede il corpo di Gesù ed ancora non comprende quel fatto, quell’evento. Stamattina è tutto un correre. Dopo questa scoperta Maria si mette a correre per andare a portare la notizia ai Discepoli del Signore. Maria arriva, dà la notizia e altri due personaggi a loro volta si mettono a correre, Pietro che è il più anziano e Giovanni, il più giovane, il discepolo che Gesù amava e che la sera del giovedi aveva poggiato il suo capo sul petto di Signore. Ed essendo più giovane rispetto a Pietro, Giovanni arriva per primo, si china, per entrare infatti occorreva abbassarsi perché l’ingresso era basso e vede le bende per terra, afflosciate su se stesse, ma Giovanni non entra. Aspetta l’anziano del gruppo, il capo che era appunto Pietro il che indica il rispetto che c’era verso di lui. Pietro quando arriva vede le bende per terra ed il sudario, piegato bene e riposto a parte. Dobbiamo spiegare come i vangeli sono i racconti post pasquali cioè dopo la Risurrezione, per cui i fatti narrati vengono rivisti e riportati alla luce della Risurrezione. Notiamo dunque il rispetto verso l’autorità di Pietro che Gesù stesso gli aveva attribuito con le parole: “Tu sei Pietro e su questa pietra (il fondamento) edificherò la mia Chiesa…”. Pietro è ancora con noi. E’ il Santo Padre che in queste sere stiamo vedendo così affaticato ma non per la fatica dei riti, affaticato per il dolore del mondo. Il Papa porta il dolore del mondo sulle sue spalle, come Gesù. Santa Caterina da Siena chiamava il Papa “il dolce Cristo in terra” e come Cristo si carica di tutti i pesi degli uomini e li porta sulla Croce per liberarci dall’oppressione di questi pesi, per liberarci dall’oppressione di questa enorme pietra tombale. Dicevamo questa notte come ieri mattina abbiamo sepolto due nostri fratelli, un fratello e una sorella, nostri paesani e chiusi in quei loculi con questa pietra tombale sulla quale possiamo scrivere e incidere le cose più impensate: “Nobiluomo”, “Nobildonna” ma non serve a niente. E’ una pietra che ci chiude ma non definitivamente. Ricordate l’episodio della vita del grande vescovo do Molfetta, don Tonino Bello, il quale un giorno vedendo la grande croce di terracotta della cattedrale, dove si stavano eseguendo dei lavori, poggiata al muro. Il parroco “poverino” in un certo senso ma provvidenzialmente ispirato nell’altro, appose un cartello di fianco con su scritto: “Collocazione provvisoria”, affinché i turisti non pensassero ch era il posto e la sistemazione definitiva. Don Tonino che oltre ad essere un grande vescovo era anche ispirato gli è balzato subito alla mente come la Croce, ma questo vale anche per la nostra croce, il coronavirus e tutte le croci che possono terrorizzarci e incutere paura, sono “collocazione provvisoria”. La nostra morte, quando anche noi saremo chiusi nel sepolcro come i nostri due fratelli e come gli ormai quasi ventimila morti in Italia per il coronavirus, anche questi sono “collocazione provvisoria”, tumulati alcuni, cremati e ridotti a ceneri mute e poste in quelle piccole urne cinerarie, un giorno il Signore li restituirà alla Vita. Questo è il risvolto della Risurrezione. Essa non riguarda solo Gesù, riguarda ciascuno di noi. E’ questa la speranza. Il coronavirus passerà sicuramente. Troveranno un vaccino per il quale pare che siano già a buon punto. Altre malattie verranno, per altri motivi noi moriremo. Non è questo il fatto più importante. Questo è nell’ordine delle cose, nell’avvicendarsi di esse, nel trapasso delle cose e nei trapassi epocali per cui tutte le cose che hanno un inizio avranno una fine. Ma la speranza è questa: che noi uniti a Cristo Risorto non moriremo mai. La nostra vita non finirà più, perché questo germe di eternità, attraverso l’incarnazione di Gesù, attraverso la sua passione, morte e risurrezione è stato inoculato in noi. Come il famoso serpente del Paradiso terrestre, come lo scorpione con il suo aculeo mortale aveva inoculato nell’umanità il veleno della morte, la Risurrezione di Gesù ci dà l’antidoto, ci dà il vaccino contro questa morte e quindi essa non potrà più niente contro di noi. Questa è la novità della Pasqua. E’ questa la novità di cui dicevo all’inizio e che sento circolare oggi nell’aria. Quindi non solo la paura del coronavirus, ma la speranza che Gesù risorto ci porta. Se restiamo uniti a Cristo siamo già, fin d’ora, nella Vita. A me dispiace che questa mattina l’Eucaristia possa prenderla solo io, ma essa è già entrare in questa dinamica di eternità, di vita che non finisce più. Però non perché sia una proprietà nostra, ma perché Gesù eucaristia, attraverso il pane e il vino rimarrà tra noi fino alla consumazione dei secoli. E’ tra noi e in mezzo a noi e ci fa entrare già in questa ottica di eternità, di vita che non finisce sebbene con modalità diverse come il suo corpo spiritualizzato. Se noi avessimo più fede, più fede, questo è il vero problema. Questa mattina all’insegna della tomba vuota, questi teli piegati che ancora non ci dicono granché. E’ la Parola ci dice anche il vangelo di Giovanni che illumina i fatti, che illumina gli eventi e li rende comprensibili. Lasciamo che la Parola di Dio illumini i fatti di questi giorni, le nostre paure, il nostro terrore. Illumini la fatica di quei medici che si spendono e si sacrificano per gli ammalati nelle corsie d’emergenza finalmente. Dicevamo l’altra sera la bellezza di questa classe medica della quale avevamo perso fiducia e speranza, perché ci sentivamo trattati non da uomini, non da ammalati ma come “numeri”, con freddo distacco. Finalmente anche i medici sono stati capaci di riscattarsi mettendo la loro vita a servizio della gente. Il prete è a servizio della comunità, il medico è a servizio del malato. Ognuno di noi, e qui sta la Pasqua, deve mettersi a servizio degli altri. Gesù mostra questo servizio passando a lavarci i piedi: “Voi mi chiamate Maestro e dite bene perché lo sono, ma se io il Maestro lavo i piedi a voi, anche voi dovete fare altrettanto…”. Che bellezza, che meraviglia, che miracolo! Questo è il senso della vita. La vita non è fatta per divertirsi. Quando ci sarà la ripartenza, quando sarà e che ancora non si sa, non torniamo a vivere come prima, per favore! Non torniamo a vivere distrattamente, chiusi nel proprio egoismo a dispetto e quasi nell’indifferenza verso gli altri. Rinunciamo a qualcosa di non essenziale e veramente necessario, per essere più solidali con gli altri. Camminiamo insieme, non da soli. Da soli non si va da nessuna parte. A Francavilla per certi versi siamo ossessionati dal fare. L’ossessione, la smania di protagonismo, fate attenzione. Non è il fare che conta ma il “come” facciamo. Allora le cose che noi facciamo hanno valore se le facciamo insieme, ma se le facciamo da soli non hanno alcun senso. E’ questo il senso della comunione. Gesù ci vuole salvare aiutato dal nostro consenso, dalla nostra adesione a lui. E’ questa la fede. Pasqua è passaggio dalla morte alla vita, dalla paura alla speranza, alla libertà, alla gioia. Se la Pasqua non è l’esperienza di questo passaggio, dalla paura e dalla morte alla libertà e alla Vita, noi celebriamo invano ed inutilmente riti senza senso, muti ed incapaci di dirci qualcosa o di essere significativi per la nostra esistenza! Gesù il Risorto vuole essere significativo per noi, dare consistenza e sicurezza al travaglio del nostro quotidiano vivere prigionieri delle tante paure che ci bloccano e ci attanagliano e ci impediscono di vivere! Mentre tanti fratelli sono morti e continuano forse a morire per un piccolo, banale virus, Gesù ci dona l’antidoto a tanto macello. Gesù, il Cristo è veramente risorto! Sarà il nostro saluto oggi e sempre, nei momenti felici come in quelli della paura e del buio, delle chiusure e delle separazioni forzate, del rifugio in inutili e illusorie sicurezze che nulla possono garantirci e assicurarci: Solo il Risorto è la nostra sicurezza. Solo lui è tornato dalla morte per garantirci la Vita, quella che non finirà mai stritolata nella morsa della paura. Gesù ci libera e ci restituisce alla Vita, quella vera: AUGURI….per una nuova rinascita e per un immediato ritorno alla vita quotidiana con il Risorto sempre vittorioso!
Il vostro Parroco
11 Aprile 2020 VEGLIA DI PASQUA
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Immagino o cerco di immaginare se il Signore risorto fosse vivo qui dinanzi a noi le cose che vorremmo e potremmo chiedergli. Salvaci…, liberaci…, guariscici…, fa che questo nostro povero mondo sia più bello e più vivibile, senza doverci barricare nelle case per paura. Sono cose lecite, umane, aspettandoci dal Risorto un pronto e commosso intervento, toccato dalle nostre tante problematiche e vicissitudini. In altre occasioni nel vangelo, Gesù ha addirittura pianto e si è commosso dinanzi alla sofferenza e alla morte e ha operato tanti miracoli. Lui, il Risorto, già conosce tutto, sa tutto e vede tutto. Allora, qualcuno mi dirà, perché non interviene, dov’è Dio in tutto questo trambusto che ormai da troppo tempo ci assilla e non ci fa più vivere? Immagino gli Apostoli la sera del Venerdi Santo, quando frettolosamente fuggirono, lasciando il Maestro penzolante dalla croce, cercando unicamente di mettere in salvo se stessi! E quando Gesù risorge deve “raccattare” nuovamente uno ad uno, quel gruppo che lui aveva formato e che ora in preda alla paura e alla delusione si era disgregato e disperso. Certo erano tornati al proprio lavoro di pescatori, ma ormai pur con dolore e dopo appena pochi giorni dalla sua morte, chi pensava più a quel Maestro venuto da Nazareth che equivale a dire…dai bassifondi della Palestina, ormai chiuso per sempre in una tomba, chiusa da quell’orribile, pesante lapide di pietra che muta e fredda come tutte le altre non aveva più nulla da dire loro, così come Lui ormai non parlava e non li ammaestrava più? Stamattina abbiamo seppellito due fratelli che sono morti per motivi altri e diversi dal coronavirus. Ma la morte è sempre uguale qualunque sia la causa. Ormai ci stiamo avvicinando alla spaventosa cifra di ventimila morti per covid19, e non sappiamo se il mostro che divora e inghiotte si fermerà a questa ragguardevole cifra. Anche loro chi sepolto chi cremato e ridotto in polvere muta e senza vita. Dove sei Signore? Perché non intervieni nonostante le preghiere sofferte che insieme al Santo Padre, Papa Francesco ti innalziamo ormai da tempo? Anche noi dinanzi alla morte, ma non solo, ci fermiamo. Cessiamo di credere e di pregare. Tanto chi ci ascolta? Anche i Dodici Apostoli pensavano così dopo il venerdi. Ma ecco che quella mattina, “il primo giorno dopo il Sabato” dopo che tutti gli Ebrei avevano celebrato la loro Pesah, la loro Pasqua, e che per noi è la Domenica, il giorno del Signore, le donne che erano andate al sepolcro - loro si che avevano avuto ed avevano più coraggio di quei Dodici pescatori – per completare l’imbalsamazione del cadavere di Gesù, per preservarlo dalla marcescenza quando ad un tratto avvertono un forte terremoto e un Angelo sceso dal cielo che rotolò via la pesantissima pietra che chiudeva il sepolcro, mentre le guardie poste a sorvegliare quella tomba per timore che i Discepoli – figurarsi – fossero andati per rubarne il cadavere e poi magari mettere in giro la voce che il Maestro era risorto, caddero a terra tramortite, prive di sensi. Non solo, l’Angelo parlò loro dicendo: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. E’ risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto andate a dire ai suoi discepoli: E’ risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. La gioia, lo stupore grande, non ancora confuso e stravolto dalla ragione le invade e si mettono a correre, per andare a portare quella notizia sconvolgente ed inaspettata ai Dodici. Che strano anche questo. Le donne che non avevano voce in capitolo al tempo di Gesù e la cui testimonianza non aveva alcun valore, vengono scelte da Gesù per un annuncio così importante! Ma cosa ancora più strabiliante, quella corsa viene interrotta addirittura da Gesù che appare loro e dice: “Non temete; andate ad annunciare ai mie fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno”. E’ la conferma dello stesso annuncio dell’Angelo, ma questa volta ancora più autorevole, fatto da Gesù in persona. Cosa sono tutti questi fatti. Favole? Vaneggiamenti di povere donne visionarie e facili a lasciarsi condizionare dalla loro mente fragile, pronte a farsi condizionare da chicchessia? Ma come spiegare allora come quei Dodici pescatori da lì a qualche giorno riprendono a parlare apertamente e senza paura del loro Maestro che sarebbe tornato in vita? Anzi, addirittura dopo qualche anno, sarebbero morti donando la vita per testimoniare questi fatti e quel Maestro che dicono…Risorto”! Non crediamo fratelli che quegli uomini pur rozzi e abituati a lottare con le onde del mare siano degli ingenui creduloni! L’ebreo non è di questa specie. Gli Ebrei sono troppo attaccati alla loro tradizione mosaica per credere ingenuamente e farsi uccidere per un personaggio che non ha saputo salvare se stesso dalla morte! Sono grandi domande alle quali per essere onesti con noi stessi DOBBIAMO rispondere non certamente in questa sede, ma nel nostro cuore. E’ certo che razionalmente non ci arriveremo, anzi si creerebbe ancora più confusione dentro di noi. Anche ai Dodici il Risorto chiede l’umiltà di fidarsi di quelle donne che non erano degne di credibilità perché DONNE! Ma a loro è stato concesso di ricevere quell’annuncio che avrebbe addirittura cambiata la storia, la nostra storia, quella storia che ci appartiene e che il più delle volte non accettiamo perché la vorremmo diversa da quello che è. Ma da questi fatti evidenti dobbiamo dedurre che la risurrezione di Gesù non solo non è un’invenzione della comunità che neanche immagina che Gesù possa risuscitare. Lui è morto e loro vanno per completare l’imbalsamazione del suo corpo attenendosi alla tradizione, non essendoci stato il tempo la famosa sera del venerdi, quando Gesù muore inchiodato sulla croce, poiché dopo il tramonto iniziava il giorno solennissimo della Pasqua e quei lavori non potevano assolutamente compiersi, pena anche l’esclusione dalla comunità. Cari fratelli. Anche noi comunità del Risorto, stiamo ormai da un mese chiusi nelle nostre case, impauriti per la possibilità di un contagio, paralizzati da questa malattia che si trasmette con enorme facilità. Quella nostra, per quanto facciamo per renderla il più possibile vivibile, non è vita. E’ morte, è sopravvivenza, è lasciarsi vivere non da protagonisti ma da gente battuta, sconfitta, come quei Discepoli che erano tornati delusi alla pesca e alle proprie barche. Noi al momento neanche questo! Ma se ci lasceremo interpellare da questi fatti che abbiamo ampiamente esaminato e soprattutto se quella parola ascoltata e quegli eventi celebrati in questa Notte santissima ci toccheranno nel profondo del nostro cuore, come gli Apostoli, allora nulla potrà più farci paura. La nostra storia cambierà com’è cambiata quella dei Dodici. Questa notte stessa il Signore certamente “passa”, per dirci :”Non abbiate paura. Abbiate fede in me. Se crederete in me anche voi vedrete la Gloria di Dio. Io ho vinto esconfitto per sempre la morte!”. Se crediamo, anche la nostra storia cambierà, non nel senso che avremo ciò che sogniamo e che desideriamo, ma nel senso che sentiremo profondamente che è lui, Gesù il risorto dai morti che la conduce e la guida. La Pasqua non è un’insieme di riti suggestivi che commuovono il nostro animo, ma che forse lasciano tutto come prima. Pasqua è fare esperienza del Risorto nella nostra vita, è scommettere su di lui e abbandonarsi a lui lasciandosi guidare perché sappiamo che Gesù il Signore è tornato davvero dai morti e non può più morire. Lui è il Signore della Vita, presente con noi, cammina con noi e non ci lascerà mai soli.
Il vostro Parroco
10-04-2020 VENERDI SANTO O DI PASSIONE
Oggi che siamo invitati a volgere lo sguardo “ A Colui che hanno trafitto” che abbiamo trafitto…, è una giornata senza liturgia, senza celebrazione eucaristica così come pure domani Sabato Santo. La Chiesa adora silenziosa e contemplativa nella preghiera, quella Croce che divenuta “spettacolo del mondo” è causa di salvezza eterna per tutti gli uomini. Era necessario che il divino Maestro - sul cui petto ieri sera Giovanni quel discepolo che Gesù amava, ha potuto poggiare il suo capo ed ascoltarne i battiti tumultuosi certamente di turbamento, per l’imminente “Ora” estrema e fatale che Gesù doveva affrontare fin dall’origine del mondo e per la quale tutto era stato preparato, ma anche per quell’eccesso di Amore con cui Dio amava i suoi figli perduti per il peccato - affrontasse la sua morte in Croce. Quella morte che avrebbe annullato per sempre la condanna scritta e decretata dal peccato in cui tutti ci ritroviamo e di cui tutti siamo complici e che da soli mai avremmo potuto vincere e rendere inoffensiva. E’ caratteristica del vangelo secondo Giovanni che abbiamo appena proclamato nella lettura della “passione”, parlare ripetutamente e costantemente di una certa “Ora” che Gesù doveva attendere ed affrontare. Anche alle Nozze di Cana, Gesù orienta la richiesta miracolistica di Maria sua madre a quell’Ora, la sua Ora. E’ l’Ora che Dio ha preparato fin dall’inizio e se può sembrare anche l’ora del Male, l’ora in cui Gesù è umanamente sconfitto ed eliminato apparentemente per sempre, in realtà è l’Ora della Gloria di Dio “manifestata in Cristo Gesù”. “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” e dice ancora Gesù “Che dirò, Padre allontana da me quest’Ora? Ma è per questo che sono venuto. Padre glorifica il tuo nome.”. Si, effettivamente come abbiamo più volte sottolineato e detto, il linguaggio di Dio è totalmente diverso da quello dell’uomo. L’uomo manifesta smania di possesso, di potere, di forza per prevalere sugli altri, di premunirsi e difendersi dagli altri, Dio parla un linguaggio di spogliazione, di abbassamento oltre ogni limite, di consegna inerme al male e alla violenza degli uomini , di “Amore nella dimensione della Croce” e solo in riferimento ad essa, perché “NON C’E’ AMORE PIU’ GRANDE, DI CHI DA’ LA VITA PER GLI AMICI”. E’ solo nella dimensione del DONO TOTALE che possiamo intendere e capire il linguaggio di Dio. Dove, è l’Amore ad avere l’ultima parola e la meglio su tutti e su tutto. Ed ecco perché ci viene difficile capire, ascoltare e mettere in pratica quello che Dio ci chiede. Noi tutto questo lo vediamo come un linguaggio “duro ed ostico” che rasenta la follia e la stoltezza. La Croce dice san Paolo è follia per i Giudei che cercavano miracoli e stoltezza per i Greci che invece cercavano sapienza, loro abituati ad essere terra di filosofi e di sofisti. In realtà la Croce di Gesù diventa la dichiarazione dell’Amore folle, eccessivo ed esagerato di Dio per il genere umano e manifestazione della sua Sapienza in questo linguaggio duro e rude della Croce del Figlio suo, ma anche nelle situazioni di dolore e di precarietà estrema di ogni uomo. Ci diventa chiaro come solo Dio poteva fare una cosa del genere: la Salvezza nell’impotenza spaventosa e terrificante della rozza Croce, ma resa potente ed efficace dall’azione di Dio al punto che attraverso di essa e solo con essa ha voluto salvare il mondo! Dio non si oppone né combatte fisicamente contro il Male ma si consegna liberamente per renderlo inefficace e sconfitto per sempre! Dalla dura terra arida e secca del Male, ogni male, Dio sa trarre il Bene che salva e che dà la Vita. Qui sta la nostra Fede. E’ molto espressiva la frase di Gesù quando invia i suoi Discepoli: “Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi…”: cosa può l’Agnello di fronte a un branco di lupi? Nulla, solo e indifeso, estremamente debole e alla mercé del più forte di lui, destinato ad essere inevitabilmente sbranato e fatto a pezzi! Gesù ci chiede risoluto di non opporci al male. Ma è in questa estrema debolezza e fragilità che agisce l’Onnipotenza di Dio e che sa trasformare ogni tempesta e ogni avversità, ogni morte e ogni fallimento in vittoria e nuova vitalità. E’ la logica del Servo sofferente, come Gesù si manifesta a noi e come viene preconizzato in maniera adombrata ma che in Lui si chiarisce e si comprende definitivamente, dal profeta Isaia in particolare. Si, certamente, domani notte sarà Pasqua e sappiamo che Gesù verrà fuori da quel sepolcro che ci atterrisce e ci lascia senza fiato. Ma prima è necessario passare da quella strettoia che è la morte. Non può esserci Resurrezione, se prima non si scende nella terra e nel sepolcro. E’ così che anche la nostra morte e la nostra malattia, magari a causa di un coronavirus…., ne esce illuminata e trasformata, resa inoffensiva e che ci immette nella luce della Pasqua e della Vita che risorge vittoriosa per sempre. Alla morte dell’amico Lazzaro, Gesù dice ai Discepoli costernati: “Questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Non si tratta di abbandonarci inermi alle malattie e alla morte. E’ lecito lottare contro il male, ma sempre tenendo presente che l’ultima parola, quella decisiva appartiene a Dio. Non possiamo illuderci di poter sfuggire sempre a certe esperienze anche dolorose. Anche Lazzaro, risuscitato dai morti sarebbe poi morto. E’ nell’ordine delle cose. Ma dobbiamo credere che la nostra vita, “ riposa con Cristo in Dio” e solo lui può assicurarci la Vita, quella che non ha fine. Queste feste pasquali, quest’anno diverse dal solito, più essenziali, direi quasi austere, senza frastornanti e confusionari movimenti di gente e di fedeli, senza processioni e sacre rappresentazioni per quanto suggestive e commoventi, non possiamo dire assolutamente che siano….meno pasquali o che facciamo meno Pasqua! Siamo immersi nella paura, viviamo nella precarietà, avvertiamo quante cose ci mancano fosse solo la libertà di recarci al supermercato per fare le solite compere come eravamo abituati e come ci aveva abituati la cosiddetta “società dei consumi”. Ma la Pasqua c’è tutta. C’è il Cristo crocifisso ben piantato sulla Croce in mezzo a tutte le nostre sofferenze, alle nostre malattie, alle nostre tante, troppe morti. Ieri sera dicevamo fra le tante di questa ritrovata capacità di amare e di spenderci per gli altri anche a costo della nostra integrità fisica, in un servizio totale e senza riserve. Questo è Pasqua! E questo è quanto ci chiede il Padre Celeste offrendoci quel Figlio che si immola stasera per noi, per insegnarci che l’Amore non è un gioco né una bella poesia. L’Amore ci porta a pagare per gli altri, a condividere tutto quello che abbiamo e ci fa capire che nulla ci appartiene o possiamo dire “è mio”. Gesù nulla ha tenuto per sé, ma tutto ha voluto condividere con noi, anche la sua stessa divinità e figliolanza divina, la sua stessa vita. Qui sta tutta la forza dell’Amore che è contenuta nella Croce gloriosa del Signore Gesù e che da essa si sprigiona cambiando e dando nuovo senso ad ogni nostra realtà negativa. In tutte quelle persone che in questi lunghi giorni sono state in un modo o nell’altro protagoniste in questa guerra virale, anche per il semplice fatto di essersi lasciate relegare in casa per non allargare la diffusione del virus, è contenuta la Pasqua di Gesù e la nostra Pasqua. Forse c’è voluto il coronavirus per ricordarci che Pasqua è cambiamento, passaggio da una vita da morti, putrefatti e rinchiusi come nella “tomba” di una vita egoistica di semplice ricerca di piaceri e di divertimenti, alla freschezza di una vita impegnata e spesa, messa a disposizione di chi è meno fortunato e che si abbassa nel servizio e nella completa disponibilità verso l’altro, in casa e fuori di casa, sul lavoro e per la strada, senza distinzioni o differenze di razza, di colore e di provenienza. Una vita “spezzata” e condivisa con gli altri come il pane fresco e profumato, come Gesù ha fatto con noi. Mi tornano in mente quei medici che contagiati dal coronavirus e poi vinta la loro battaglia con la malattia, hanno trovato ancora la forza di dare anche il proprio plasma reso immune dal virus letale, nel tentativo di salvare la vita di chi ancora era in lotta con la malattia. Questo è bello, questo è esemplare, questo è eroico e ci invita tutti a fare altrettanto, oggi e sempre, in questa lotta ancora estrema contro il male ma anche dopo, nella vita di tutti i giorni quando si tornerà a Dio piacendo alla normalità. Sono questi i segni pasquali che ci indicano come deve cambiare la nostra vita, come dobbiamo giocarcela, per non perderla nel tentativo di assicurarcela ma ritrovandola e rendendola veramente sicura spendendola e donandola, condividendola e mettendola a servizio di tutti come Cristo che è morto per tutti perché della sua morte tutti potessimo beneficiare e trarre giovamento e salvezza!
Il vostro Parroco
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
09 Aprile 2020 – GIOVEDI SANTO - OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Carissimi fratelli.
Stasera siamo invitati da Gesù alla sua mensa, dove lui anticipa il dono del suo corpo e del suo sangue dati per la salvezza del mondo. Mi trovo in questa chiesa vuota, a celebrare solo il più grande dei misteri che tutti ci unisce, il più grande dei doni che un Dio poteva farci: il suo corpo spezzato e crocifisso e il suo sangue versato entrambi per la nostra salvezza, fatti e datici in cibo per noi. La prima lettura ci parla di una “liberazione”, di notte, nella veglia, quella veglia che diventerà la Madre delle veglie ed in cui affonda le radici la nostra identità di figli di Dio. La liberazione dalla schiavitù che significa “morte” verso la libertà della vita, di una progettualità, di una possibilità di realizzarsi come individui e come popolo: il Popolo di Dio. Stasera voi non siete fisicamente presenti come siete stati invece gli altri anni. Ma tuttavia siete con me, presenti come me, in questa “sala” dove Gesù , il Figlio di Dio ci apre il suo Cuore divino all’intimità con Lui e ci fa dono di tutto se stesso, senza riserve. Anche noi come gli Ebrei in Egitto, siamo schiavi della stanchezza di un isolamento “forzato”che dura ormai da più di un mese e come loro isolati, schiavi, per fare dei lavori che non avrebbero voluto mai fare per un oppressore, il Faraone d’Egitto. Ma ecco che Dio ode il grido di quel popolo senza identità, del quale vuole fare il suo Popolo, dandogli un’identità, un volto e suscita un personaggio, Mosè, per mezzo del quale vuole liberare quel popolo che lo ha invocato. In questo contesto di morte e di schiavitù Dio stesso chiede e detta una serie di norme e di procedure che diventano un “rito”, una cena che diventi “Memoriale” perenne di ciò che lui ha fatto per il suo popolo. La Cena pasquale appunto dove al centro di tutto c’è un agnello da consumarsi ed il cui sangue serve per segnare le porte di casa di ogni famiglia ebrea, per essere salvati da sicura morte. Anche Gesù quella sera come questa sera, da buon ebreo, stava celebrando forse necessariamente anticipandola, prima di morire, quella Cena e quel Memoriale per ripresentare le gesta straordinarie di Jhawè per il suo popolo santo. In questo contesto Gesù quella cena la porta ad un livello vertiginoso identificando se stesso con l’Agnello pasquale. Le sue parole “Prendete e mangiatene tutti….; Prendete e bevetene tutti…” dette sul pane azzimo e sul calice del vino fanno si che Gesù sia con noi presente sacramentalmente fino alla consumazione dei secoli. Ma questo ancora non basta. Nel bel mezzo di quella celebrazione solenne, Gesù ad un tratto si alza inaspettatamente, si cinge di un grembiule, prende un catino con dell’acqua e passa a lavare i piedi ai suoi Apostoli; piedi sporchi, piedi stanchi, piedi feriti e provati dalla stanchezza del lungo andare per le vie della vita. Fatto sconcertante e strabiliante. Mai un Maestro come Gesù, riconosciuto tale da tutti, anche da quelli che non erano dei suoi, si sarebbe inchinato davanti ai piedi di un suo discepolo…, per lavarli. Questo era un gesto che non si richiedeva neanche allo schiavo. Giovanni nel suo vangelo ci dice che Gesù, “avendo amato i suoi li amò fino alla fine”, cioè fino al massimo del dono di sé. Gesù non ci lascia solo delle belle parole in quella sera, ma ci lascia dei gesti come esempio che noi dobbiamo seguire e fare nostri per essere suoi discepoli. Siamo ancora frastornati, spaventati ed atterriti dai fatti di questo ormai lungo periodo di prova. Mentre noi siamo al chiuso delle nostre case, ormai stanchi e sfiniti per questo tempo non certo sereno e spensierato, durante il quale la nostra indipendenza della quale necessariamente siamo stati privati, altri negli ospedali lottano insonni, faticano, servono, sudano e mettono a rischio la propria vita, per tentare di salvare dal male del contagio quanti più possono, ma senza che possano essere loro stessi a determinarlo o deciderlo. Credo che non ci sia un gesto più plastico e concreto di questo, per capire un po’ di più ciò che ha fatto Gesù per noi. Gesù passa a lavarci i piedi, un gesto che inquieta e scandalizza, lo capisce bene Pietro che cerca di sottrarvisi, redarguito e rimproverato da Gesù. Lavare i piedi di qualcuno! Con questo gesto Gesù vuole significarci fino a che punto il nostro amore deve abbassarsi per definirsi discepoli del Maestro divino. Inutile illuderci delle tante eucarestie celebrate, se non siamo arrivati ancora a comprendere questo mistero del servizio, amorevole, libero e spontaneo al quale l’Eucarestia ci impegna e ci invia. Lo sanno bene quei medici che nelle corsie e nei reparti per gli infetti degli ospedali si stanno sacrificando e immolando se stessi per salvare il più possibile vite umane dal contagio del coronavirus. Non è un rito vuoto celebrare l’Eucarestia. Non è un segno lontano nel tempo che non ha più nulla da dirci. E’ san Paolo che ci ammonisce dicendoci: “Chi mangia e beve (riferendosi appunto all’Eucarestia) senza discernere il corpo ed il sangue del Signore, mangia e beve la propria condanna”! In questa fase difficilissima del nostro tempo abbiamo riscoperto tante cose. Intanto abbiamo riscoperto una classe medica che era caduta nella disistima e nella sfiducia di molti di noi. Ci eravamo quasi abituati a lamentarci, forse con ragione, del tempo e della scarsa attenzione dataci nei pronti soccorso dei nostri ospedali, lasciandoci spesso abbandonati ad attendere che qualcuno si ricordasse di noi seduti su di una sedia o distesi doloranti e pieni di paura su una barella traballante. Abbiamo ora riscoperto questo ruolo essenziale della classe medica ed infermieristica, finalmente riabilitata e meritevole di tutta la nostra considerazione e del nostro ringraziamento. Si sta riscoprendo a livello politico la necessità di “lavorare uniti ed insieme” per affrontare e superare la crisi, ogni crisi, per uscirne vincitori. Da soli si esce battuti e sconfitti irrimediabilmente. Abbiamo riscoperto il gusto e la necessità di passare più tempo con i nostri figli. Spesso per egoismo li abbiamo separati da noi immergendoli e frastornandoli con una serie di impegni e di attività non necessarie, sol perché NOI avevamo altro da fare, per quanto necessario. Stiamo ritrovando il gusto e la gioia di prepararci il pane in casa…, cosa che per i nostri nonni era la norma, prima che i nostri tanti panifici invadessero il mercato con le mille qualità di pane con cui ci nutriamo giornalmente a seconda dei nostri gusti. Stiamo riassaporando la bellezza e il gusto di passare nelle famiglie del tempo insieme a giocare, ad ascoltarci a parlare e a guardarci negli occhi, per cogliere e fare nostre tutte quelle domande e quelle richieste di “aiuto” e quel bisogno di amore di cui i nostri cuori sono gravidi ed assillati. Ci siamo ritrovati con i Carabinieri, da sempre vicini alle comunità tra cui operano, a portare personalmente la pensione a quegli anziani che non possono uscire. Anche noi pastori, Sacerdoti e Vescovi, costituiti tali in questa solennissima sera a favore del popolo di Dio, riscopriamo il bisogno che abbiamo di voi fedeli e nostri fratelli, il bisogno di dedicarci a voi per portare insieme i pesi gli uni degli altri, la sofferenza di non avervi con noi a condividere la Parola ed il sacramento della Vita e dell’Amore che Gesù, nostro Signore, ci ha lasciato in questo Memoriale perpetuo che è la sintesi della celebrazione di questa sera speciale. Tutto questo è Eucarestia, Cena pasquale, sacro Convito dove Cristo si è fatto e si fa ogni giorno nostro cibo, nostra vita e pegno di eternità, per condividere i nostri assilli, le nostre paure, i nostri smarrimenti, i nostri dubbi e i nostri tradimenti. Lui può trasformare e rigenerare tutto questo restituendolo alla luce e alla verità. Tutto questo è Amore, quell’amore di cui Cristo è perfezione ed al quale ci invita e per il quale ci invia nel mondo. Ci voleva un virus… per farci ricomprendere quanto di essenziale forse, avevamo troppo frettolosamente dimenticato? Già si parla di ripartenza, di lenta e graduale ripresa della vita di tutti i giorni. Ma questo spirito di servizio e di condivisione di ogni situazione lieta o triste non dovrà abbandonarci mai più, pena la riduzione della celebrazione dell’Eucarestia a mera “celebrazione” senza riflesso nella vita personale e comunitaria. Papa Francesco parla spesso di una Chiesa del “grembiule”, si quel grembiule di cui stasera Gesù si cinge, per insegnarci fino a che punto il nostro amore, come il suo, deve abbassarsi per farsi SERVIZIO. Negli ospedali, nelle case, per strada, nelle fabbriche, nelle scuole e negli uffici, TUTTI siamo chiamati a “fare Eucarestia” abbandonandoci senza limiti e mettendoci a disposizione gli uni degli altri. E se questo nostro servire, dovesse portarci a “perdere la vita” ? Gesù ancora una volta ci ammonisce: “Non c’è amore più grande di chi dà la sua vita per gli altri”. Ma chi perde la sua vita per Gesù cioè per gli altri, la ritrova ed è salvo! Solo per questo la vita ci è stata donata. Coraggio, sempre avanti in questa ricerca di comprensione e di senso del nostro vivere, lavorare, soffrire, pregare, amare gli altri. Gesù è con noi e la nostra vita è nelle sue mani che mai ci lascerà da soli essendo il SOLO che può darle un senso ed un compimento, l’unico: l’Amore più grande.
05 Aprile 2020 - DOMENICA DELLE PALME
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Fratelli carissimi, con l’ingresso festoso di Gesù in Gerusalemme, iniziamo oggi la grande e solenne Settimana Santa, durante la quale la Chiesa universale tutta celebra i misteri della passione, morte e Risurrezione del suo Signore Cristo Gesù.
Sembra difficile parlare di “Risurrezione” in un tempo come quello che ci troviamo a vivere, e non per una nostra scelta! Sembra che la morte aleggi intorno a noi e la paura che essa comporta faccia sentire il suo fiato nauseabondo sul nostro collo. Oggi, Domenica delle Palme, commemoriamo la passione del nostro Signore Gesù, il Maestro che ha dato e dà la vita per noi. La Vita, quella vita che ci è diventata così precaria e della cui fragilità forse, non ci eravamo accorti prima. Ci era sembrato di possederla quella Vita, di esserne i padroni, forti, sprezzanti e forse senza pietà per i più deboli. Ora ci ritroviamo tutti quanti terribilmente deboli dentro la stessa medesima barca, a lottare per non affondare, a remare contro le onde che vorrebbero travolgere la barca della nostra vita, facendoci perire miseramente e costretti a condividere lo stesso destino, quel destino che miopi ci eravamo illusi di poter costruire diverso per ciascuno e possibilmente per noi e a noi più amico! Ora quella vita che rincorrevamo e che ci rincorreva senza poterla gustare e assaporare appieno, sembra essersi inceppata, bloccata, facendoci rinchiudere tutti nelle nostre case, asserragliati e timorosi gli uni degli altri, sospettosi per potenziali contagi e quindi maggior diffusione della malattia, causata da un’invisibile nemico che è il CORONAVIRUS. Ci stiamo preparando a celebrare la santa Pasqua che per antonomasia per noi cristiani è la festa per eccellenza della gioia, della Vita che si rinnova e che ha la meglio sulla morte, la nostra morte. La Morte! Gesù ha un modo tutto suo per parlarci della morte. Gesù è il solo, l’unico che parla di una vittoria sulla morte e sul male, ogni male. Gesù è il solo che non subisce la morte, ma “si consegna volontariamente” ad essa con autorità, manifestando una forza e un potere inauditi che nessun uomo poteva manifestare né avere. Gesù ci dice che nessuno gli “toglie” la vita, ma la dà spontaneamente “per poi riprenderla di nuovo”! Quanti filosofi, maestri e sapienti abbiamo avuto, ma nessuno di essi è stato capace di salvarci, di garantirci e darci la Vita. Gesù parla della sua morte come un… “passaggio da questo mondo”: il mondo del male e del peccato, dell’egoismo e dell’avarizia, dell’orgoglio sfrenato e del delirio di onnipotenza…, al “Mondo del Padre”; mondo di pace, di gioia, di luce, Regno della vera Vita, dove ci verrà manifestata e condivisa la Gloria stessa di un Dio che ha scelto di farsi, lui infinitamente potente, infinitamente debole fino alla morte di Croce, a noi poveri uomini deboli, fragili, impauriti e messi in ginocchio da un invisibile, microscopico VIRUS. Anzi, Gesù ci promette di darci la Vita e di darcela in…abbondanza, senza fine! E lì su quella misteriosa ed immobile, inquietante e silente Croce che oggi ci viene offerta perché la guardiamo con fede viva, Gesù il Maestro, il Signore dei signori, il nostro Re che nel suo corpo trattiene e sconfigge la nostra morte. Come gli Ebrei nel deserto, vengono invitati a guardare il serpente di rame innalzato da Mosè sull’asta di legno, per essere salvati dai morsi letali dei serpenti usciti dalle sabbie del deserto, oggi siamo invitati anche noi a guardare con fiducia e speranza quella Croce sulla quale è stato innalzato il Figlio di Dio. Anche noi, morsi dal letale coronavirus e pieni di paura, siamo invitati a guardare con ferma fiducia al Cristo innalzato sulla Croce. Più volte Gesù ci invita e ci raccomanda: “non abbiate paura…”. Sta qui tutta la nostra forza! E’ Gesù che ci chiede di “arrenderci” all’Amore di Dio manifestato in Lui crocifisso e risorto. E’ in questo abbandono leale, sincero, senza fingimenti a Cristo Crocifisso che manifestiamo la nostra fede, la sola capace di sconfiggere la morte e la paura di essa e di farci ritrovare la pace. E’ in questa apparente debolezza del Crocifisso che sta la nostra vittoria su ogni male, perché la sua “debolezza” è più forte della nostra forza che l’attuale situazione manifesta e mette ampiamente allo scoperto nella sua fragilità ed inconsistenza. Guardiamo a cosa si sono ridotte le nostre civiltà a causa di una pandemia che atterrisce tutti. Piazze vuote e senza vita, chiese, scuole ed uffici chiusi, case e famiglie asserragliate dalla paura del contagio, non più contatti affettuosi, abbracci, baci, carezze e strette di mano. Sembra che la morte regni sovrana e che le nostre speranze, i nostri programmi e progetti siano finiti per sempre. No! Certamente si riprenderà, ci riprenderemo. Magari gradualmente, lentamente ma ci riprenderemo. Coraggio: chiusi nei nostri tanti egoismi siamo perduti, uniti e aperti al fratello certamente ne usciremo vincitori, come i tanti medici e operatori sanitari ci stanno insegnando con il loro sacrificio e dedizione all’ammalato anche a costo della loro stessa vita. Il loro agire, oggi ci invia il messaggio potente e salvante della Croce del Signore Gesù. “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per il proprio fratello”. Qui non può esserci alcuna paura ma semmai un ritrovato senso del vivere, nel servizio e nella donazione, nel portare gli uni i pesi degli altri, nella condivisione e nella ricerca dell’essenziale, di ciò che veramente conta. Solo questo può darci gioia, la gioia pasquale che il Signore Gesù, nonostante tutto ci assicura. Solo l’Amore alla fine ne uscirà vincitore! Uno slogan di questi giorni e che circola ogni momento recita : “Insieme ce la faremo”, “insieme” si, ma non da soli. Insieme a Gesù che dà la sua Vita, perché noi possiamo avere la Vita, si, ce la faremo! Coraggio. Vi voglio tutti bene!
Anche per questo numero siamo riusciti a pubblicare nonostante il #COVID19 - MARZO 2020
CATONA – Perla calabrese nel “Dantedì” - 25 marzo 2020
Il governo italiano ha istituito il “Dantedì”, ossia una manifestazione nazionale per celebrare Dante Alighieri nella giornata del 25 marzo, dopo che gli studiosi dantisti hanno individuato tale giorno come data di inizio del viaggio ultraterreno del poeta attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.
Qui vogliamo ricordare che nella “Divina Commedia” compaiono soltanto due toponimi calabresi, ossia il nome di Cosenza (Purgatorio, canto III, verso 124)e quello di Catona (Paradiso, canto VIII, verso 62). In verità nel canto III del Purgatorio le parole pronunciate da Manfredi, re della dinastia sveva (“Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia / di me fu messo per Clemente allora..”) non alludono ad un “topos”, ad una località denominata Cosenza, ma ad un uomo, a un prelato, un “pastore” che nella sua carriera ecclesiastica fu anche arcivescovo della città bruzia. Quasi tutti i dantisti ritengono che ’l pastor di Cosenzafosse Bartolomeo Pignatelli, un alto prelato che fino al 1254 era stato arcivescovo di Amalfi, poi dal 1254 al 1266 fu arcivescovo di Cosenza, e in ultimo dal 1266 alla morte (1272) fu arcivescovo di Messina. L’arcivescovo Pignatelli, appartenente ad una nobile famiglia napoletana, acerrima nemica della dinastia sveva, fu istigato da papa Clemente IV a perseguitare Manfredi sia da vivo, sia da morto, così da indurlo a reperire e a profanare le ossa del corpo di Manfredi, che era stato nascosto e sepolto sotto un mucchio di pietre vicino a un ponte di Benevento, presso il luogo dove lo stesso Manfredi era stato sconfitto ed ucciso dalle truppe di Carlo I d’Angiò, incoronato re di Napoli proprio dal suddetto papa Clemente. Pertanto “Cosenza” nel III canto del Purgatorio fu menzionata non come città calabrese ma come “titolo” ecclesiastico, come uno dei vari “incarichi” vescovili conferiti al prelato Bartolomeo Pignatelli, amico del papa regnante e fiero nemico della dinastia sveva.
Assai differente è invece la citazione di Catona fatta nell’ottavo canto del Paradiso. In questo canto Dante fa parlare un altro giovane re; si tratta di Carlo Martello d’Angiò (1271-1295), figlio di Carlo II d’Angiò e di Maria d’Ungheria, nonché nipote di Carlo I d’Angiò, poc’anzi ricordato insieme a papa Clemente IV. Qui di seguito riportiamo le tre terzine che vanno dal verso 58 al verso 66 dell’VIII canto del Paradiso, sottolineando in particolare i versi che riguardano Catona e il territorio del Regno di Napoli al tempo dei primi re della Casa d’Angiò (1265-1282):
58) Quella sinistra riva che si lava di Rodano poi ch’è misto con Sorga per suo segnore a tempo m’aspettava
61) e quel corno d’Ausonia che s’imborga di Bari e di Gaeta e di Catona, da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
64) Fulgeami già in fronte la corona di quella terra che ’l Danubio riga poi che le ripe tedesche abbandona.
Le parole che Carlo Martello rivolge a Dante descrivono, con alcune suggestive perifrasi e senza mai pronunciare la loro denominazione geografica, i vari territori di cui lo stesso re angioino era divenuto sovrano, prima di morire giovanissimo all’età di soli 24 anni. Per prima presenta la Provenza, descritta come terra che si estende sulla riva sinistra del Rodano, dopo che in esso versa le acque l’affluente Sorga; la seconda perifrasi concerneil regno di Napoli, esclusa la Sicilia; in ultimo ricorda il regno d’Ungheria (“quella terra che ’l Danubio riga”) la cui corona gli era stata data nel 1292, quando Carlo Martello aveva appena 21 anni. Soffermandoci sulla seconda terzina spieghiamo che corno d’Ausonia sta ad indicare la parte continentale del regno di Napoli, che Dante raffigura come un triangolo avente i vertici a Bari (a nordest sul mare Adriatico), a Gaeta (a nordovest sul Tirreno) e a Catona(a sud sullo stretto di Messina). La voce verbale s’imborga,usata da Dante nel verso 61), deriva dal vocabolo tedesco Burgche in italiano significa “roccaforte”, “castello fortificato”.In verità nel Medio Evo tre capisaldi difensivi, tre punte fortificate del Regno di Napoli erano proprio Bari, Gaeta e Catona. Un lato di quel triangolo geografico era costituito dalla linea che collega il fiume Tronto (che sgorga nell’Adriatico) con il fiume, anticamente denominato Verde, ed oggi noto come Liri o Garigliano (che sgorga nel Tirreno); Catona,in questa raffigurazione geometrica, risulta essere il vertice opposto al suddetto lato che unisce i fiumi Tronto e Verde.
Oggi ci si potrebbe meravigliare del fatto che Dante abbia menzionato una località piccola come Catona, anziché la più grande, e molto più antica, città di Reggio, colonia fondata dai greci-calcidesi, fiorente fin dal periodo magnogreco, ed unica località calabrese menzionata nella Bibbia, perché vi sostò brevemente l’apostolo Paolo di Tarso (Atti degli Apostoli, 28 – 13). Certamente, al tempo di Dante, Reggio era una città popolosa, un importante centro amministrativo, civile e religioso, con varie attività commerciali e artigianali, ma essendo ubicata di fronte a Messina ad una distanza quasi tripla rispetto alla minima che intercorre tra le due rive dello Stretto, non era una comoda base portuale per i traffici di merci trasportate da barconi che ogni giorno facevano la spola tra la sponda calabrese e quella siciliana; neppure era munita di rilevanti fortificazioni difensive. Viceversa la piccola Catona, al tempo di Dante, era abbastanza nota, sia come baluardo per la difesa del Regno di Napoli quasi alla punta dello Stivale, sia come punto di imbarco per la Sicilia. L’imperatore Federico II di Svevia aveva fatto edificare sulle vicine alture di Concessa, sovrastanti l’abitato di Catona, un imponente castello -di cui tuttora rimangono le rovine-a protezione della marina di Catona e delle connesse attività di pesca e di traffici marittimi con la Sicilia; molto probabilmente sulla spiaggia di Catona sorgeva anche qualche torre di guardia e di avvistamento. D’altronde Dante Alighieri, sfogliando le pagine dellaCronica di Matteo Villani, poteva avervi letto che, qualche tempo dopo larivolta dei siciliani contro gli Angioini, i cosiddetti Vespri Siciliani (1282), Catona e le marine limitrofe erano stati i luoghi di raccolta della armata radunata da re Carlo I d’Angiò con l’intento di riconquistarela Sicilia e riunirla al Regno di Napoli.
Le cronache più realistiche affermano che a Catona e dintorni si radunarono almeno 5.000 soldati angioini ed altri loro alleati, tra cui circa 500 fiorentini di parte guelfa; e proprio per la cospicua presenza di questi armati fiorentini, al loroconcittadino Dante non sarà sfuggito il nome di Catona, come luogo d’imbarco delle truppe che a più riprese salparono da lì per riconquistare la Sicilia. Ma tutti i tentativi di recuperare la Sicilia alla dinastia angioina fallirono, sicché l’isola rimase sotto il dominio dei re d’Aragona.
In virtù della sua ubicazione vantaggiosa sulla sponda calabrese dello Stretto di Messina, Catona per molti secoli continuò ad essere uno dei più frequentati punti di attracco dei barconi e degli scafi a vela che facevano la spola tra Calabria e Sicilia. Ma alla fine dell’Ottocento con l’apertura di linee ferroviarie sulle coste calabresi e siciliane, ma soprattutto con l’entrata in funzione di traghetti a vapore sulle tratte Reggio Calabria-Messina e Messina-Villa San Giovanni, cessarono per sempre i traffici di piccolo cabotaggio con base a Catona. La decadenza di Catona s’aggravò ulteriormente dopo il tragico terremoto-maremoto di Messina del 28 dicembre 1908, e nel 1927 quando cessò d’essere Comune autonomo e fu aggregata come frazione alla “Grande Reggio”.
CATONA E SAN FRANCESCO DA PAOLA
Il nome di Catona, oltre che al sommo Dante Alighieri, è legato anche ad un altro grande italiano, un santo non solo calabrese ma della Chiesa universale, San Francesco da Paola. Tutti i suoi devoti conoscono la sua miracolosa traversata dello Stretto, compiuta usando il mantello come vela ed il bastone come albero di navicella; ma solo i devoti più eruditi sanno che il Taumaturgo Paolano salpò proprio dalla spiaggia di Catona per approdare a Messina. Avendo conosciuto e più volte visitato questo ridente paese dello Stretto di Messina, perché attratti dalla splendida figura del Santo Patrono della Calabria, nonché Patrono della Gente di Mare italiana, vogliamo salutare e ringraziare alcune persone, che abbiamo avuto il piacere di conoscere o incontrare proprio a Catona, sede di un Convento di Minimi e dell’adiacente Santuario di San Francesco da Paola, e preziosa perla calabrese del “Dantedì” – 25 marzo 2020.
Per primo ringraziamo il carissimo amico catonese, Comm. Ammiraglio Francesco CIPRIOTI, Medaglia d’oro Mauriziana, Alto Ufficiale del Corpo delle Capitanerie di Porto, devotissimo a San Francesco da Paola. Quindi salutiamo i Padri Minimi che negli ultimi 15 anni hanno svolto il loro servizio pastorale come Parroci della chiesa Santuario di Catona, elencandoli in ordine cronologico: P. Casimiro MAIO, P. Giovanni COZZOLINO, P. Giovanni TOLARO, P. Antonio CASCIARO. Non dimentichiamo il gentil sesso; perciò ricordiamo con simpatia la Preside Prof.ssa Giuseppina BARRESI, solerte collaboratrice dei PP. Minimi nelle varie attività promosse dal Santuario di Catona e che sempre ci ha accolto con garbo e squisita gentilezza; un affettuoso saluto alla giovane signorina Manuela ZADARA, anche perché negli ultimi anni è stata una preziosa e premurosa guida per il nostro amico Ciprioti, è stata un attento pilota della sua autovettura, quasi una novella “Beatrice” che ha aiutato il caro Ammiraglio a superare gli impedimenti derivanti dai suoi arti inferiori, resi purtroppo incerti nei movimenti e malfermi, a causadi malanni e malattie. VINCENZO DAVOLI
L'Amministrazione Comunale, ancora una volta, per il bene comune e la salvaguardia della salute pubblica, invita tutta la cittadinanza di evitare di uscire dalle proprie residenze e soprattutto dal territorio comunale. Vi ricorda che per i beni di prima necessità, per non incorrere in sanzioni penali, sono aperti al pubblico i gestori di Località Stazione, Località Molino, Località Convento, Località Frà Giuseppe, Piazza Solari, Corso Mannacio e Corso Servelli.
Pertanto:
1) Farmacia, Corso Servelli;
2) Tabacchi, Corso Servelli, Piazza Solari, Loc. Molino, Loc. Stazione;
3) alimentari, Piazza Solari, Loc. Convento, Loc. Molino, Loc. Stazione, Loc. Frà Giuseppe;
4) panetteria, Corso Servelli;
5) macelleria, Corso Servelli;
6) pescheria, Corso Mannacio.
Attenetevi scrupolosamente ai D.P.C.M. alle Ordinanze Regionali e Sindacali.
Con l'auspicio di un presto ritorno alla normalità.
L' amministrazione Comunale.
Ad integrazione del precedente comunicato, l'Amministrazione Comunale informa che, oltre alle attività locali già menzionate, prodotti igienizzanti per la persona e per la casa possono essere reperiti anche nelle attività site in Viale del Drago, Corso Servelli e Corso Mannaccio.
Si ringrazia ancora per la collaborazione.
INIZIATIVA LODEVOLE DELLA SIGNORA CARMELA TORCHIA IN ANELLO
La sig.ra Carmela TORCHIA, mamma del vice sindaco di Francavilla Angitola, geom. Domenico ANELLO, che per tanti anni è stata abile e solerte maestra di taglio e cucito nel territorio francavillese, essendo donna, madre e nonna, moltosensibile all’emergenza provocata dal coronavirus COVID 19 , considerata la grande difficoltà a reperire nella nostra zona delle mascherine, ha deciso di mettere la sua esperienza sartoriale a disposizione della nostra comunità; così prontamente ha realizzato 60 mascherine artigianali in tessuto, da donare a titolo gratuito alle famiglie che ne fossero ancora sprovviste. Parte delle mascherine sano state donate oggi stesso, 20 marzo 2020, alle forze dell’ordine del territorio di Francavilla Angitola e Filadelfia,ai dipendenti del Comune di Francavilla Angitola; la rimanenza è stata consegnata alla Farmacia del dottor Raffaele Costa di Francavilla, che le distribuirà gratuitamente a chi ne avesse bisogno.
Le mascherine sono fatte in doppio strato di tessuto ed è possibile igienizzarle lavandole per un successivo riutilizzo.Hanno un’apertura superiore tra i due lembi di tessuto, così da poter inserire un panno filtrante oppure si consiglia di utilizzare la carta da forno.
Si precisa che si tratta di mascherine artigianali; non sono un presidio medico-sanitario, non hanno il marchio CE, ffp2, ffp3. Un grazie va alla sig.ra Fernanda MULTARI di Filadelfia, che ha donato il tessuto necessario alla realizzazione delle suddette mascherine.
AVVISO #CORONAVIRUS
Chiarimenti dall’Ufficio di Polizia Municipale:
Le Forze dell’Ordine danno un chiarimento sulle autocertificazioni e spiegano perchè stamattina sono già partite le prime denunce.
Non è che se uno compila l’autocertificazione può andare dove vuole.
Bisogna stare a casa!
Ci si può spostare solo per:
- lavoro
- necessità
- salute
Al momento del controllo vi fanno dichiarare e firmare perchè vi state spostando.
Fatto questo la pattuglia verifica (es. chiamando in azienda, chiamando il vostro medico, etc… in base a quello che dichiarate).
Se scoprono che quello che avete dichiarato non è vero, vi beccate due denunce:
una per la violazione dell’ordinanza di salute pubblica coronavirus (art. 650 C.P.) e l’altra per dichiarazioni mendaci (art. 495 C.P.).
Fare la spesa solo nel proprio comune e per articoli di prima necessità! Fare la spesa, non fare shopping! Una persona per famiglia .
Se siete in 3 in macchina e state andando a fare la spesa, denuncia .
Max numero di persone in macchina 2, il guidatore e 1 passeggero posteriore.
“Anche chi va a piedi deve portare l’autocertificazione” .
Lo afferma il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, in conferenza stampa sull’emergenza coronavirus.
CONSEGUENZE:
art.650 codice penale (arresto fino a 3 mesi o ammenda fino a € 206,00);
art.495 codice penale (reclusione da 1 a 6 anni)
Per favore condividetela #poliziamunicipale#iorestoacasa#insiemecelafaremo
DAL SINDACO DI FRANCAVILLA ANGITOLA - RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
DAL SINDACO DI FRANCAVILLA ANGITOLA - RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
DAL SINDACO DI FRANCAVILLA ANGITOLA - RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
FESTA DI SAN FOCA A FRANCAVILLA ANGITOLA –5 MARZO 2020
Si è svolta la festa del Santo Patrono di Francavilla, alle ore 10.30 l’arciprete Don Giovanni Battista TOZZO ha officiato la messa solenne, Anche quest’anno grande successo ha riportato l'offerta dei tradizionali dolci in onore del Santo Patrono a forma di serpi. La banda musicale di Filadelfia ha allietato la festa percorrendo le vie del paese. Alle ore 11,30 ha avuto inizio la lunga processione. Dietro alla statua del Santo e al gonfalone comunale, recato da Gianfranco Schiavone . procedeva l’Amministrazione guidata dall’ avv. Giuseppe PIZZONIA. La processione si è conclusa sul sagrato della chiesa parrocchiale dove i fedeli hanno intonato la tradizionale litania. LA STORIA di san foca martire San Foca, come voi ben sapete, é nato ad Antiochia ed è vissuto in un'epoca in cui essere cristiano significava mettere a repentaglio la propria esistenza. Foca, attraverso la preghiera, la meditazione e la carità vissuta, divenne imitatore di Gesù Cristo; quindi, per appartenere completamente a lui, volle essere battezzato, e, da allora, la sua vita cambiò radicalmente. A Sinòpe, lasciate le armi, polche era soldato, si dedicò alla coltivazione di un orticello, e a sfamare i viandanti che si trovavano a passare dalla sua modesta casa. E' stata appunto l'inestimabile carità verso il povero, il misero, l'affamato,a far sospettare ch'egli fosse cristiano, e come tale fu accusato e deciso di privarlo della vita, poiché il cristiano, in quel periodo, era considerato nemico della patria. Persino i soldati che avrebbero dovuto ucciderlo, rimasero stupiti, scossi dall'affabilità con cui vennero accolti da quell'uomo semplice e pio. Ecco come si svolsero i fatti: alcuni soldati si sono trovati a passare dall'orto di Foca, che, affabilmente, li invitò a sfamarsi e a dissetarsi. Dopo di ché, chiese agli ospiti il motivo del loro faticoso cammino. Essi risposero: “ Te lo diremo, se ci prometti di mantenere il segreto”. Foca promise, ed essi: “Siamo in cerca di un certo Foca per metterlo a morte, ma non lo conosciamo; se tu puoi aiutarci, ci renderai un grande favore”. Foca rispose: “Quest'uomo mi è noto abbastanza e vi prometto di consegnarvelo, ma domani, perché adesso è notte; vi piaccia quindi riposare delle sostenute fatiche “. Mentre i soldati riposavano, Foca preparava la sua anima, disponendosi alla morte. L'indomani, di buon mattino, si fece incontro agli ospiti, e, sereno, quasi sorridendo, disse loro: “Sono io l'uomo che cercate! Prendetemi, Fate di me quello che volete”. 1 soldati, pieni di stupore ed increduli, non ebbero il coraggio di eseguire la sentenza di morte. Foca li supplicava di compiere il loro dovere, aggiungendo che lui era sereno e gioioso, e non aveva paura. E i soldati, invece di ucciderlo, lo portarono ad Antiochia, sperando che i loro capi lo avrebbero risparmiato dalla morte. Informarono il proconsole Africano, il quale, grandemente meravigliato del loro racconto, affermò di volerlo conoscere ed interrogarlo personalmente. 1 soldati, prontamente, lo condussero al suo cospetto. Il giudice disse a Foca: Chi sei tu, che non riconosci come Dio il nostro imperatore Traiano? A1 silenzio di Foca, che in quel momento imitava il silenzio di Gesù dinnanzi al sommo sacerdote Calfa, il giudice esclamò: Perché taci? E Foca: Non basta a Traiano essere chiamato imperatore, senza avere l'attributo di Dio? 1 supplizi poi, che tu mi minacci, sono da me desiderati e sono contento se tu comandi di eseguirli. La cosa più importante, il tesoro più grande, per Foca, era l'amore di Dio, fare la volontà di Dio. Durante l'interrogatorio, improvvisamente, una luce celeste irradiò in quel punto dove essi si trovavano, e, vestiti di fiamme vampeggianti, apparvero tre angeli, per cui Africano, esterrefatto, cadde a terra privo di sensi. Sua moglie, Terenziana, supplicò Foca d'intervenire, promettendo che, se il marito fosse tornato in vita, si sarebbe convertita al cristianesimo. Foca pregò con gran fervore; Africano tornò in vita, ma invece di liberarlo lo fece condurre da Traiano. Qui, stesse accuse, stessa incrollabile fede di Foca, che, essendosi affidato a Dio, sente dall'alto una voce: “Sii forte, o Foca, io sono con te; avrai un posto in Paradiso". E così, nel 107, dopo essere stato gettato in una fossa di serpenti velenosi, ed esserne uscito incolume, è stato decapitato. Nel corso dei secoli, a Francavilla e altrove, è stato invocato, supplicato; molte anime si sono consacrate a lui, portandone il nome, diffondendo il suo fulgido esempio di vita cristiana. Molti sono venuti dal paese, dalle campagne, addirittura dall'estero, in questa magnifica chiesa a lui dedicata. Si sono presentati al cospetto del santo Patrono con le lacrime agli occhi, i ginocchi flessi e lacerati, i piedi scalzi. Quante mamme hanno portato in braccio il proprio bimbo ammalato e, fiduciose, l'hanno offerto a san Foca! Quanti voti, promesse e sacrifici! Che magnifica fede! Quanto orgoglio, nel definirsi devoti a san Foca: da lui protetti, da lui presentati all'eterno Padre! Oggi siamo qui, per dirgli: grazie per il tuo esempio; grazie per la tua protezione contro le insidie del male; grazie per il tuo sostegno e le tue preghiere.
Si aprirà il 12 marzo il “Città di Catona – Memorial Alfonso Ciprioti”.
Il torneo nazionale di tennis di terza categoria maschile è giunto alla quattordicesima edizione e sarà, come sempre, ospitato dallo Sport Village che organizza l’evento dal 2007 per ricordare la figura dell’ex consigliere comunale e provinciale, socio del circollo. Il “Città di Catona”, patrocinato dalla Federazione Nazionale Tennis, è divenuto negli anni un classico del tennis che raccoglie numerosissime adesioni sia dalla Calabria che dalla vicina Sicilia: atleti che si sfideranno per dieci giorni sui tre campi in terra rossa della struttura polivalente a nord di Reggio.
A sottolineare le caratteristiche della manifestazione Francesco Postorino del Palextra Club, deus ex machina del torneo, e Francesco Violante presidente dello Sport Village. «Si tratta – spiegano – di un appuntamento sportivo che nel tempo ha conquistato sempre più iscritti, tanto da permetterci di calendarizzarlo, con profonda convinzione, tra gli eventi previsti dal nostro circolo per l’arrivo della primavera tennistica. Tantissimi, infatti, sono gli atleti che hanno voluto presenziare al memorial Ciprioti in questi 14 anni, rendendoci orgogliosi sia del torneo sia del fatto che esso sia cresciuto a tal punto da essere ben conosciuto ed atteso nell’ambito tennistico calabrese, soprattutto dalle nuove leve. Ciò – concludono – è stato possibile grazie allo sforzo dello staff organizzativo capitanato da Marco Bonforte che sta lavorando alacremente per l’ottima riuscita del Città di Catona la cui conclusione è prevista il 22 marzo».
Il Club Vallelonga – Monserrato valorizza i borghi e l’emigrazione Calabrese
L’identità e la memoria storica, la valorizzazione dei borghi attraverso interventi mirati all’estero che posso contribuire alla crescita della Calabria e in particolare alla Valle dell’Angitola. È questo l’obiettivo del Club Vallelonga – Monserrato di Toronto, che nella giornata di venerdì presso la sede Canadese presenterà il progetto finanziato dalla Regione Calabria con i fondi previsti per l’ex Legge 8/2008. All’iniziativa oltre al presidente Antonio Pileggi, parteciperanno anche i deputati Calabresi del Canada Judy Sgrò e Francesco Sorbara a sostegno del ministro per l’Immigrazione Marco Mendicino, nonché le docenti dell’Università di Toronto Mississagua dipartimento di lingua Italiana Teresa Lobalsamo e Adriana Grimaldi. Dalla Calabria arriveranno il professor Giuseppe Cinquegrana, antropologo e studioso dell’emigrazione, l’esperto ed editore della rivista storica e antropologica “La Barcunata” Bruno Congiustì, il regista Davide Manganaro e il direttore della web tv dei Calabresi nel mondo Nicola Pirone. Il progetto che vedrà il coinvolgimento degli atenei, quindi rivolto ai giovani, si svolgerà tra Toronto, Philadelphia e Cuba. Per l’occasione il Club Vallelonga – Monserrato ha fatto di più, poiché oltre alle conferenze all’interno delle università e scuole, ha ideato una serie d’incontri con tour operator e imprenditori esteri, per fare conoscere le bellezze della Regione ed accrescere il turismo. Tra gli incontri, particolarmente attenzione sarà rivolto a quello di Philadelphia con il Console Generale d’Italia Pier Forlano, la Filitalia International e il Console onorario di Santo Domingo Enzo Odoguardi che sarà accompagnato da diversi imprenditori italo-americani. Ai partecipanti saranno consegnati materiale informativo cartaceo e audio visivo. Per quanto riguarda l’emigrazione sono già partiti i colloqui con le strutture che si occupano del tema nei tre paesi, mentre grazie alla collaborazione con il nascente museo di San Nicola da Crissa sono stati siglati i primi accordi per lo scambio culturale, che permetterà la presenza sul territorio calabrese di visitatori. Oltre alla Valle dell’Angitola, un paragrafo del progetto sarà riservato alla Valle del Torbido nella provincia di Reggio Calabria.
Le dichiarazioni del presidente Antonio Pileggi:“L’obiettivo principale è di promuovere la Calabria partendo dalla cultura dell’emigrazione, dando valore ai borghi e allo stesso tempo ai calabresi emigrati, che sono il primo veicolo pubblicitario per un ritorno o una visita nella propria terra. Attraverso le storie inedite raccontate con immagini e documenti si intende valorizzare dei borghi ancora sconosciuti al mondo, ma che sono ricchi di tesori. In questo senso è aperto a un pubblico giovane, da qui il coinvolgimento delle università e dei settori d’interesse. Favorire il collegamento tra i musei dell’emigrazione che si trovano nei tre paesi e in Calabria. Il progetto ha come innovazione il raggiungimento di un pubblico giovane quale le università e che non sia particolarmente legato alla Calabria, quali discendenti o emigrati. Allo stesso tempo metterà in condizione i tour operator stranieri di potere conoscere una parte dell’Europa Meridionale ancora oggi assente dai propri itinerari o non valorizzata”.
CARNEVALE FRANCAVILLESE : UN SUCCESSO Un pomeriggio di svago e di divertimento Domenica 23 febbraio 2020
«Un successo oltre le aspettative, frutto della collaborazione messa in campo dall’Amministrazione comunale guidata dal Sindaco avv. Giuseppe Pizzonia. C’è aria di soddisfazione nella sede del palazzo municipale di Piazza Solari per il “Carnevale francavillese ”, concretizzatosi con il raduno delle maschere e dei carri al Viale del Drago, con la sfilata lungo le vie del paese e la tappa finale in piazza S. M. Degli Angeli. Un pomeriggio di svago e di sano e puro divertimento per le tantissime persone adulti e bambini Un «motivo d’orgoglio», insomma, per l’Amministrazione di Francavilla Angitola . Una domenica molto speciale, all’insegna del divertimento, della libertà di espressione e dell’allegria, senza nessun limite di età.
CONSULTA ASSOCIAZIONI VALLE DELL’ANGITOLA Segnaletica del patrimonio nella Valle dell’Angitola
La neo costituita Consulta delle associazioni Valle dell’Angitola con sede a Monterosso Calabro e che vede raggruppati i sodalizi culturali di 9 comuni, comincia a portare a casa i primi risultati. Dopo il convegno dello scorso mese di Agosto sulle infrastrutture Borboniche organizzato nel centro Angitolano, oggi un altro tassello sta per essere inserito al mosaico per la promozione del territorio. Negli uffici del Parco Regionale delle Serre, il presidente Antonio Parisi e il vice Bruno Congiustì hanno presentato al Commissario Pino Pellegrino un progetto per segnalare i beni patrimoniali e gli itinerari turistici attraverso una cartellonistica che riguarderà i 9 comuni che fanno parte del comprensorio. Un’idea che il Commissario dell’ente parco delle Serre ha sposato fin da subito, da quando in occasione del convegno di Agosto era stata proposta. Il Parco delle Serre si assumerà l’onere della stampa e della messa in opera, con 5 cartelli madre che racconteranno la Valle dell’Angitola e suoi tesori, posti in punti strategici come le usciti autostradali e le vie di accesso alla valle. Pannello descrittivo che comparirà in doppia lingua, italiano e inglese, mentre alle varie diramazioni stradali saranno istallati i 9 itinerari turistici, di vario interesse. Si partirà con l’itinerario naturalistico di Polia per visitare gli antichi mulini ad acqua e la felce preistorica Woodwardia radicans. L’itinerario di Bizantino – Medievale di Francavilla Angitola sarà da apripista per quello illuministico e archeologico di Filadelfia – Castelmonardo. Lungo l’ex SS110 già via Regia si incontreranno gli itinerari Borbonico con il Santuario di Mater Domini e Il Balcone delle Calabrie di San Nicola da Crissa, il Faunistico - archeologico con l’oasi dell’Angitola, i ruderi di Rocca Angitola e la Piana degli Scrisi per Maierato, il polo museale di Monterosso Calabro, lo Storico – Artistico con Nicastrello e gli affreschi di Renoir a Capistrano e quello Religioso – Paesaggistico di Vallelonga con i quadri di Andrea Cefali e la Basilica Minore di Monserrato, per chiudere con l’itinerario Basiliano e la macchia Mediterranea del bosco Fellà di Filogaso. Consulta delle associazioni Valle dell’Angitola che sabato si ritroverà a San Nicola da Crissa ospite della Filitalia International, uno dei sodalizi che per prima ha lanciato l’idea unitaria per salvaguardare il territorio.
Soddisfatto al termine dell’incontro il presidente della Consulta delle associazioni Valle dell’Angitola Antonio Parisi:<<L’incontro con il Commissario Pino Pellegrino è stato molto produttivo quanto entusiasmante. Le nostre idee sono state ascoltate e spero che da oggi in poi si comincerà a pensare in maniera positiva in questo territorio. I panelli e le indicazioni faranno capire che anche nell’entroterra esistono dei beni culturali che vanno valorizzati. Insieme alle associazioni che hanno preso parte a questa sfida, stiamo stilando un programma che avrà molta visibilità anche all’estero sfruttando le nostre piattaforme. Ringrazio quanti hanno lavorato a questo progetto e ci hanno messo passione come il Commissario Pellegrino che fin da subito ha creduto nell’iniziativa>>.
Nicola Pirone
Sono passati QUINDICI anni dalla fondazione del più importante sito di cultura che abbia avuto Francavilla, ha saputo far conoscere e diffondere le tradizioni religiose e laiche suscitando ammirazione e consensi anche al di fuori dell'ambito paesano. Vero scrigno delle memorie storiche del nostro paese.
CARNEVALE FRANCAVILLESE 2020
II Carnevale è tempo di baldoria, di divertimento, di spensierata allegria. E' per questo che, l’Amministrazione comunale di Francavilla Angitola, guidata dal Sindaco avv. Giuseppe Pizzonia a organizzato per giorno 23, ore 15,00, una SFILATA SU CARRI ALLEGORICI, CON BALLI IN MASCHERA per le vie del paese, Una domenica molto speciale, all’insegna del divertimento, della libertà di espressione, senza nessun limite di età.
AntonioLazzaro Presidente del Consiglio Pizzoniavara il rimpasto Michele Caruso nuovo assessore allo Sport e alle Politiche giovanili
Sorta di “mini-rimpasto” in seno alla maggioranza consiliare che sostiene il sindaco Giuseppe Pizzonia. Ciò per cause di forza maggiore. Pochi giorni fa, infatti, si è svolto il primo consiglio comunale francavillese del 2020. Il primo dopo l’improvvisa scomparsa dell’assessore comunale alla Cultura Armando Torchia. Un consiglio comunale carico di vera commozione, alla vista di quel posto, ormai vuoto, dove era solito sedere proprio l’amministratore locale francavillese scomparso a dicembre. Tre i punti all’ordine del giorno. Ovvero “Surroga consigliere comunale”, “Sostituzione presidente consiglio e vice presidente” e “Ratifica delibera di giunta del 02/12/2019”. Detto ciò, prima che i lavori iniziassero, assente solamente l’ormai ex presidente del consiglio comunale francavillese Michele Caruso a causa di un imprevisto, è stato osservato un minuto di silenzio e ai posto dove sedeva solitamente Armando Torchia è stato deposto un mazzo di rose rosse. Il Sindaco Pizzonia ha ricordato l’impegno e lo spirito che ha contraddistinto il compianto Armando Torchia nella sua esperienza amministrativa. Per Anna Fruci, consigliera comunale di maggioranza con delega alle Pari opportunità, «è stato strano, insolito e triste andare nella sala consiliare e vedere quella sedia, che per molti è una semplice sedia, vuota. Nessuno di noi si aspettava di dover vivere una sensazione come questa. Quella sedia che tu occupavi, oggi era vuota. un bouquet di fiori rossi in modo che ti arrivi quell’affetto “esplosivo” che tutti noi proviamo tuttora per te. Ci manchi tanto prof. Senza di te nulla è più come prima, adesso che puoi, guidaci tu. Un bacio al cielo». Anche per Domenico Anello, vice sindaco, non è stato per nulla facile vedere quel posto in Consiglio vuoto, dove è stato adagiato quel mazzo di rose rosse, questo per il fatto che «il nostro territorio ha perso una persona speciale, cordiale e sincera che in questi 2 anni e mezzo ci ha insegnato tanto con i suoi modi pacati e ben voluto da tutti. Ricordo la bellissima giornata di due giorni prima della tragedia quando siamo stati insieme a pranzo nella tua scuola del cuore con i tuoi splendidi colleghi e amici che ti hanno voluto un grande bene. Grazie a te, ha aggiunto tante cose siamo riusciti a fare, sono sicuro che dove sei sicuramente sarai già il “numero uno” e il più ben voluto. Riposa in pace caro amico». A raccogliere il pesante testimone di Armando Torchia è stato proprio Michele Caruso, nominato nuovo assessore comunale allo Sport, Politiche giovanili e Sviluppo economico. A ricoprire la carica di presidente del consiglio comunale sarà, invece, Antonio Lazzaro (in sostituzione del dimissionario Caruso) che, in memoria dell’amministratore locale scomparso, ha voluto ricordare le sue doti e la voglia di fare bene per il proprio paese. Fra i banchi del civico consesso farà ingresso anche la “newentry” Rosario Giampà, ovvero, il primo dei non eletti, sempre nella lista di maggioranza. Infine, è stata ratificata la rateizzazione del pagamento inerente la spazzatura dell’anno precedente così per fare in modo che, a fine mandato, il bilancio comunale sia privo di debiti. FOTO - Il presidente Antonio Lazzaro e il neo assessore Michele Caruso
AUGURI DALL’ESTREMA AMERICA DEL SUD
Tra i consueti messaggi augurali, che ci si scambia all’arrivo dell’anno nuovo, uno è arrivato da molto lontano. Ce l’ha mandato dalla remota Patagonia (Argentina) - dove da poco tempo è iniziata la stagione estiva dell’emisfero australe - il dottor Mario Roccuzzo, valente odontoiatra e soprattutto mio caro nipote, in quanto figlio primogenito di mia sorella Carmen Davoli. Concedendosi una pausa dalla sua intensa attività dentistico-sanitaria svolta a Torino, Mario Roccuzzo con la moglie Silvia Ronchetti, docente/ricercatrice di Chimica e Tecnologia dei materiali al Politecnico di Torino, ha voluto visitare quella regione, sita agli antipodi dell’Italia (Patagonia e Terra del Fuoco), scoperta da Ferdinando Magellano, e meglio conosciuta grazie agli scritti sia dell’italiano Antonio Pigafetta (diarista della spedizione guidata dal suddetto navigatore portoghese). sia del britannico Bruce Chatwin.Mario e Silvia hanno inviato gli auguri di “Buon anno dal Perito Moreno”, corredandoli con una fotografia che li ritrae con i loro volti sorridenti avendo per fondale il grande, spettacolare ghiacciaio denominato “Perito Moreno”.
Consultando Wikipedia vi si apprende che il “Perito Moreno” fa parte dell’enorme calotta glaciale denominata in spagnolo “Los Glaciares” che per volume è la terza nel mondo tra le riserve di acqua dolce, superata soltanto dalla Groenlandia e prima ancora dall’Antartide.Il ghiacciaio “Perito Moreno”, con l’intero Parco nazionale argentino “Los Glaciares”, per la sua bellezza, per l’interesse glaciologico e geomorfologico, e per la fauna parzialmente in pericolo di estinzione, è stato dichiarato nel 1981 Patrimonio mondiale della Umanità da parte dell’UNESCO.
Il dottor Mario Roccuzzo, pur essendo nato ed operando a Torino, è profondamente legato in generale alla Calabria, terra di nascita di sua madre Carmen Davoli, e specialmente ai territori del Lametino e del Vibonese. Dopo essersi laureato in Odontoiatria all’Università di Torino, M. Roccuzzosubito ebbe modo di incontrare e conoscere il famoso professore Mario Giancotti (da Piscopio/Vibo Valentia), luminare delle discipline dentistiche. L’illustre dentista prof. Mario Giancotti manifestò il suo apprezzamento per l’ottima preparazione del giovane dottore, che si era brillantemente laureato con il primo corso di Odontoiatria istituito a Torino.
Per il nostro sito www.francavillaangitola.com è un motivo di orgoglio e di vanto essere seguiti e ricordati da personaggi così importanti, seppure estranei al piccolo mondo francavillese.
Vincenzo DAVOLI
Ma la cavalla di Francavilla parla ancora?
Vi ricordate della bellissima incredibile storia di Stellina, la cavallina “parlante” di Francavilla Angitola? Sono passati anni da quando siamo venuti a conoscenza di quei "fatti" strani, di quell’uomo con la barba che conversava con il suo cavallo, pensavamo allora si trattasse di qualche contadino intento a ricevere dal suo cavallo uno strano rapporto di "obbedienza" ai suoi comandi. Il "caso" di Francavilla Angitola fu poi successivamente affrontato dai media di mezzo mondo quando lo psicologo Vincenzo Viscone, dopo anni di serio silenzioso studio e sacrificante ricerca, decise di svelare i frutti del suo paziente lavoro facendo conoscere le sue esperienze scientifiche con una cavallina di nome Stellina. Toccò agli esperti etologi delle università internazionali studiare e approfondire tutto il resto. Non sappiamo se sia stata veramente abbattuta una barriera nelle comunicazioni tra uomo e animali. Certamente e oggettivamente non sappiamo ancora cosa significò quel "dialogo" che "vedevamo realizzarsi" tra uomo e animale e animale e uomo, e se tutto ciò abbia avuto un vero significato. Per anni Francavilla Angitola, centro del vibonese a pochi chilometri da Filadelfia, è stata meta continua di giornalisti, operatori di ripresa e fotografi delle agenzie, semplici curiosi e corrispondenti delle testate giornalistiche di tutto il mondo. Il Tg Uno, T3, T3 Regione, radiogiornali Rai, Rete 4, Radio Cuore, Radio Studio G, la prima pagina de Il Messaggero, Il Secolo XIX di Genova, Visto, La Gazzetta del Sud, il Domani, Il Giornale della Calabria, Il Quotidiano, Le Calabrie, Cronaca Vera, L'Artiglio, Rete Kalabria, Il Mattino di Napoli, Il Corriere di Milano, l'Agi, l'Ansa e grandi testate estere come il The Sunday Times, il Daily Mail di Londra, Le Matin della Svizzera, France Soir della Francia, si interessarono di Viscone, tutti chiesero di contattare Vincenzo e la sua cavalla "Stellina". Oggi la notizia ha già fatto il giro di tutto il mondo. Ma cerchiamo di ricordare l’incredibile storia nei dettagli: Vincenzo Viscone, oggi 53 anni, è uno psicologo nato a Filadelfia. Da anni è residente a Francavilla Angitola ed è proprio nelle campagne di Francavilla Angitola che il dottor Viscone ha scoperto una cosa sensazionale che porterebbe a clamorosi capovolgimenti della scienza dell'etologia. Vincenzo Viscone ha elaborato, durante i suoi lunghi studi, un linguaggio che utilizza il sistema binario e ha realizzato un codice di comunicazione di intermediazione specifica - con un cavallo. Il cavallo in questione è in realtà una cavalla e si chiama Stellina. Lo psicologo ci disse che durante alcune sue sperimentazioni si accorse che l'animale rispondeva ad alcuni stimoli verbali. "Le cose sono andate avanti molto lentamente - ci dice Viscone - all'inizio ho dovuto insegnare a Stellina tutti gli elementi che la circondavano nell'ambiente, come si fa con i bambini, con pazienza, tramite catene associate, ripetendo molte volte parole e concetti. Poi, solo dopo, ho utilizzato il codice binario, quello dei computer, e finalmente ho avuto risposte dal cavallo. E' stato questo il momento più bello dell'esperienza", ci racconta emozionato lo psicologo, "quando ho capito che le mie parole avevano un senso nel cervello di Stellina e quando attraverso risposte basate sul sì e sul no, sul positivo e sul negativo, sull'uno e sullo zero, ho visto che mi dava risposte logiche e che, cosa importantissima, non si contraddicevano mai e mai, chiedendo più volte in periodi diversi la stessa cosa, si avevano risposte diverse. Stellina dimostrava di rispondere in piena coscienza". Stellina per dire sì o no, successivamente alla domanda dello psicologo, e solo successivamente, indirizzava il muso alle mani del dottore Viscone e toccava con il muso il pugno chiuso per rispondere no o la mano aperta per rispondere sì. Oggi, da anni, quel cavallo non è più a Francavilla Angitola, si trova in un maneggio della vicina Maida, in provincia di Catanzaro. Il dottore Vincenzo Viscone, ha in questi anni tenuto, giorno per giorno, un diario che lui definisce "equidiario". In questo libro di viaggio nel mondo misterioso e sconosciuto della natura. Viscone ha appuntato minuziosamente tutte le esperienze, le prove, gli insuccessi e i successi delle varie giornate di lavoro con Stellina. Poi ci mostra una pagina che porta la data di un giorno di anni fa, è una pagina in bianco con una scritta in rosso. C'è scritto solo eureka. Quell' espressione, quel giorno, corrisponde al momento in cui il dottore Vincenzo Viscone ha avuto quel primo contatto straordinario con la mente cosciente, attiva e quasi umana di Stellina. Il dottore Viscone paga ancora quotidianamente questo suo successo scientifico, questa sua ricerca sconfinata al di là del credibile. Molti non credono,altri sono indifferenti. Noi crediamo che questo fatto meriterebbe di essere ancora seriamente recuperato, affrontato, studiato, comparato. Viscone è uno studioso serio con conoscenze profonde della psicologia. Crediamo che questo caso, ripetiamo, ancora da studiare, sovvertirà se provato il mondo degli studi dell'etologia e dell'ambiente scientifico internazionale. Ma, per adesso, istituzioni, stampa, studiosi, si sono già dimenticati di Stellina, di Vincenzo e delle inedite ricerche di etologia sviluppate a Francavilla Angitola.
Franco Vallone
Lo storico prof. Antonio Galloro di San Nicola Da Crissa, ci ha fatto la gradita sorpresa di inviarci un suo studio di onomastica calabrese. Si tratta della sua ennesima opera letteraria che come al solito non manca di scrupolosita' e precisione. Edita dal periodico "la Barcunata". Lo ringraziamo cordialmente e volentieri pubblichiamo il materiale inviatoci, perché possa essere apprezzato dagli appassionati lettori del nostro sito . ANTONIO GALLORO ORIGINE STORICO-LINGUISTICA DEI COGNOMI IERACITANO E CÁLLIPO STUDIO DI ONOMASTICA CALABRESE _________ STAMPATO IN PROPRIO__________ SAN NICOLA DA CRISSA (VV), 10 MAGGIO 2010 INTRODUZIONE Lo studio che riguarda l’origine dei nomi di persona (cognomi) e di luogo (toponimi) è una scienza assai complessa, non soltanto perché alla loro formazione concorrono elementi linguistici eterogenei, appartenenti cioè a diversi ceppi idiomatici, che sono di non facile identificazione ed al cui etimo, quindi, non sempre è possibile risalire, ma anche e soprattutto a causa delle continue modifiche e trasformazioni, che essi sono costretti a subire da parte dell’inesorabile Tempo, che, sulla Terra, durante il suo veloce e violento passaggio, secondo la giusta considerazione del poeta latino Ovidio, divora ogni cosa: Tempus edax rerum (1). A questi cambiamenti e deterioramenti, a cui l’uomo non può porre rimedio alcuno, in quanto rientrano nel ciclo naturale della precarietà della sua esistenza terrena e sfuggono pertanto al suo diretto controllo, si aggiungono le deformazioni dovute alle inesatte trascrizioni anagrafiche da lui medesimo apportate nel corso dei secoli ed imputabili a sua esclusiva incapacità ed incultura. È esattamente a causa di queste alterazioni che i cognomi e qualsiasi altra forma di dizione (o parlata) popolare, con il passar degli anni, finiscono per smarrire sempre più la loro identità originaria, per assumere una forma diversa e, poi ancora, un’altra, fino a divenire, alla fine, del tutto irriconoscibili (2).
Lo staff è lieto di annunciare che oggi, finalmente, è cominciata l'avventura sognata da mesi: viene pubblicato il nuovo sito: www.francavillaangitola.com, grazie alla tenacia di Giuseppe Pungitore, alla determinazione di Mimmo Aracri, alla saggezza dell'ing. Vincenzo Davoli e alla intraprendenza di Antonio Limardi jr.
LUGLIO 19-2020 XVI DOMENICA T.O.
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Siamo alla sezione delle altre tre parabole che Gesù espone alle folle nel cap. 13 di san Matteo. Domenica scorsa avevamo esaminato la parabola del Seminatore il quale seminava la Parola di Dio su terreni diversi e dai quali il Seminatore che abbiamo identificato con Gesù, si attendeva una crescita da tutti i tipi di terreni, confidando non certo nella bontà della qualità del terreno ma esclusivamente sulla fiducia in Dio che provvidenzialmente alla fine farà crescere e fruttificare i vari tipi di terreno, come SOLO Lui sa. Stamattina in queste altre parabole della zizzania, del granello di senape e del lievito, san Matteo ci pone dinanzi il mistero del Bene e del suo agire inseparabilmente dal Male, in questo continuo crescere e farsi del Regno di Dio che solo alla fine avrà esito certo e splendido. In questa fase difficile che è “la semina” come dicevamo domenica scorsa, siamo chiamati a seminare a larghe mani e senza risparmio guardando non all’immediato né al Male che troviamo frammisto al Bene che seminiamo e che potrebbe essere deludente, ma al futuro e confidando totalmente nella sicura provvidenzialità di Dio. Nei versetti 24-30 Matteo espone la parabola della “zizzania”, seminata nottetempo dal “Nemico” del Padrone del campo, il quale invece aveva seminato grano di ottima qualità, grano “bello”. I servi si accorgono mentre quest’ultimo va crescendo, come vi si trovi presente la cattiva e velenosa “zizzania” e chiedono di poter andare ad estirparla perché “inquina e soffoca” il buon raccolto. Ma il Padrone che conosce l’agire del Nemico e che “sa il fatto suo”…, ordina perentoriamente di lasciare crescere il “grano buono” insieme alla “cattiva zizzania” e solo al momento finale del raccolto di separare i due destinando al fuoco distruttore e purificatore la zizzania mentre il buon grano verrà riposto nei granai del Padrone. Spesso anche noi vorremmo far funzionare ogni cosa a modo nostro, anche il grande Mistero del Regno dei Cieli, cercando idealmente ma illusoriamente di apportare modifiche forzate nel tentativo inutile di ottenere il meglio in ogni cosa. Questo è l’efficientismo del nostro tempo! Spesso anche nelle relazioni interpersonali cercheremmo sempre il meglio, pronti ad interrompere, distruggere, annullare tutto quanto non rientra nei nostri schemi e nelle nostre aspettative. Come domenica scorsa “la pioggia – cioè la Parola - non ritorna a Colui che l’ha mandata, senza aver prima prodotto il suo effetto” così stamattina il Padrone non resta “sconfitto” dal suo Nemico, lui si che certamente ne uscirà sconfitto e con… le ossa rotte nel suo vile e malvagio intento, ma solo alla fine della raccolta apparirà il successo del Padrone che ha la pazienza di aspettare e di attendere. Talvolta per “fini buoni” abbiamo cercato anche nel campo più squisitamente religioso e cristiano di separare le due opposte e diverse realtà, Bene e Male, riuscendo invece solo a creare più danni. Dobbiamo riconoscere che anche noi, secondo quella “sapienza del mondo” che abbiamo già incontrato, non riusciamo ad accettare questa “necessaria convivenza” che lungi dal distruggere ed impedire, si risolverà in un servizio al Bene con la sua totale e definitiva vittoria e riuscendo solo ad esaltare maggiormente il Bene stesso. Così, non esiste una Chiesa ed una comunità di “perfetti” come immaginiamo noi. Del resto il bene e il male coesistono in ciascuno di noi senza distinzioni di sorta, sarebbe da stolti non volerlo riconoscere e che solo nella Croce di Gesù Cristo troverà la soluzione (san Paolo Rm 7,21-25)! Dio stesso fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. Dio che nel bene si rivela come dono, nel male si rivela nella sua essenza più intima e propria come per-dono, amore senza condizioni e senza limiti. In questa sezione del vangelo di san Matteo ci troviamo di fronte ad una doppia semina: quella del bene prima e poi del male (vv.24-26) e delle doppie posizioni, quella dell’uomo “andiamo a strapparle (le zizzanie)” e quella di Dio “lasciate che crescano insieme”. Dio dunque è pienamente consapevole della situazione di preponderanza delle forze del male e della esiguità e contaminazione del bene stesso. Tuttavia sceglie volutamente la strada della debolezza, della piccolezza del seme (vv.18-23) ma che tutta via Dio fa si che diventi un grande albero, dell’apertura a tutti del suo Regno (vv.31-33) e dell’esiguità del lievito ma che fa fermentare tutta la pasta. E’ Lui che permette certe cose perché “le sue vie non sono le nostre vie e i nostri pensieri non sono i suoi pensieri”. L’agire di Dio resta infinitamente diverso e lontano dal nostro. Questa logica del Regno deve esserci sempre presente per non dimenticarla mai. Gesù che ha seminato la Parola del Padre e la vive è la misericordia verso tutti. La Chiesa si ritrova invischiata con il male ( la storia di questi ultimi anni ma anche quella di sempre è piena di esempi come gli scandali, le divisioni e gli scismi), ciononostante ne uscirà sempre vincitrice e non certo per sua capacità o meriti…! Tentata di strapparlo via con violenza è chiamata invece a vincerlo con il bene, facendolo oggetto di misericordia anziché di condanna. E’ la legge scandalosa e sapiente della Croce, apparentemente sconfitta, ma che alla fine vince sul Male del Mondo, anzi lo è già. Qui sta tutto il Mistero del Regno! Chiamati ciascuno a farne parte, buoni e cattivi, consapevoli della nostra inadeguatezza, debolezza ed indegnità ma in continua conversione (siamo chiamati perché Dio è infinitamente buono…) questa Parola ci invita a fidarci e ad avere piena confidenza in Dio, il solo che provvede e fa crescere come “albero meraviglioso (la Croce) presso i cui rami albergano - cioè si rifugiano - tutti gli uccelli del cielo” il suo Regno di amore, di gioia, di giustizia e di pace, Regno di santità, manifestando così l’universalità dello stesso. Un’attenzione particolare va posta alla finale molto forte dei vv.41-43 dove si fa chiaro riferimento ad una “fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”, dove verranno gettati gli operatori di iniquità. Lungi dal volerci incutere paura o terrore essa vuole invece richiamarci alla responsabilità che ciascuno avrà come di fronte all’ascolto della Parola così di fronte alla scelta liberissima e oltremodo personale tra Bene e Male. Il Male certamente non resterà impunito come spesso scioccamente e superficialmente pensiamo o possiamo pensare quasi come se dovesse avere la meglio su tutto. Così pure come richiama a riflettere quanti pensano che l’Inferno sia… “una storiella” per metterci paura! I figli di Dio sono i Figli della Luce e di questa devono essere portatori! Del resto essendo rinati nel santo Battesimo come nuove creature, dovremmo aver dichiarato, come Il Figlio, guerra aperta ad ogni manifestazione del Male, senza avere alcuna connivenza con esso a costo della vita che invece riposa sicura tra le braccia del Padre che si prende costante cura di tutti e di ciascuno come per “i passeri e i capelli del nostro capo” (Mt 10,30). AMEN!
Voleva prendere il sole Un racconto fra leggenda e realtà di Pino Furlano È il 17 di agosto del 1961. Sulla spiaggia del “Pioppo” a due passi dal mare, appisolato sotto l’ombrellone al riparo dal sole del primo pomeriggio, mi giungono le parole di mia madre e dell’amica d’infanzia Eleonora, che lavorando all’uncinetto, insieme ricordano la storia di Vincenzo che, innamorato di un sogno, voleva prendere il sole e morì per amore.
E Vincenzo protese il braccio per l’ultimo affondo prima di riposare per qualche istante. Si fermò sulle gambe come fosse terra ferma e con le braccia creava equilibrio per restare a galla. Lo sguardo si allungava verso la riva del mare che si nascondeva a tratti dietro alle piccole onde di spume e riflessi. Distingueva ancora bene gli ombrelloni colorati dell’estate e la gente, donne e bambini e uomini rilassati al sole del tardo pomeriggio.
La Pineta era una macchia lontana, allungata sulla sabbia arroventata d’agosto. Disegnava una linea più scura come un primo contrafforte allo sguardo che si allungava verso le alture più appresso. Lui sapeva che erano le montagne delle Serre, solo quello gli veniva alla mente ma tanto gli bastava per sorridere ancora.
Vincenzo si lasciò accarezzare la schiena e le spalle dal sole e poi si voltò a guardare il cielo, il viso rivolto all’azzurro nella posizione del “morto a galla”.
Si concesse qualche minuto e poi riprese a forti bracciate a incrociare le onde e le spume che lo investivano. Provava una certa euforia al solletico dell’acqua nelle orecchie e nel naso e le sue bracciate divennero più distese, morbide per quanto efficaci all’andare lontano.
Vincenzo non faceva il bagno, non scappava dal mondo.
Vincenzo andava incontro al sole.
Aveva detto che voleva incontrarlo al tramonto e finalmente era sempre più vicino. Più vicino che mai, da quando era bambino. Sì perché Vincenzo era stato bambino, con i suoi piccoli sogni, le grandi speranze e un desiderio: incontrare il sole.
Vincenzo non aveva memoria di quanti tramonti aveva osservato, immobile e rapito da quel fenomeno e voleva capire il fascino che riempiva i cuori delle persone “grandi” affrancati alla spiaggia per vedere la palla di fuoco coricarsi nel blu più profondo scurito al far della sera.
anche dall’alto della campagna del Paese aveva guardato affascinato la palla di fuoco immergersi. Lassù dove gli ulivi erano inframmezzati da immensi fichi d’india, pale spinose legate fra loro da piccoli nodi e difese da spilli minuscoli come sospiri di gnomi.
Da lassù tutto pareva immenso, il mondo si perdeva ai suoi occhi bambini ed allora gli appariva più grande di quanto la sua fantasia potesse raggiungerne i confini. Frugava con gli occhi il frastagliato orizzonte sperando potesse apparire seppure confuso, il Monte: Stromboli gli avevano detto, sì un nome tutt’ora strano per lui semplice uomo di mare e di mezza montagna.
Come allor, lentamente, spiegava le braccia come un bianco gabbiano non a volo nell’aria ma nell’acqua di sale, avvolto da profumi trascinati da secoli di carezze e parole d’amore e promesse. E tornava a nuotare.
Vincenzo pensava all’amore, quello che aveva vissuto, presente ancora nella mente e nel cuore. Chiamava l’amore per nome, come in un mistico pensiero: Maria. Gli ritornava il suono della sua voce e la ascoltava come faceva da sempre senza interrompere il suono carezzevole che si confondeva al sapore delle sue labbra, il profumo del suo respiro.
Vincenzo amava da sempre Maria. Le offriva fiori e promesse, le mani e la sua giovinezza e lei gli sorrideva. Complici e irridenti all’attenzione delle loro madri ben consce nel loro silenzio di quel tenero amore. Sfuggivano ancora bambini agli occhi dei grandi nell’angolo in fondo alla strada scambiandosi un tenero bacio. E promesse, eterne come può essere eterno l’amore che nasce fanciullo.
Il sole era sempre laggiù alla fine del mare e l’acqua gli mostrava la strada lasciandosi brillare da raggi dorati distesi a lambire fantasie e ricordi che Vincenzo sentiva scaldare nel cuore.
Ancora qualche bracciata e ancora uno sguardo lontano, appoggiato alle onde di spume a vedere indistinti puntini di genti attardate all’oziare, ora lontani agli occhi di sale che frugano lo spazio interrotto da quei pini posti a barriera fra il mare ed il mondo, profano ai battiti del cuore di Vincenzo.
Era solamente di ieri quel bacio su labbra fragranti, ardore come lui aveva inteso sentire. E Maria che gli sorrideva, dolce e morbida e gli occhi di velo. Si stringeva a lui con tremante timore e lui coglieva l’intenso desiderio.
Uno sguardo di Vincenzo al mare e uno ancora lassù verso il cielo che aveva lo stesso colore degli occhi di Maria, perché lui aveva la certezza che il cielo avesse assunto lo stesso colore, invidioso degli occhi di Maria. E anche le sete più belle facevano fatica a competere con i suoi capelli. E i velluti più morbidi rischiavano vergogna al tocco della sua pelle.
Con quei pensieri Vincenzo riprese a nuotare per andare a prendere il sole e donarlo al suo grande amore. Nulla è impossibile per chi ama ed è riamato. Ma se “l’amore tradisce, i palpiti e le forti emozioni d’improvviso svaniscono”.
Ma Vincenzo non aveva ragioni per temere di perdere l’amore, quello intenso che aveva conosciuto, che in lui era nato da sempre, da quando bambino giocava con gli altri ma cercava con gli occhi Maria.
Era amore quando si fermava alla fonte, la sorgente giù in fondo alla vecchia scarpata a sorbire quell’acqua stranamente gelata per portarne un poco alla marina: sapore di fresco e pulito da dividere fra lui e Maria. Era amore quando la accompagnava per la solita strada che passava in campagna di Bosco Madonna e sbucava appena al di sopra della fonte di “Joculanu”. Spesso si era domandato se era la stessa sorgente di Talagone o se avesse passaggio di un’altra vena. Ma lui aveva solo una vena: quella del sangue pulsante per Maria.
E ancora lente bracciate, mani a fendere morbide onde di spume di mille colori. Riflessi sempre più bassi del sole che baciò il suo viso cosparso di luce e speranza come quando vedeva Maria. Lui la cercava in ogni momento del giorno o al calar della sera seduto al gradino più alto della scala davanti alla Chiesa.
Quanto breve era il tragitto dalla Chiesa alla porta di casa. Le preghiere e gli ultimi canti rompevano il silenzio davanti alla Chiesa della Madonna delle Grazie e quel canto prometteva l’uscita del suo amore.
Quanto dolce era il suo sorriso quando incrociavano gli occhi e gli sguardi. E Maria arrossiva solo un poco, un sorriso di fede d’amore.
No. Non percepì ancora alcuna stanchezza Vincenzo. Lentamente continuò il suo viaggio come quel pomeriggio dopo il Vespro. Si, lui aveva seguito Maria che compagna di altre fanciulle, aveva allungato il suo tempo verso il basso del vecchio Paese.
Sole caldo di un gradevole maggio, fiori nuovi intorno all’antico Calvario con gli occhi a guardare la verde campagna come verdi erano le risa fanciulle di Maria e verdi le tante promesse.
Così Vincenzo aveva osservato a lungo il mare, le sue onde e le spume biancastre e il sole che andava a calare indorandone l’aria e il vento. Aveva deciso di coronare il suo sogno, quel gran desiderio di donare a se stesso e a Maria un bacio al sole al tramonto.
Un tramonto come tanti che aveva vissuto disteso con lei sulla riva sfiorati da brezze e carezze di sabbia indiscreta fra loro. Sorridenti al volo di qualche gabbiano stizzito dall’essere disturbato nell’attesa dell’ora del volo sul mare a cercare il suo cibo.
Ma Maria quel giorno non c’era, non era venuta con lui sulla spiaggia, non l’aveva preso per mano a calpestare la sabbia dorata. Non avevano cosparso di passi, di sospiri la folta pineta camminando sugli aghi distesi a tappeto sulla terra al profumo di resine e sale.
E Vincenzo continuò a nuotare instancabile verso il sole. Oramai un puntino lontano e non udiva la voce di Maria che lo chiamava a gran voce del cuore, con gli occhi inondati di lacrime, che non voleva quel tramonto e quel sole se non con lui tenuto per mano in un bacio che potesse far perdonare un istante di smarrimento d’amore.
Ancora un attimo per poter vedere, o forse ancora di più immaginare, che quei punti lontani sulla spiaggia agitassero le mani a un saluto. Che il brusio che giungeva all’orecchie non fosse altro che un sollecito sprone per Vincenzo a continuare, che oramai era tanto vicino da poter quasi prendere il sole. Ancora un sorriso dipinge il suo volto e continua a spargere amore fra le onde dischiuse al sole, al tramonto che lo ha fatto sognare. “Storia di fantasia o fatto reale? Sono passati oramai tanti anni e alla sera, sulla sabbia in riva al mare, guardando ancora il tramonto qualche vecchio può ricordare quella tenera, intensa quanto triste storia d’amore. Di Vincenzo che amava Maria e voleva andare a prendere il sole per offrirglielo come pegno d’amore.”
LUGLIO -12-2020 XV DOMENICA T.O.
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
In questo cap.13 del vangelo di san Matteo troviamo quattroparabole per le folle sul Regno dei Cieli (il seminatore, la zizzania, la senape e il lievito: Mt 13, 2b-9.24-30s.33) e quattro per i Discepoli (il tesoro, la perla, la pesca e lo scriba: Mt 13,44.45.47-50.51s). Regno che per noi resterà sempre un mistero, dove tutti i nostri discorsi e i nostri ragionamenti ne usciranno sempre spiazzati per farci restare a bocca aperta per lo stupore dell’agire di Dio. Gesù illustra l’enigma della storia sua e nostra che presenta un duplice scandalo: quello del male che sembra riuscire e prevalere e del bene che invece sembra soccombere inevitabilmente. E’ il modo come Dio vede e dirige la storia, verso “il già e il non ancora” ma che avrà sicuramente un esito positivo visto che è Lui stesso che la dirige verso il bene! Anche se il Regno stesso sembra fallire – basti osservare oggi il predominio del male, del torbido e del maligno – avrà una svolta e una soluzione tutta divina e secondo Dio che con nostra grande meraviglia ci sorprenderà e ci riempirà di stupore. E’ così che stamattina questo “seminatore” apparentemente… sprovveduto e che appare in questa prima parabola, semina su ogni tipo di terreno, fertile e non, ben sapendo che non tutto il seme darà frutto. Al contrario, il seminatore che poi è Gesù, semina senza fare scelte del tipo di terreno, su tutto e dando la possibilità a tutti di accogliere e quindi far fruttificare “il seme che è la sua Parola”. Del resto fa quello che i padri hanno fatto da sempre e come sempre si sono procacciati da vivere fin dall’antichità. Sarebbe troppo facile seminare solo sul terreno buono con la sicurezza di una crescita certa e scartando ogni altro tipo di terreno perché non buono e non adatto al nostro scopo! Strada, pietre, rovi e quant’altro, sono le resistenze che noi opporremo consapevolmente e non, alla crescita di questo “seme” che è la Parola stessa di Gesù, la terra siamo noi con il nostro cuore, là dove Gesù vuole entrare per trasformarlo senza escludere nessuno buoni e cattivi, adatti e meno adatti. Ogni terreno per Gesù è adatto per la semina e da tutti si attende frutto e risposta a seconda di quanto può dare ciascuno. Certamente noi avremmo scelto con perizia “quasi scientifica”su quale tipo di terreno seminare e avremmo abbandonato quel terreno che presuppone una scarsa ed insufficiente raccolta o possibilità di crescita del “seme” stesso! Non così Gesù il quale sa che tutto dipende dal Padre e che anche “dalle pietre può far sorgere figli ad Abramo” (Mt. 3,9)! Del resto anche Gesù nei capitoli 11-12 fa esperienza dell’indurimento del cuore dei suoi ascoltatori anche di fronte ai segni straordinari che egli compie. Quello che è certo è il risultato, come qualche domenica fa, dove l’apparente “fallimento e debolezza” per intervento provvidenziale di Dio portava a buon fine tutta l’opera della Redenzione, al di là dei mezzi e della sproporzione delle forze (Is. 55,10-11). Anzi proprio alla debolezza dà una potenzialità insperata che spiazza ogni raziocinio ed ogni logica umana. Il metodo di annuncio del Regno scelto da Gesù è per mezzo delle “parabole” cioè delle narrazioni che affondano le radici nella realtà di tutti i giorni ma che hanno una comprensione ben più profonda di un qualcosa che è nascosto alla realtà e che va al di là della comprensione e dell’intelligenza umana. Noi siamo chiamati a prendere coscienza delle nostre resistenze e a chiedere di esserne liberati. Solo ai suoi Discepoli, “i piccoli”, “i suoi”, viene rivelato il mistero del Regno a differenza “degli altri”, di coloro che non accolgono la Parola e per i quali il Regno stesso resta nascosto e oscuro. In questa opposizione del male si compie la volontà stessa di Dio, il Signore rifiutato e ucciso sarà per gli oppositori il “segno di Giona”, al male estremo Dio oppone il dono estremo, usa misericordia senza fine per tutti. Anche nella vicenda umana di Gesù il Padre risponde alle soverchianti forze del Male risuscitando in maniera “inattesa” - anche se in più parti e in più tempi preannunciata - il Figlio amatissimo. “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la Grazia” scrive san Paolo: qui si compie il mistero della volontà di Dio. I quattro tipi di terreno: strada, sassi, spine e “terra bella”, significano i diversi tipi di ascolto dentro di noi. Quando noi ascoltiamo la Parola, pressioni interne ed esterne, preoccupazioni ed inganno della ricchezza, fanno si che la Parola non venga accolta totalmente. Ma in noi c’è anche la “terra bella”, quella parte adatta e aperta ad accogliere con disponibilità la Parola seminata in noi. Dobbiamo riconoscere come queste diverse situazioni di ascolto e di accoglienza siano presenti contemporaneamente in noi, come gli Apostoli di Gesù che si riconoscono nei vari terreni. Ed è a loro che Gesù apre la loro mente alla comprensione della sua Parola, dando privatamente spiegazioni aperte e chiare, non più “velate” e nascoste sotto i molteplici significati delle parabole. Il che non significa che Gesù “abbandoni” o non si prenda cura delle folle e di coloro che non accolgono la Parola, ma, e questo è nello stile di Dio, riserva a sé la libertà di salvare come Lui vuole. Alle masse è dato di “ascoltare ma senza comprendere, guardare ma senza vedere….e non si convertano…e Lui li guarisca”. Questo è predetto da Isaia, ma indica come infondo la storia dell’uomo è sempre uguale e come solo la Grazia, la benevolenza del Dio che è “grande nell’Amore” salverà l’umanità peccatrice. E’ il mistero del Male che alla fine sarà vinto e battuto per sempre dall’Amore che è Dio, non certamente per la capacità dell’uomo. E’ dunque una Parola che ci sprona ad entrare nell’ascolto e nell’accoglienza umile della Parola ma soprattutto di sperare nell’azione benigna di Dio che non permetterà che “la pioggia ritorni a Lui, senza aver realizzato ciò per cui l’ha mandata sulla terra…” (prima lettura)! I “piccoli” sono beati intanto perché vengono messi a parte del mistero del Regno ma anche perché vedono con i loro occhi pieni di fede il realizzarsi provvidenziale del progetto di Dio che certamente non fallirà contro il male. Verrebbe da pensare che se è Dio a tramutare il male in Bene, come solo Lui sa fare, allora conviene vivere liberamente e a nostro piacimento… tanto alla fine Lui metterà tutto a posto! In realtà non è così, perché c’è una grave responsabilità in ciò che ascoltiamo! Se è vero che è Lui che cambia in bene ogni male ed ogni opposizione al suo Amore eterno, è anche vero che siamo chiamati urgentemente ad entrare nell’economia della salvezza a seconda di quello che sappiamo e riusciamo a dare e sviluppare con la sua Grazia. Anche il solo bicchiere d’acqua dato ad uno dei suoi discepoli, dicevamo qualche domenica scorsa, può diventare idoneità per entrare nella salvezza di Dio! Qui sta il suo Mistero che alla fine apparirà a tutti come “opera meravigliosa”! AMEN.
LUGLIO 5-2020 XIV DOMENICA T.O.
In questo cap. 11 del vangelo di san Matteo, Gesù ci parla del modo come si presenta il mistero del Regno dei Cieli e come accoglierlo. Giovanni che si trovava in carcere manda i suoi discepoli a domandare a Gesù se fosse lui il Cristo o se bisognava attenderne un altro. Giovanni si trova spiazzato per motivi diversi. Intanto si trova in catene, lui che aveva annunciato la presenza del Cristo in mezzo a noi, poi i segni che Gesù va facendo non sembrano adatti al Messia dal quale ci si attende invece la liberazione del popolo ebraico e finalmente un riscatto sociale del popolo di Dio, come ormai da secoli la Legge stessa andava ripetendo e promettendo. Tutto questo non sembra realizzarsi in quell’oscuro predicatore nazaretano anche se compie dei segni prodigiosi. Lo stesso Giovanni aveva delineato in maniera forte il Messia con l’immagine della “scure posta alla radice dell’albero senza frutto”(Mt 3,10). E Gesù risponde a Giovanni proprio presentando “quegli stessi segni” con i quali il profeta Isaia aveva preconizzato l’Unto del Signore: “i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!” (Mt 11,4-6). Se Gesù compie dunque quei segni vuol dire che è lui Colui che attendevamo e che inaugura i tempi nuovi non con la forza e la violenza ma con la misericordia e la lotta senza quartiere contro il male. A questa presentazione che fa esplicito riferimento agli oracoli di Isaia, Gesù fa seguire l’elogio di Giovanni il Battista definendolo “il più grande fra i nati di donna” (Mt 11,11). Ma nonostante ciò che Gesù dice e opera, i maestri e i saggi di Israele, conoscitori della Legge, rifiutano di credere in Gesù perché si presenta diversamente dai loro schemi mentali e figlio di un povero falegname. Mentre proprio quei poveri e piccoli verso i quali si dirige l’attenzione e la compiacenza benefica e graziosa di Gesù sono invece disposti a credergli. “I piccoli”, cioè coloro che non pongono ostacoli a credere ma che si fidano di ciò che Gesù dice e fa. Sono i semplici come Dio è “semplice”, liberi da mentalità contorte e che vogliono tutto capire prima di credere ma soprattutto che rifiutano ciò che non è “previsto”, che è inatteso e che ci spiazza completamente. Per loro si eleva stamattina “l’inno di giubilo e di ringraziamento” di Gesù al Padre che “ha deciso nella sua benevolenza” di aprire lo scrigno del mistero del Regno dei Cieli a loro, ma di chiuderlo a quanti pensano arrogantemente di essere i detentori della Verità e quindi di non avere bisogno di un’altra Rivelazione né di una salvezza. Gesù è il rivelatore del Padre perché è il solo a conoscerlo essendo “colui che viene dal Padre” e anzi lui lo fa conoscere liberamente a chi vuole. A questa umanità provata, schiacciata e avvilita dall’antica Legge perché incapace di osservarla, umanità stanca e oppressa che attende finalmente una liberazione, Gesù si offre come colui che “dà ristoro”, riposo e riscatto, e a portare la sua Croce, la sola che può dare salvezza da ogni male, con “cuore mite e umile” come Lui. Se la salvezza è offerta a tutti, tuttavia bisogna mettersi nella disponibilità di accoglierla fidandosi di Gesù, credendo alla sua Parola e riconoscendo in Lui l’Inviato del Padre. Già il fatto di riconoscersi “peccatori” e quindi bisognosi di salvezza, come il Battista aveva costantemente richiamato con il suo battesimo ci apre a questa “Buona Novella” e ci dispone ad accoglierla. Spesso le prove della vita - noi stiamo tentando di uscire dall’esperienza traumatica del coronavirus - ci prostrano e ci gettano a terra. Gesù è il nostro solo rimedio a patto che ci lasciamo incontrare e trovare da lui. Non è immergendoci in una nuova FUGA, cieca, concitata e senza intelligenza, pur di dimenticare erroneamente e scioccamente quanto è successo – la nostra gente sembra essersi dimenticata quasi completamente di quei trentacinquemila morti solo in Italia per coronavirus – per “riprenderci e riappropriarci di quella vita” che sembrava avessimo perso per sempre, illudendoci che solo così ritroveremo la nostra felicità! La nostra felicità non è quel correre indefinito, senza sosta e senza un senso, nel tentativo di afferrare la felicità ma ahinoi, senza mai riuscirci, anzi ritrovandoci sempre più inquieti e insoddisfatti, vuoti e più che mai “bisognosi di Altro”. E’ Gesù che stamattina si presenta appunto come quell’Altrodi cui abbiamo bisogno. Nello stesso capitolo ai versetti 16-24 Gesù aveva rimproverato e quasi schernito quella massa che pur avendo visto “i segni” che Lui compiva, continuavano ostinatamente a non volergli credere. Come non vedere in tutto questo la nostra società, quella società affamata di vita, inquieta e senza pace, alla quale Gesù stesso dice: ”Venite a me voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). E’ solo “riposando in Lui” che potremo ritrovare senso e nuova vitalità in tutto ciò che facciamo. Solo così potremo accorgerci che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4) per poter così entrare finalmente nella vera Vita che è totale comunione con il divino Maestro, con il Padre, nello Spirito Santo. AMEN!
PUBBLICAZIONE DELLO STORICO FOCA ACCETTA
Articolo di Vincenzo A. Ruperto
Foca Accetta ci offre una sua graditissima nuova pubblicazione dal titolo 'FILADELFIA Città della ''Fraterna Dilezione'', edizione Libritalia Edizioni.
La sua indiscussa dote di ricercatore ha consentito di conoscere realtà storiche dei nostri borghi, ignorate o volutamente manipolate da personaggi per magnificare, con i luoghi, le loro famiglie, nascondendo o distruggendo documenti interessanti. Foca Accetta, attento e infaticabile ricercatore, ne ha rinvenuti non pochi, in archivi pubblici e privati, rendendo così giustizia alla verità storica.
Ma chi è Foca Accetta? E' socio della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, è autore di diverse pubblicazioni concernenti la nostra regione in età moderna e contemporanea. Tra i suoi ultimi lavori si ricordano:
-Simboli d'identità: il palazzo e la pinacoteca di Francia in Monteleone (sec.800-'900); Francesco Pasquale Cordopatri, patriota filantropo e collezionista d'antichità; Vito Capialbi e le sue collezioni.Festeggiamenti di San Foca Martire patrono di Francavilla Angitola.;Il serpente e il Drago.;Logiche di lignaggio, i Marzano di Monteleone.; Il Castrum e l'Aquila, identità e memorie storiche di Castelmonardo.;Il confessore di un re, canonico don Pasquale Tommaso Antonio Masdea.; Memorie del Drago.
Queste le ultime sue pubblicazioni, non dimenticando le numerose altre precedenti, notevolissime quelle sugli Ordini religiosi di Calabria, dagli agostiniani ai francescani riformati e domenicani.
La nuova pubblicazione 'FILADELFIA', corredata da pregevoli foto antiche, tratta con acclusa documentazione:
1) Organizzazione ecclesiastica in Castelmonardo e Filadelfia. 2) Filadelfia 1860- Sentimenti nazionali e vendette private. 3)Passaggio di Montesoro dal comune di Francavilla a quello di Filadelfia-1860-.4) Alternanza amministrativa lotte politiche tra '800 e '900.
Piacevole e amena lettura estiva per avvenimenti storici documentati dei nostri gloriosi borghi. Come amico, assieme agli altri amici, non rimane che ringraziarlo per questa pregevole pubblicazione.
GIUGNO 28-2020 XIII DOMENICA T.O.
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Siamo ancora nel 10 cap. del Vangelo di san Matteo. Gesù dopo aver chiamato i Dodici, uno per uno – e con loro chiama anche noi… - dopo aver dato loro quella sorta di compendio per il discepolato, in questa domenica ci dà le modalità per seguire il Signore. Cuori grandi e massimamente liberi, ci chiede il Maestro. Non si capisce quali di queste cose che Gesù ci chiede riesca ad “irritarci” di più. Saremmo tentati di… “rispondere picche” al Maestro. Non è facile chiedere a qualcuno questo distacco totale anche dai legami familiari ai quali più di ogni altra cosa noi diamo valore e importanza. Del resto nei versetti precedenti dal 37 al 39 sempre del cap. 10, Gesù aveva detto di essere venuto per “portare la spada e la divisione” proprio tra quelli di casa a causa di lui. ”Essere “attaccati” alle persone ma anche alle cose, non ci permette di seguire Gesù, diremmo che è quasi un impedimento, un ostacolo. “Non possiamo servire a due padroni….”. Addirittura l’amore eccessivo - e perciò stesso disordinato - per il padre, la madre e tutti gli altri affetti pur legittimi, non possono essere messi avanti a Gesù. Essi necessariamente devono venire dopo di Lui. Perfino l’attaccamento alla propria vita non ci rende degni del Maestro che deve venire ancor prima delle nostre presunte “sicurezze” essendo Lui la nostra sola sicurezza. Sappiamo bene quanti attaccamenti spesso inutili e che ci distraggono dal vero bene ci affliggono e spesso ci fanno soffrire. Quando non riusciamo a raggiungere un obiettivo che ci eravamo prefissati, quando non riusciamo a possedere quello che sogniamo e che desideriamo, diventiamo nervosi, inquieti, insoddisfatti e perciò stesso INFELICI! E questa ricerca spesso frenetica assorbe le nostre migliori energie che Gesù invece vuole che le impieghiamo per la missione alla quale lui ci associa e per la quale ci invia come Apostoli e discepoli. Uno sguardo semplice e limpido, come infondo Gesù ci chiede di avere ci eviterebbe tensioni e insoddisfazioni. Forse capiremmo l’essenziale che è solo Lui, il Maestro! E Gesù ci associa totalmente alla sua missione verso il mondo, fino a identificarsi con noi e a identificarci a Lui. “Chi accoglie voi accoglie me….”. Se Dio si prende cura del passero, dicevamo domenica scorsa, quanto più si prenderà cura degli amici di suo Figlio, anzi perfino “i capelli del nostro capo sono tutti contati…”! L’amore “eccessivo” e quindi “disordinato” in rapporto all’amore per il Signore dicevamo, è un impedimento perché ci fa cadere nella “paura di perdere e di rischiare ciò che abbiamo o pensiamo di avere”. Il rimedio di tutto quanto abbiamo detto è questa “accettazione della propria croce” (seconda lettura) a cui Gesù ci invita e che cambia ogni logica efficientista e utilitarista del mondo. E’ solo accettando ciascuno la sua croce che passiamo dalla morte alla vita nuova o vita da risorti come Gesù, il quale ci ricordava invece che noi siamo nelle sue mani, quindi al sicuro. Lui è la nostra garanzia e nulla fuori di Lui e dell’Amore del Padre è sicuro e garantito. Anzi addirittura se si dovesse prospettare il pericolo di mettere a repentaglio la nostra vita per Lui, dobbiamo stare tranquilli perché Lui si prende cura di noi e della nostra stessa vita più di quanto potremmo farlo noi stessi. Spesso Gesù ci invita e ci chiama alla “povertà” che non è una situazione di ristrettezza e di bisogno come noi pensiamo immediatamente, bensì quella “libertà di cuore” che ci rende liberi davanti ad ogni realtà e situazione e ci immette nella dinamica della fiducia e della fede in Dio. Non è cattiva cosa il matrimonio, ma per i discepoli del Signore può diventare un ostacolo. Gesù è il nostro Sposo! Non è cattiva cosa la ricchezza, se usata bene, ma per i suoi discepoli essa può essere un impedimento. Gesù è la nostra sola ricchezza! Non sono cattiva cosa gli affetti più sacri e giusti che noi possiamo avere, ma per i suoi discepoli possono diventare una catena al piede che ci priva della dovuta “libertà di cuore” che ci rende capaci di ”dare la vita” per il Regno e per il vangelo. Gesù e il Padre sono la nostra vera Famiglia! Senza questa libertà è molto chiaro, non è possibile seguire il Signore. Alla fine del cap. 9 di san Luca troviamo la chiamata di Gesù ad alcuni discepoli che antepongono cose legittime ai nostri occhi, come “andare a commiatarsi da quelli di casa” o addirittura andare a “seppellire il proprio padre” prima di seguire Gesù. Il Maestro ribadisce che anche queste cose vengono dopo, è più urgente seguire Lui e il suo Regno. Nulla può essere anteposto al Regno di Dio, nemmeno gli affetti più cari! Chi mette mano all’aratro e si volta indietro…, non è adatto per il Regno di Dio. C’è poi una identificazione tra Gesù e coloro che sono mandati e inviati da Lui. Chi accoglie uno dei suoi perché è suo discepolo accoglie Gesù stesso e Gesù promette che “non perderà la sua ricompensa” neppure per un solo bicchiere di acqua fresca. E’ così che succede alla donna di Sunem che accoglie Eliseo e il suo aiutante perché riconosce in lui un uomo di Dio e viene premiata dal profeta con il dono di una maternità fino a quel momento impossibile. E’ significativo quell’aggettivo “fresca”, cioè l’acqua migliore. Le cose migliori, non gli scarti, vanno date con generosità e senza borbottare a chi pensiamo di accogliere e di beneficare perché le avremo date a Gesù specie se si tratta di un “suo piccolo discepolo”. Neanche questo solo bicchiere di acqua fresca sarà dimenticato o passerà inosservato agli occhi di Dio, la qual cosa avrà la sua ricompensa nel suo Regno! AMEN!
'Il mio o il nostro paesello'
Di Vincenzo A. Ruperto
Il paese deserto, abbandonato, senza alcuna prospettiva di sviluppo sociale ed economico' ecc…ecc., sono frasi che esprimono dei giudizi derivanti dalla non esauriente conoscenza della realtà presente. Giudizi derivanti dalla conoscenza dell'antico e glorioso abitato, con i suoi rioni storici (Pendìno, Magliacane, Brossi, Fontanella, Piazza Solari, Corsi Mannacio e Garibaldi con le rughe, Tafuri, Piazza Santa Maria degli Angeli, Corso Servelli, Sorello, il Drago ecc. e le tre chiese). Non è così! Francavilla è diventata una cittadina reticolata, con diffuse ville e villette costruite in tutti i suoi 27 chilometri quadrati di territorio, dalle zone appenniniche, collinari a quelle pianeggianti. Si riscontrano anche attività produttive varie. Il territorio francavillese è tra i più olivetati di Calabria, fu ambito nell'antichità da ordini religiosi come i Basiliani, Benedettini, Cistercensi, tanto da diventare feudo dell'Abazia del Corazzo di Gioacchino da Fiore. Fu territorio tanto ambito da essere considerato come ducato, ordine nobiliare antico tra i più prestigiosi. Avevo promesso all'amico Pino Pungitore articoli in merito, alcuni già pubblicati, altri seguiranno, nella speranza che si faccia veramente conoscere la Francavilla attuale - Vedremo come, approfittando del 15cesimo anno di creazione del sito www.francavillaangitola.com . Da dove iniziare? Vediamo dalle foto.
21 GIUGNO 2020 XII DOMENICA DEL T.O.
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Siamo nel cap. 10 del vangelo di san Matteo, in cui Gesù dopo aver chiamati i Dodici, dà loro istruzioni sul come devono comportarsi e contenersi. Gesù mostra loro l’arditezza e la preponderanza della missione per la quale li chiama e li invia, esortandoli a non contare affatto sulle loro forze né a lasciarsi prendere e sopraffare dalla paura e dal timore. Devono sapere e deve essere molto chiaro che li manda “come pecore in mezzo ai lupi” e come le pecore di fronte al pericolo rischiano anche la vita ma è quella fiducia e totale abbandono in lui che li farà comunque trionfare! E’ così predice loro che “saranno consegnati” a governatori e tribunali ma lo Spirito li assisterà, per cui non dovranno preoccuparsi di cosa dire o cosa fare. Nel momento opportuno verrà loro suggerito cosa dire. Preannuncia che saranno odiati da tutti, perseguitati e ridotti in schiavitù a causa del suo nome, ma nonostante tutto non mancherà loro forza e sostegno da parte sua. Sta tutto qui il segreto della riuscita della missione e questo vale per i Dodici ma vale soprattutto per la Chiesa di tutti i tempi passati, presenti e futuri. L’arditezza della missione non ci dà modo di illuderci che ce la faremo da soli, è troppo grande e soverchia di forze, ma la nostra forza starà nella fiducia che noi avremo nel Maestro. Così è stato per lui così sarà anche per noi suoi discepoli. Quello che Gesù ci garantisce è la riuscita di questa missione perché nulla potrà mai fermare l’opera di Dio. Nel brano di questa domenica del T.O. Gesù invita e ci invita a non temere queste forze avverse. Il mondo sarà sempre contro Dio, il male cercherà sempre di opporsi a lui perché vuole realizzarsi secondo i suoi principi, la forza, la prepotenza e la violenza. Così come i pericoli ci potrebbero far cadere nel dubbio e nella sfiducia, ma qui si manifesterà la natura della nostra fede ma anche della nostra fedeltà: fede in Dio o in noi stessi? Il Regno di Dio viene e si va facendo nell’umiltà, nella debolezza, senza opporsi al male e alla prepotenza, anzi consegnandosi di fronte ad esso ma con il cuore ben piantato nella sola fiducia in Dio. Del resto gli agnelli cosa possono di fronte ai lupi se non essere sbranati e fatti a pezzi? Così è stato anche per Gesù che pur se apparentemente il male lo ha dilaniato, non ha potuto tenerlo prigioniero ma la forza di Dio lo ha liberato e sciolto dai legacci della morte stessa! Questo stesso sarà il destino dei suoi inviati, ma la vittoria finale sarà sicura per merito suo e non certo per la nostra bravura ed attitudine. Questo non è un dettaglio di secondaria importanza ma sta tutto qui il mistero della capitolazione finale del male stesso. Il Bene trionferà. Diremmo che il vangelo di oggi ci invita e ci sprona a non guardare l’immediatezza della riuscita del Regno ma semmai a guardare alla riuscita e al trionfo finale del Regno di Dio su tutto e su tutti. Evitare i pericoli è giusto, ma non deve diventare il principio della nostra vita che ci distoglierebbe da ogni occupazione e agire. Dio si prende cura di noi! E’ questo il tema centrale di questa XII Domenica del T.O. . La morte è una cosa naturale, se è giusto non cercarla, è demoniaco rifiutarla. Essa è un evento naturale, anche se il peccato ce la fa vivere male e ci fa provare angoscia al solo pensiero. Essa non è la fine di tutto, ma l’inizio dell’Altro (cioè di Dio…) e della comunione con lui. La “sapienza” della carne ci chiude nella paura della morte, la Sapienza dello Spirito ci apre alla fiducia e alla vita. E’ per questo che Gesù ci invia “come pecore in mezzo ai lupi” forti di questa fiducia nell’amore del Padre che provvede e non ci lascia mai soli dimenticandosi di noi, così come non si dimentica delle creature “minime”. E’ancora una volta un forte richiamo alla fede e alla fiducia nella Croce, nella quale viene rivelata la Sapienza di Dio, mentre viene svelata la stoltezza del mondo. Se dovessimo guardare oggi i frutti del Regno, certamente ci sarebbe da scoraggiarsi: perdita della fede e mondo scristianizzato, diminuzione in caduta libera delle vocazioni, defezioni e presenza del peccato nella Chiesa stessa. Anche il sacrificio di Gesù nell’immediatezza sembrò una clamorosa “sconfitta”, tutti lo abbandonarono e fuggirono via. Ma Colui che ha già vinto sulla morte, solo alla fine ci mostrerà il suo trionfo totale e definitivo. Qui sta la nostra speranza. E Dio non si smentisce mai! Basta considerare come davanti a Dio – ci dice Gesù – neanche un passero “cadrà senza che Dio lo voglia”. Se dunque anche il passero conta ai suoi occhi, quanto più si prenderà cura di ciascuno di noi. Anzi, addirittura ogni capello del nostro capo è contato. Nella prima lettura il Profeta Geremia si sente anche lui osteggiato e perseguitato da un mondo che rifiuta Dio ed il suo operare, aspettando solo di vedere battuto e perduto per sempre il suo Profeta. Ma è anche consapevole che il Signore lo sostiene in quest’opera che non è umana ma che viene direttamente da lui e che quindi solo su di lui può totalmente appoggiarsi e sperare. Anche noi molto spesso facciamo l’esperienza di questo indurimento da parte del nostro mondo. E se così non fosse sarebbe troppo semplice, facile e tutta in piano la nostra missione ed il nostro essere cristiani. Ma come fu per il Maestro sarà anche per noi suoi discepoli. Tuttavia certa e sicuramente vincente sarà la Storia della Salvezza, non certamente per merito nostro, ma con la forza e la sapienza di Dio. Chiamati a collaborare alla sua realizzazione dobbiamo sapere che la sua realizzazione quanto ai tempi e alle modalità è opera della Sapienza di Dio.
IN NOSTRI 15 ANNI MERAVIGLIOSI PER NOI E SOPRATTUTTO PER VOI : AUGURI
Il 19 Giugno 2005 nasceva il sito www.francavillaangitola.com . Da quindici anni il nostro sito, malgrado sia privo di risorse economiche e quantunque disponga dimezzi tecnologici modesti e limitati, si è prima sommessamente proposto, e poi progressivamente imposto come il sito informatico più visitato tra quelli che diffondono immagini ed informazioni riguardanti il nostro paese. Ringraziamo tutti per l’affetto che ci avete dimostrato in questi 15 anni di lavoro, e in modo particolare quanti hanno collaborato in vario modo con noi, inviandoci loro articoli e fotografie
Il castello del Duca dell'Infantado in contrada Eccellente.
di Lorenzo Malta
Agli inizi del 1900 Feliciano Serrao eredita dal padre Bernardino gli ex beni feudali appartenuti al duca dell'Infantado posti in contrada Eccellente nelle pertinenze territoriali del comune di Francavilla Angitola ex feudo di Mileto. Dei tre figli è Ignazio a ricevere i beni paterni in questione . Sulla superficie del fondo Eccellente è ubicato il bastione del duca dell'infantado, maestoso ed imponente , usato per la caccia ai cinghiali allora presenti . La struttura nei tempi antichi era attraversata da un"antica strada rurale che al tempo della dominazione francese fu notevolmente migliorata. Gia all'epoca di Feliciano erano stati condotti i lavori da parte della ditta John R.Dos Passos per la posa sul suo terreno del binario unico della tratta ferroviaria Battipaglia- Reggio. 'Nel 1953 Ignazio Serrao vende a due giovani imprenditori siciliani D. Faranda e N. Gitto la vasta tenuta che dalla strada litoranea giungeva fino alla strada dei Francesi. All'atto della vendita il castello risulta diviso in due quote diseguali, il Faranda ne acquista 3/4 e precisamente la porzione posta sul lato d'accesso destro e l'intera parte posteriore, il Gitto si aggiudica la parte anteriore sinistra .Purtroppo al bastione è riservato un amaro destino., Il tempo e gli eventi atmosferici presto rendono pericolante la sezione acquisita dal Faranda, dopo pochi anni egli vede crollare il soffitto rendendo parzialmente inabitabile la sua porzione. Il lato del Gitto rimane agibile e su richiesta del comune di Francavilla viene trasformato in scuola elementare per i ragazzi delle contrade Trivio - Calcarella - Barritta e Eccellente . Gli anni del boom economico sono alle porte essi impongono al Paese un processo di radicali trasformazioni. In particolare serve intervenire in modo deciso sul trasporto delle merci e sulla viabilità. Va subito potenziata la rete ferroviaria che da Salermo arriva fino allo stretto di Reggio Calabria e da qui in Sicilia insieme a questa anche quella autostradale . La linea tracciata dagli ingegneri sulle carta topografica di quella contrada prevedono che il secondo binario debba passare proprio sopra quel vecchio complesso . Così viene stabilito e a nulla valgono i numerosi interventi di personalità di spicco della politica e della cultura ( il professore Cesare Mule' la dottoressa Zinzi, Cesare Cesareo e lo stesso Natale Gitto)per risparmiare l'antico castello. Sopra la sua superficie dovranno passare i treni ed accanto le auto. I lavori iniziano il bastione si dimostra ben saldo , ragion per cui è richiesto l'uso di robusti cavi di acciaio per demolirlo, alla fine è cancellato. Alcuni grossi blocchi in pietra vengono collocati alla stazione di Eccellente altri spartiti vengono portati via.La scuola viene spostata in contrada Trivio e i possessori del complesso debbono provvedere alla sistemazione delle famiglie dei loro coloni che pure occupavano il bastione.
FINE 1ª Parte. Nella foto il dott. Nicolò Gitto, gentilmente coinvolto da me in questa ricerca mi indica l'esatta ubicazione del castello del duca dell'Infantado , ricostruito nel disegno.
14 GIUGNO 2020 DOMENICA DEL “CORPUS DOMINI”: SECONDO SCHEMA
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Sarebbe interessante poter fare un exursus storico sulla storia della Chiesa, per vedere come nel tempo divisioni, scismi, abbandoni dell’ortodossia e creazione di nuovi modi spesso arbitrari di intendere il Vangelo, ci hanno portato ad allontanarci dalla Verità che è Gesù Cristo! Così si arriva ad una concezione vaga del sacerdozio riducendolo solo a quello comune e di conseguenza dei sacramenti, in particolare l’Eucaristia che noi oggi celebriamo nella solennità del SS. Corpo e Sangue del Signore. Non può esserci Eucaristia senza sacerdozio entrambi istituiti dal Signore Gesù Cristo nell’Ultima Cena e presenti nella Chiesa fin dai primissimi giorni. La comunione e l’Unità nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo alla quale l’Eucaristia è finalizzata è ciò verso cui TUTTI dobbiamo tendere e siamo chiamati. Nella seconda lettura di stamattina san Paolo ci dice che: “Poiché vi è un solo pane (alias l’Eucaristia…), noi siamo, benché molti, un solo corpo (la Chiesa appunto): tutti infatti partecipiamo all’unico pane”. E’ per questa Unità che Cristo si immola sulla Croce e alla quale ci chiama nella celebrazione dell’Eucaristia e che conferma quanto dicevamo. Senza Unità l’Eucaristia non ha più senso, sarebbe una profonda e terribile contraddizione. Nella lunga “preghiera sacerdotale” che Gesù prossimo alla morte, eleva al Padre per noi è a questa UNITA’ che ci vuole consacrare (Gv 17,22-23) e che lui pone come sigillo insieme al comandamento dell’amore e del servizio, appunto nell’Eucaristia. Certamente come ci dice la prima lettura tratta dall’Esodo, il Pane dal Cielo è un cibo che noi non conosciamo perché misterioso ed inaspettato, ma che Dio, in Gesù Cristo ci dona appunto nel sacramento dell’Unità che è l’Eucaristia. Nel Vangelo odierno di san Giovanni, siamo nel lungo discorso sul Pane di Vita che impegna tutto il capitolo 6 e che parte dalla moltiplicazione dei cinque pani d’orzo e i due pesci che Gesù moltiplica e fa bastare oltre ogni aspettativa per ben cinquemila uomini, tanto che ne avanza dodici canestri pieni. In questo capitolo Gesù si presenta come vero Pane di Vita, intanto perché è lui ad operare quel prodigio che però rimanda ed è rivelativo della sua persona, come del resto vogliono fare tutti i SEGNI nel vangelo giovanneo. Gesù è il vero Pane di cui tutti gli uomini abbiamo veramente bisogno. Nelle tentazioni nel deserto Gesù al demonio che lo tenta di soddisfare la sua fame “trasformando le pietre in pane” Gesù risponde che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,3-4). Lui è la Parola del Padre che per noi è vero cibo capace di toglierci ogni fame che avvertiamo nella nostra vita. “La Parola si è fatta carne perché ogni carne ritrovi la Parola”! Quanti bisogni, veri o indotti e presunti oggi più che un tempo avvertiamo in noi, bisogni che ci tolgono la pace e la serenità del vivere, senza considerare che è altro ciò di cui l’uomo ha veramente bisogno! Questa nostra società che ormai decide ciò di cui abbiamo bisogno e ciò per cui battersi e lottare, impegnarsi e rincorrere, anche a dispetto di chi ci si pone dinanzi come ostacolo e che quindi va eliminato. E’ la “società” dei poteri forti : multinazionali, industrie, politici, banche, economisti e quanti riescono ad influire e a condizionare e determinare facilmente il nostro vivere quotidiano. Ne deriva che ci inducono a vivere secondo schemi determinati da loro ma non secondo ciò che è più giusto, vero e meglio per noi, ma a seconda della loro insaziabile SETE DI GUADAGNO E DI ARRICCHIMENTO. Mi chiedo dove sia più Dio in tutto questo? Lo abbiamo espulso, estromesso dal suo Popolo, dalla nostra vita, per ridurci a “popolo che vaga nelle tenebre”, senza più punti di riferimento certi, privo di sapienza e di intelligenza, preda e in balia di questi poteri forti che riescono ad avere la meglio su tutto e su tutti e a farci inseguire e ricercare ciò che non è necessario, facendocelo apparire bello e desiderabile, essenziale e da afferrare ad ogni costo, per farci sentire “come Dio”, come successe con il famoso albero dell’Eden! E ci accorgiamo solo dopo che abbiamo “afferrato” e mangiato…, di essere “nudi, divisi in noi stessi e più soli di prima…, paurosi perfino di Dio che invece ci ama e si fa prossimo”, sempre alla ricerca di nuovi soddisfacimenti e sempre più inquieti. Come rispecchia bene questa realtà che abbiamo appena mostrato, il dopo coronavirus; questa società ansiosa di riprendere la stessa vita di prima, le solite cose che facevamo, i soliti “sballi”, le solite vacanze abbandonati…”mollemente” al sole, la “movida”, questa nuova parola che fa tendenza come tante altre oggi e che indica un movimento frenetico e senza sosta, confusione che ci fa cadere in una sorta di torpore senza più forza di volontà né lucidità, non più padroni di noi stessi e persi, anonimi nella folla o “popolo della notte”! Le tenebre del mondo, il buio della morte, del male e del peccato, sono questi! Ma come dicevamo domenica scorsa, Dio fa sentire dentro di noi la sete, il desiderio, il bisogno mai sopito che abbiamo di Lui soltanto, instillando e provocando in noi stessi quella “inquietudine del cuore” che solo in Dio può essere saziata e acquietata trovando pieno appagamento! Quante persone dopo una vita trascorsa e sciupata nel divertimento e nella ricerca del puro piacere, incontrano Dio e cambiano radicalmente modo di vivere ma soprattutto lo scopo ed il vero senso per cui vivere. Alla fine del lungo discorso sul Pane di Vita, la folla comincia a girare le spalle a Gesù, nonostante abbia mangiato quei pani del miracolo, per andarsene, per ritornare ad immergersi nel vuoto di una vita e di una esistenza “sballata”, affermando l’incapacità a comprendere quel discorso così alto e spirituale che può comprendere solo chi attraverso la fede entra in sintonia con il divino Maestro. Siamo chiamati a credere non a “capire”! Proprio loro che hanno visto dei “segni” si rifiutano di credere alla sua Parola. E’ il fallimento umano di Gesù che invece conosce e soddisfa appieno i bisogni del cuore dell’uomo. Come non vedere in queste persone i nostri fratelli separati che hanno una concezione del Pane Vivo quasi come un semplice simbolismo e non “una realtà viva e vera”. Gesù parla in termini molto concreti e reali: parla di mangiare - masticare, di bere – trangugiare e che entrambe, mangiare – bere equivalgono a CREDERE. Non c’è spazio per i fraintendimenti. E lo capiscono benissimo coloro che non volendo arrendersi alla fede, gli girano le spalle e se ne vanno lasciandolo solo perché la ritengono una cosa pazzesca, impossibile secondo loro. Non può realizzare e dare la Vita ciò che non è Vita. Se il Pane e il Vino di cui parla Gesù, non sono VERA CARNE e VERO SANGUE di Lui, non possono dare la Vita eterna nutrendosene! E’ un discorso apparentemente duro quello che solo la fede può rendercelo credibile. Ma lui non si spaventa e non cerca di fermare quella folla di “dissidenti”, anzi ne prova compassione. Ma ora rivolge ai Dodici, a noi che ascoltiamo, la famosa domanda “Volete andarvene anche voi…?”. Gesù non cerca di trattenerci obbligandoci magari con la forza. Ci lascia massimamente liberi di credere cioè di “fidarci di lui”, aspettando che la sua Parola si apra una strada nel profondo del nostro cuore, magari sostenuti e aiutati dalla sua Grazia, attraverso quel piccolo spiraglio nel nostro cuore che la nostra profonda e totale insoddisfazione di noi stessi, ha lasciato. Bella e deliziosa è la risposta di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di Vita eterna…e noi abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Gesù ci propone quale rimedio al non senso del nostro vivere, la gioia e la felicità che ci dà la piena comunione con lui, attraverso l’Eucaristia, segno della piena comunione e della Vita che è in Dio e solo in Lui: “In verità in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la Vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la Vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda”. Il mangiare-masticare la carne e il bere il sangue di Gesù ci immette stabilmente in quello stesso rapporto di Amore che c’è tra Padre e Figlio e ci fa partecipare della stessa Vita, anticipandoci quella che sarà nel suo Regno. La metafora del pane diventa la carne ed il sangue che Gesù dà per la Vita del mondo. Ma la “carne” di Gesù non è una metafora, bensì la realtà stessa del suo farsi Agnello immolato sulla Croce per tutta l’umanità. Mangiando, o meglio “masticando” Lui, entriamo in comunione d’Amore con il Padre che lo ha mandato. Questi ci immette nella Vita eterna: Gesù non ci dice che non moriremo mai ma che a causa di questo “suo donarsi per noi in cibo”, passiamo dalla morte alla Vita cioè alla resurrezione come fu per Lui. Mangiando Lui veniamo assimilati a Lui, entrando insieme a Lui eternamente nella Vita del Padre stesso. Come dicevamo la scorsa domenica: Dio è Amore perché ci ha dato tutto di sé fino a farsi nostro cibo. Il darsi di Gesù nella sua carne e nel suo sangue è un forte richiamo alla sua passione sulla Croce. E’ lì, nella “sua ora” che ci da tutto questo, nel momento di massima rivelazione dell’Amore di Dio! Chi non mangia-crede e non beve di Lui, resta nella morte. E’ questo che ci fa pienamente felici e ci impedisce di cadere nel vuoto dell’essere, nel non senso dell’esistenza e della vita, in quella depressione che definisce il “male del vivere” e che nonostante le tante “movide” nelle quali possiamo immergerci, ci sentiamo soli e sperduti in questo mondo che sembra impazzito e privo di ogni controllo. AMEN!
7 GIUGNO 2020- DOMENICA DELLA SS. TRINITA’
Da sempre l’uomo, credente o no, per un motivo o per un altro, ha voluto e desiderato conoscere Dio in maniera diretta, quasi a garanzia e tutela delle tante incertezze, paure e lati oscuri della sua esistenza che lo portano a tutte quelle domande di senso che la sua stessa vita impone senza poterle evitare, pena quella infelicità esistenziale che acuisce le sue paure di riscoprirsi creatura fragile e limitata, destinata a scomparire nella morte. Nelle letture di questa solennità troviamo delle indicazioni quanto mai preziose che illuminano quanto dicevamo, anzi ci riempiono di gioia e infondono speranza. Intanto la prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, la liturgia ci presenta un Dio che si autoproclama “un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6) a queste affermazioni Mosè risponde prostrandosi dinanzi a lui e chiedendo grazia, favore e benevolenza per quel popolo dalla “dura cervice” affinché gli perdoni i peccati commessi contro di lui, per farne “la sua eredità”, cioè il popolo di sua proprietà. Nella seconda lettura, dalla seconda lettera di san Paolo ai Corinzi, dopo un invito alla “gioia” troviamo una formula liturgica chiaramente trinitaria: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” con cui Paolo chiude la sua stessa lettera. E’ una formula con cui la Chiesa saluta spesso i fedeli, nella stessa speranza e con gli stessi sentimenti con cui la pronunciava l’Apostolo Paolo, affinché uniti in comunione di carità, possano trovare il favore del Dio uno e trino che il Figlio stesso ci ha rivelato e fatto conoscere, quello stesso favore che nell’AT veniva espresso con la formula del “Dio con noi…, Dio con voi….” ecc . Il “Dio con noi” l’aspirazione, il desiderio, il sogno che tutti gli uomini hanno sempre avuto, anche se nel più profondo segreto del loro cuore. Direi e sono convinto che anche chi non crede, pur inconsapevolmente nel profondo del suo inconscio cerca questo! “Se Dio è con noi – dice san Paolo – chi sarà contro di noi”? Avere Dio dalla propria parte significa non essere né sentirsi più soli e smarriti come spesso ci sentiamo di fronte ai pericoli, ma avere la certezza che Qualcuno si prende cura di noi e non ci lascerà mai soli e sperduti in balia delle bufere e delle tempeste del vivere quotidiano. Anzi questo Qualcuno ci porta tra le sue braccia e ci fa superare ogni ostacolo seppur con fatica e trepidazione. Nel brano di Giovanni, in questo dialogo tra Nicodemo capo dei Giudei e Gesù, questi si manifesta come la certezza, la sicurezza dell’Amore che ha spinto il Padre a mandare nel mondo il suo unigenito Figlio, “perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Non era forse questo ciò che sin dalle origini del mondo gli uomini stavamo cercando? Poteva esserci una Notizia più bella di questa? Ora non abbiamo più bisogno di cercare un dio che si prenda cura di noi, è lui stesso che ci viene incontro e si manifesta attraverso il suo stesso unigenito Figlio Gesù Cristo, Dio d’Amore, Dio che addirittura arriva a sacrificarsi per noi, Dio che mette in gioco la sua vita per riscattarci dalla morte e dall’oblio della non vita. Questo Dio è Amore che si dona senza fine, attraverso quel Figlio che nulla e nessuno potrà mai toglierci, anzi ci invita ad entrare in Lui, nella sua stessa Vita attraverso la fede nel Figlio – e non c’è altra via – per riceverne tutti quei benefici e conseguenze positive che non possiamo neppure immaginare con la nostra mente. Benefici e conseguenze che non sono racchiudibili e comprensibili nei confini troppo ristretti della nostra vita terrena, ma che varcano e travalicano i confini stessi dell’Eternità, l’Eternità di Dio! Così il suo “spazio” diventa il nostro spazio, il suo Regno diventa la nostra Terra verso cui tutti tendiamo e siamo diretti. Dio si è manifestato a noi per donarci la sua stessa Vita di eternità. Anzi ci ha tanto amato da mandare nel mondo il suo Figlio a sacrificarsi per noi manifestandoci così TUTTO il suo Amore, un Dio Amore che ci chiama all’Amore. E’ questo il senso del “bacio santo” di Paolo. “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita – dice san Giovanni – perché amiamo i fratelli…. chi ama conosce Dio…. chi non ama resta nella morte”. Negli scritti di san Giovanni questo è un ritornello martellante, supplichevole e quasi benevolmente ossessivo: “Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi”. Il Dio di amore esige che ci amiamo tra di noi perché la Vita risiede nell’Amore ed è l’Amore che ci fa entrare in comunione con Dio dandocene quella conoscenza tutta interiore che è Amore purissimo e che diventa essa stessa “esperienza” di Dio. Amore e conoscenza in san Giovanni si equivalgono: non c’è amore senza conoscere e non si conosce se non si ama. Ed ecco perché il Dio dell’AT non aveva e non poteva avere immagini, perché l’amore non ha immagini se non i segni, i gesti attraverso i quali si dà e si fa conoscere e sperimentare: il farsi Crocifisso per amore degli uomini! Inutile lambiccarsi il cervello per tentare di capire come sia possibile un Dio Uno e Trino allo stesso tempo. Non ci capiremmo granché! Ma apprestiamoci invece a sperimentare un Dio, il Dio di Gesù Cristo che si manifesta nella famiglia Trinitaria: il Padre ama dall’eternità il suo Figlio in questo eterno scambio di Amore reciproco che è lo Spirito Santo! Il Figlio è Amore che è “generato” eternamente dal Padre, lo Spirito Santo è Amoreche “procede” dal Padre e dal Figlio fin dall’eternità! A questa esperienza di perfetta comunione, per amare ed essere riamati, oggi più che mai siamo chiamati in nome della SS. Trinità! L’Amore è forte come la morte dice il libro del “Cantico dei Cantici” (Ct 8,6). Dice ancora san Giovanni nella sua prima lettera: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Qui conosciamo Dio, qui si fa e sta tutta l’esperienza del Dio Uno e Trino. AMEN!
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
30-31 MAGGIO 2020 DOMENICA DI PENTECOSTE
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Con la solennità di Pentecoste, “cinquanta giorni dopo Pasqua”, si conclude il ciclo pasquale, la Pasqua raggiunge il suo culmine con l’invio nel mondo dello Spirito Santo, il nuovo modo attraverso il quale Cristo Risorto si manifesta presente, vivo ed operante in mezzo a noi. Quando parliamo di “Spirito” siamo in un campo totalmente diverso dal nostro, quello di esseri “terrestri e materiali” che hanno bisogno di riferimenti spazio-temporali per comprendersi e sperimentarsi, percepirsi mentre interagiscono con altri individui nostri fratelli, in poche parole per sentirsi “VIVI”! Noi uomini abbiamo bisogno di braccia e di gambe, di mezzi fatti da noi per muoverci e rapportarci agli altri, per comunicare, comprendere e farci capire, per conoscere. Quando parliamo di “SPIRITO” salta tutto questo. La stessa esperienza di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli, non è altro che un riferire, raccontare un’esperienza “spirituale” dello Spirito di Dio e che inevitabilmente il racconto stesso subisce una “diffrazione”, una sorta di “forzatura” dialettica ed esperienziale di un qualcosa che non ha nulla di tangibile e di materiale, di visibile o comunque percepibile con i sensi. E’ ovvio che non possiamo ridurre l’esperienza dello Spirito di Dio a fiammelle che si posano sulla testa, fulmini, tuoni e vento impetuoso, terremoto e cose del genere per parlare del dono dello Spirito. Proprio perché egli è SPIRITO, ha modi misteriosi totalmente diversi dai nostri per comunicare e per comunicarsi a noi, per operare e trasformare l’uomo rendendolo “creatura totalmente nuova” e realmente immagine e somiglianza del suo Creatore, immagine fedele di Gesù Cristo, Uomo nuovo, primizia della Nuova Umanità. I segni che ci riporta il libro degli Atti e i Vangeli, sono i segni attraverso i quali Dio ci fa capire che qualcosa di profondamente misterioso ma reale, sta accadendo, anzi “ci” sta accadendo pur non comprendendone la portata. Diversamente non potevamo capire e forse neanche accorgerci di quanto stava accadendo. Quelli che abbiamo riferito sono i segni più esteriori, ma poi ci sono i segni interiori, o se vogliamo più “spirituali” di quanto accade ed è accaduto nella realtà. Oltre a ciò che gli Apostoli hanno visto e sentito, il loro animo pauroso ed insicuro, dubbioso e pronto a ricredersi, diventa franco e senza timori, libero da umani condizionamenti, pronto ad affrontare ogni prova fino alla morte, una fede forte e incrollabile nel Maestro tornato dai morti, una convinzione lucida e serena, sicura in ciò che dicono e che fanno. E’ una cosa che non ha spiegazioni a livello razionale, anzi del tutto misteriosa e che ha dell’incredibile. Chi sono i veri Apostoli: quelli che camminavano con Gesù e che davano continuamente prova di non capirlo, di non fidarsi totalmente del Maestro e pronti ad abbandonarlo nei momenti cruciali e più compromettenti specie se si paventava il rischio della vita, o quelli che dopo la Pentecoste sembrano totalmente altri: coraggiosi, sprezzanti del pericolo, operatori di segni prodigiosi, capaci di discernere i cuori degli uomini per leggervi tutto quanto è contenuto in essi nel bene e nel male, pronti a raggiungere i confini del mondo per portare la Buona Novella loro che non si erano mai allontanati dal lago di Tiberiade, in grado di annunciare una Parola chiara e penetrante, dimostrando una Sapienza che non può essere loro, come mai avevano fatto prima? Quelli di prima sono gli stessi di dopo, solamente che c’è da credere che sia successo qualcosa di inaspettato e di insospettabile. Nessun trucco o mistificazione. Questa è stata solamente l’esperienza dell’effusione dello Spirito di Dio su quei poveri, pavidi ed ignoranti pescatori galilei. Anche il “fenomeno” della “glossolalia”, per il quale tutti gli stranieri capivano ciò che gli Apostoli andavano esponendo e annunciando con risoluta franchezza, ciascuno nella propria lingua nativa è umanamente inspiegabile. Siamo immersi nel Mistero della manifestazione di Dio. C’è abbastanza materiale per credere o per dubitare. Nulla ci costringe. Ma chi non crede nega l’evidenza frastornante di una realtà pur misteriosa ma reale, autentica, avvenuta ad un primo gruppo di Dodici pescatori ma che continua ancor oggi nella Chiesa magari con meno clamore e spettacolarità. Un altro cambiamento dobbiamo notare in quegli uomini: la gioia. Cuori tristi e sconfortati nonostante l’esperienza delle apparizioni del Signore Risorto delle quali anzi, qualcuno ancora dubitava e che stavano ancora chiusi a porte sprangate per paura dei Giudei che non li aveva ancora abbandonati. Difficile credere in un “Morto” che torna in vita e parla, si muove, torna a mangiare insieme a noi, entra a porte chiuse nel luogo dove si trovavano! Dopo l’effusione dello Spirito Santo escono tutti fuori e cominciano a denunciare coraggiosamente i Giudei di essere gli assassini del Figlio di Dio, invitandoli alla conversione e a farsi battezzare nel nome del Dio Uno e Trino come Gesù aveva invitato inviandoli nel “mondo”. Ma la cosa che più li caratterizza è quella gioia inspiegabile che non li abbandonerà mai più, neppure mentre stanno per morire, testimonianza suprema e credibile dell’esperienza che hanno avuto dell’oscuro Maestro di Nazaret, crocifisso, morto e risorto il terzo giorno. Come dimenticare il dolore, la delusione, l’animo avvilito e disfatto dei due discepoli di Emmaus, la sera stessa della Risurrezione del Maestro, nonostante camminino per strada insieme con Lui? Era davvero necessario che Gesù tornasse al Padre per dare il via a quella trasformazione o meglio “trasfigurazione” a cui solo il suo Spirito, lo Spirito Santo, lo Spirito della Resurrezione poteva dare corso, come avvenuto nei suoi Apostoli. Dicevamo due domeniche fa come il libro degli Atti degli Apostoli è un libro tutt’ora aperto, perché se negli scritti vediamo la Chiesa nascente corroborata, ispirata e guidata dallo Spirito Santo, bene, quel tempo è attuale e si chiuderà solo alla fine dei tempi, quando finirà il tempo e la storia terrena e si aprirà quella celeste ed eterna nel regno del Padre. In “questo tempo” lo Spirito continua ad operare, ad agire, a santificare, ad illuminare e dare sapienza e conoscenza delle cose di Dio. E’ Gesù che ci dice: “Ho ancora molte cose da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso, ma lo SPIRITO che io vi invierò dal Padre, Lui vi condurrà alla Verità tutta intera”. Comprendiamo come “l’esperienza dello Spirito” è l’esperienza più alta che possiamo fare. E’ l’esperienza a cui ogni cristiano che dicasi veramente tale, deve giungere. E tuttavia questa missione di vitale importanza che ha come fine la salvezza eterna di tutti gli uomini, cammina rispettando i tempi di crescita di ciascuno. La “Verità tutta intera” come promesso da Gesù, si fa gradualmente, man mano che lo Spirito Santo ci dà di capire e a seconda dello spazio che noi gli facciamo nel nostro cuore. Nel primo concilio di Gerusalemme, dove gli Apostoli compreso Paolo litigano per decidere se era il caso di fare circoncidere i cristiani che provenivano dal mondo ellenistico, rispetto a quelli del mondo giudaico. Si decide, non senza discussioni per il NO, cioè se crediamo che è Cristo che salva, non c’è bisogno di circoncidersi “la carne” per essere salvati. Quel rito apparteneva all’antica legge che in Gesù Cristo ora è superata dalla nuova. Nel tempo numerosi saranno i momenti in cui la Chiesa si riunirà in Concilio per pronunciarsi su verità più o meno decisivi ed essenziali per la vita spirituale dei cristiani, a seconda che lo Spirito suggerisce ad essa. In un mondo così frastornato e frastornante, dove il silenzio, l’ascolto profondo anche di se stessi, la meditazione ed il pensiero sono schiacciati dal rumore, dalla distrazione, dall’eccessivo dinamismo ed efficientismo ed in cui Dio sembra essere “morto”, assente ed escluso, torna urgente la necessità di ascoltare, meditare, pregare, relazionarsi nello Spirito a quel Dio che nulla ha risparmiato per sé ma tutto ci ha donato nel suo Unico Figlio per amore nostro. Diversamente dovremmo prendere atto non della “morte di Dio” ma dell’uomo che ha smarrito la sua peculiarità più essenziale: la sua profonda spiritualità che deriva dal suo essere figlio nel Figlio di Dio! Amen. Cristo è Risorto, Alleluja!
Nuove disposizioni, a partire dal 18 maggio. Per il bene di tutti, vi invitiamo a rispettare le seguenti regole.
17 MAGGIO 2020 - VI DOMENICA DI PASQUA OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Questo lungo discorso fatto a più riprese (la prima parte sembra concludersi alla fine del cap. 14 al v. 31 quando il Signore invita ad alzarsi e “andare via di là”…) che Gesù ci fa da alcune settimane e che chiamavamo “i discorsi di addio” nel Cenacolo, è di una profondità di sapienza e di rivelazione abissale. Gesù ci rivela quello che è Dio stesso: “Amore che si dona senza limiti e senza condizioni” e ci apre alla comprensione di quello che il Padre vuole da noi: lasciarci amare e credere in Lui e nel suo amore. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho mandati perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Se Dio è Amore quale miglior frutto se non l’Amore? La conoscenza del Dio Amore ci porta ad amare perché solo questo lui vuole ed esige da noi. E’ questo che ci insegna il gesto e il segno scandaloso della lavanda dei piedi e fino a che punto dobbiamo chinarci sugli altri come ha fatto lui. Solo così noi potremo celebrare in verità l’Eucarestia, il segno visibile, anche se nel sacramento, del suo permanere tra di noi, in noi e con noi. Ma Gesù stamattina vuole prepararci ad un altro evento. Lui sta per “tornare al Padre” e vuole che non ci sentiamo orfani perché ci manderà “un altro Consolatore, un altro Paràclito” che il mondo non può ricevere “perché non lo vede e non lo conosce”. Ma noi lo conosciamo perché rimane presso di noi e in noi. NOI che abbiamo ricevuto la rivelazione del Padre da parte di Gesù. NOI che crediamo nel suo Amore. NOI che stiamo uniti a Gesù come il tralcio alla Vite, perché “senza di lui non possiamo fare nulla” e lo sappiamo bene perché lo sperimentiamo ogni istante! NOI che come suoi amici viviamo il mistero della Croce, la sua Croce, come momento di rivelazione dell’Amore più grande e che a questo siamo chiamati, a confrontarci e a conformarci gradualmente. NOI amici di Gesù perché accogliamo i suoi comandamenti e ci sforziamo di osservarli aiutati dalla sua Grazia. NOI che siamo amati dal Padre perché amiamo il figlio suo Gesù Cristo. A NOI è promesso e donato in abbondanza lo Spirito Santo, Spirito del Risorto e dono della Resurrezione. Senza questo dono la Resurrezione sarebbe incompleta perché non formerebbe la Chiesa in questo tempo di attesa tra “il già e il non ancora”, iniziato ma non ancora compiuto, almeno in noi, viandanti e pellegrini nel tempo. Siamo nel cap. XIV ai versetti 14-21 del vangelo di san Giovanni. Mentre nei versetti precedenti dello stesso capitolo dall’ 1 al 14 i verbi insistenti sono credere-conoscere-vedere-sapere, in quelli di stamattina sono amare, ripetuto fino alla fine del capitolo ben dieci volte! Questi verbi definiscono la relazione tra il discepolo, Gesù e il Padre. Mentre “credere” è azione di occhi e di intelligenza, amare è questione di cuore e di volontà che cioè desidera ciò che “vede e conosce”. In questo vangelo di Giovanni, credere-conoscere-vedere-amare indicano la stessa cosa. Amare diventa la forma più alta del credere e del conoscere. “Chi ama conosceDio” dice san Giovanni nella sua prima lettera, perché “Dio è Amore”, chi non ama non conosce Dio e resta nella morte. La Vita di cui ci parla Gesù è “relazione amorosa” col Padre. E’ l’amore che ci mette in relazione profonda con Dio. La nostra “fede”, fatta di osservanze e di consuetudini, di esteriorità che nulla cambiano nel nostro modo di vivere, di conformismi e di assuefazione al mondo pagano e materialista del nostro post-modernismo, molto ha da imparare e da cambiare. Proprio ieri mattina durante la s. Messa, Papa Francesco metteva in guardia dalla mondanità anche la stessa Chiesa. Questo volersi conformare con il mondo esterno cercando di “truccare e abbellire artificiosamente” ogni cosa, quella ricerca sfrenata di successo e di protagonismo, di arrivismo e carrierismo. Solo l’Amore non si può “truccare”, far sembrare ciò che non è, fingere. L’Amore c’è o non c’è, non possiamo contraffarlo e camuffarlo. E’ per questo che Gesù ci porta con il suo esempio che noi dobbiamo imitare e farlo diventare il nostro stile di vita, ad altezze vertiginose, il “dare la vita per l’altro” che non vuol dire solamente che io “debba morire” per gli altri, ma mi pone in un’ottica di disponibilità, di accoglienza e di servizio totale verso i miei fratelli. E’ questo che rende la mia vita più bella e pienamente realizzata. In questa parte centrale del vangelo di san Giovanni che si snoda per ben 5 capitoli - dal 13 al 17 - l’evangelista ci sta facendo compiere un cammino di “conversione”, di cambiamento d’ottica, di rivoluzione del nostro modo di credere, di vivere e di amare, mentre ci va via, via, rivelando il vero Volto di Dio. Noi cosiddetti cristiani, ma che ancora dobbiamo “diventarlo”, nulla facciamo se non per un nostro tornaconto, spesso anche nella Chiesa, ma non per colpa della Chiesa. E’ colpa nostra se siamo egoisti, se poniamo il nostro IO al centro di tutto, se cerchiamo la nostra felicità a discapito di quella degli altri, se perdiamo la capacità di essere lievito e luce perché i modelli che il mondo ci offre ci suggestionano a tal punto da perdere il senso profondo delle cose ed il buon sapore della vita, la sapienza delvivere che consiste nel saper amare, nel servire i fratelli, nel condividere ogni cosa, nel volere il vero bene dell’altro, nel perdere la mia vita per l’altro. Pensavamo che il cristianesimo fosse andare a messa la Domenica, “Giorno del Signore” per eccellenza, qualche preghiera magari saltuaria e pure qualche elemosina…, magari a Natale, quando tutti devono essere e si sentono più “buoni”! Abbiamo faticato magari a colpi di gomitate, per farci strada nella vita e nella professione, schiacciando ed eliminando chi sembrava farci ombra e diventava un ostacolo in questo nostro avanzare nella società come un rullo compressore. Quella ragazza, Silvia Romano, liberata dalla prigionia dei sequestratori e che ha cambiato fede e anche l’abito che indossa dopo appena un mese dalla prigionia…, abbracciando quella musulmana, ma che secondo me non è molto credibile. E’ certo, se noi la fede la riduciamo a quello che abbiamo fin qui elencato…., non credo che restino motivi validi per continuare ad essere cristiani. Magari arrivando poi a gettare via la nostra vita facendoci saltare in aria per motivi ideologici, ma credo più politici…, uccidendo insieme a noi decine e decine di esseri umani innocenti! Meglio sarebbe fare professione di ateismo allora…! Perché la nostra vita non l’abbiamo donata prima per gli altri, seguendo ciò che Gesù, il Figlio di Dio, l’Unico che ha dato la sua Vita per salvarci dal male e dalla morte del peccato, ci ha insegnato? E chi perde la sua vita per me e per gli altri la trova ci dice il nostro Divino Maestro! Gesù in questo cammino di conversione e di cambiamento di mentalità ci sta chiedendo di “fidarci di Lui, di non avere paura, di avere fede in Lui, di stare uniti a Lui come il tralcio alla Vite…”. Sta qui il segreto della Vita. Se noi faremo ciò che Gesù ci chiede allora tutta la nostra esistenza starà al sicuro e nemmeno se i sequestratori ci togliessero la libertà e ci torturassero, abbandoneremmo la nostra fede perché lo Spirito della Resurrezione, datoci in abbondanza e riversato dentro di noi ci darà la forza e il coraggio per restare, nonostante tutto, fedeli a Lui. Allora saremo veramente risorti con il Risorto, allora saremo con Lui e in Lui veramente rinati a Vita nuova e già nell’orizzonte della Vita eterna che non avrà mai più fine. Nella Chiesa fin dagli albori è sempre stato così. E Gesù non si smentisce mai! Nella prima lettura tratta dal libro degli Atti, Filippo insieme agli altri discepoli annuncia Cristo Risorto, opera segni straordinari, la sua parola converte migliaia di ascoltatori, non perché sono…più “bravi” degli altri, ma semplicemente perché si fidano del Maestro, camminano con il Maestro e parlano con la forza dello Spirito Santo nel suo Nome. Gli Apostoli….! Gente paurosa e senza coraggio che si sono venduti il Maestro per 30 monete d’argento e lo hanno rinnegato per paura di essere scoperti amici del Nazareno, ormai votato e condannato alla morte di Croce e dalla quale loro fuggono abbandonandolo al suo destino. Come mai allora sono così cambiati? Non è umanamente razionale e comprensibile. Lo Spirito Santo, Spirito della Resurrezione li ha cambiati. E’ questo il modo attraverso cui Gesù rimane con noi e ci accompagna, ci guida e ci rafforza fino alla consumazione dei secoli, quando entreremo tutti nel suo Regno per contemplare e godere dell’Amore senza limiti e senza età: il Padre di Gesù e nostro Padre nel Figlio. Gesù non ci lascia orfani, cioè SOLI. AMEN. Il Signore è veramente Risorto, alleluja!
10 MAGGIO 2020– V DOMENICA DI PASQUA
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Siamo ancora una volta nel Cenacolo con Gesù. In queste ultime settimane diverse volte ci siamo trovati in questo luogo che è “il convenire della Chiesa” intorno al Maestro che sta lasciando le ultime istruzioni ai suoi amici più intimi, a noi. Certamente strani amici che non capiscono fino in fondo quei discorsi che Gesù va facendo. Ha lasciato un segno misterioso che noi chiamiamo “ultima cena” quasi fosse il pasto, l’ultimo del condannato a morte. E questo noi sappiamo per esperienza post pasquale che… non è l’ultimo bensì il “primo”, l’inizio. Gesù ci dice “fate questo ogni volta che ne mangiate”. E poi ci lascia quel segno non meno importante, sconvolgente e scandaloso del lavarci i piedi. Lui il Maestro e Signore si china, si abbassa davanti a noi poveri peccatori, traditori pronti a rinnegarlo quando il pericolo si affaccia sul nostro orizzonte vitale, che si umilia fino all’inverosimile. Lui, Gesù, il Signore dei signori! Stamattina ci fa dei discorsi strani dei quali non capiamo dove va a parare. Ci parla di una partenza ma anche di un ritorno, di una preparazione di posti che attendono ciascuno di noi e che noi dovremo un giorno occupare, ciascuno il suo. Cari fratelli, questi lunghi discorsi di addio non dobbiamo leggerli come solitamente facciamo tutti d’un fiato. Dobbiamo immaginare delle pause, dei lunghi silenzi durante i quali gli apostoli fanno quelle domande smarrite e cariche di attesa a Gesù. E’ come ascoltare la goccia d’acqua che cade in una caverna e che noi ci sforziamo di ascoltare nel silenzio più profondo. Anche noi chissà quante domande abbiamo da fare al Signore. E Gesù interrompe il suo discorso che parte dal suo Cuore divino e comprende e percepisce il loro e nostro smarrimento, le nostre paure. Specialmente in questo periodo così carico di incertezze, di aspettative, di entusiasmi che ci fanno dimenticare ogni prudenza, di paure e di smarrimenti di fronte al futuro che ci aspetta, spettri che presagiscono disoccupazione, povertà, progetti a rischio. Gesù ci dice: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” è l’invito rivolto a TUTTI noi. Aver fede in Dio. Che significa aver fede, abbandonarsi totalmente senza riserve, fidarsi ciecamente di lui. In quale Dio noi crediamo? In un Dio che ci elimina ogni problema e ci risolve i nostri guai che DEVE prendersi cura di noi, perché diversamente a che servirebbe un dio se non ci togliesse le castagne dal fuoco? Siamo tutti pronti per ripartire, ricominciare, aspettando, sperando di poterci fare finalmente, dopo un inverno così carico di paura e rinunce, di chiusure e di mancanze di effusioni affettuose ed espressive del nostro amore verso le persone per noi più significative, le tanto sospirate e attese vacanze. Dopo un inverno così carico di morte, di incertezze, di dubbi e timori, di distacchi e distanziamenti sociali. Finalmente l’estate, il sole, il mare, la “libertà”, i viaggi verso posti incantati da favola, la ripresa di quelle attività culturali di cui ci nutriamo avidamente per crescere, per spalancare i nostri confini intellettuali e umani pur leciti. Le stesse cose solite che facevamo già prima del “FERMO” a causa del coronavirus! Gesù nel chiuso del Cenacolo ci dice che lui va via… per “prepararci un posto” e che anzi, quando l’avrà preparato tornerà per prenderci con sé affinché possiamo stare sempre con lui. Noi sogniamo le vacanze, Gesù ci vuole offrire un posto. Qui si moltiplicano le domande di Tommaso detto “Didimo”, il “gemello”, gemello a noi ma anche gemello a Gesù. Tommaso è un ricercatore vuole capire e questo spiega anche il suo rifiuto a credere quando i discepoli gli raccontano dell’apparizione di Gesù nel Cenacolo, dopo la Risurrezione. Ma in questo brano sono presenti anche le preoccupazioni per le difficoltà e i pericoli interni ed esterni della comunità, della Chiesa. I pericoli interni: difficoltà a credere, defezioni e tradimenti, divisioni, liti, dubbi. I pericoli esterni: l’ostilità dell’ambiente, oggi come allora, la secolarizzazione, la scristianizzazione e la perdita della fede. Gesù continua insistentemente ad invitarci ad avere fede in Lui. Gesù indica se stesso come la Via che conduce alla conoscenza del Padre. Ma Dio, “Nessuno l’ha mai visto”, solo Colui che discende dal Padre lo ha visto e lo conosce e lo fa conoscere a chi crede in lui. Gesù è il rivelatore del Padre ma ciò che realmente è. Dio è Amore ci dice ancora s. Giovanni. E proprio nel momento che Gesù si appresta a vivere, la sua morte in Croce, ci rivela totalmente l’amore del Padre. Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo a morire per i peccatori. E’ la Croce la rivelazione più alta, totale e definitiva di Dio. E’ nella Croce che si manifesta il volto paterno di Dio. Tre personaggi: Giovanni, Giuda e Pietro. Tre personaggi che siamo ciascuno di noi che pensiamo di poter amare Dio con le nostre sole forze. Pietro quasi si scaglia quando Gesù rivela la sua imminente passione. Ancora non ha capito niente. Giovanni diversamente dagli altri tre evangelisti, non ci riporta nel racconto dell’ultima cena l’istituzione dell’Eucarestia, ma si sofferma invece e a lungo nel descriverci il gesto della lavanda dei piedi, o meglio il gesto dell’abbassamento di Dio fino all’uomo e per amore dell’uomo. Quel gesto che si concretizza e si compie sulla Croce. Un gesto che occorreva comprendere e che va al di là di un rito vuoto. “Amatevi come io vi ho amati” e “Chi ama conosce Dio” ci dice ancora s. Giovanni. E’ nell’amore che si compie la salvezza del mondo e solo nell’amore. I tre personaggi che abbiamo citati non sono amati diversamente a seconda del loro comportamento, ma tutti alla stessa maniera. E qui sta lo scandalo della Croce! Noi spesso pensiamo erroneamente che Dio ami i buoni e i giusti, mentre per i reprobi e i cattivi riservi una “giustizia” che rimetta a posto le cose. Giuda non è stato amato meno di Giovanni e di Pietro sol perché hanno avuto atteggiamenti e risposte diverse nei confronti di Gesù. Ma tutti alla stessa maniera. Questo significa il comando del Signore “come io vi ho amati”. Il “come” diventa il discriminante che indica fino a che punto noi cristiani, discepoli e seguaci di Cristo dobbiamo amarci e amare. Questo significa che Dio continua ad amarmi nonostante i miei innumerevoli peccati ed infedeltà. La nostra fede diventa un abbandono incondizionato tra le braccia del Padre che mi porta e mi sostiene nelle mie infedeltà, nei miei tradimenti, nei miei rinnegamenti. Non sono io ad amare Dio. Non potrei mai! Ma è Lui che ama me incondizionatamente. Certamente il peccato più grave che potrei commettere è pensare che Dio non mi ami. “Dio ha tanto amato il mondo da darci il suo Figlio”. Non siamo noi ad amare Dio ma è Lui che ci ama per primo. In questo senso Gesù è Via, Verità e Vita. E’ Via che rivela e conduce al Padre, non può esserci altra via al di fuori di Lui. E’ Verità che mentre rivela l’Amore di Dio rivela ciò che siamo realmente: creature piccole, fragili, spaventate dalle mille difficoltà ma chiamate a fidarci di Dio e solo di Lui. E’ Vita che ci viene donata nello Spirito Santo effuso nei nostri cuori e che noi conosciamo nell’atto di amare i fratelli come Gesù ci ha lasciato come testamento, con la forza che Egli ci dà. E noi dobbiamo accettare questa nostra quasi incapacità ad amare, consapevoli che senza di Lui non possiamo fare nulla, se non lasciarci amare ed avvolgere dalla sua Grazia. Fratelli miei. Il messaggio che la Parola oggi ci porta è incoraggiante e ci rassicura non certamente nelle nostre capacità a fare tutto da soli, saremmo battuti e avremmo fallito fin dall’inizio. Ma riconoscendo i nostri limiti e spesso la nostra cattiveria, non lasciarci condizionare da quella ostilità che spesso vediamo davanti a noi negli altri e nel mondo e che ci rende più problematico amare, ma credere che l’Amore e solo l’Amore ha la meglio su tutto. Coraggio ci dice Gesù, Io ho vinto il mondo! Dobbiamo si ripartire, ma con questa sicurezza, questa certezza nel cuore che con Gesù tutto è possibile. Lui ha sconfitto la morte per eccesso di amore verso di noi e ci ha restituito a quella Vita che è la comunione e la visione del Padre. Questo è il posto che Gesù ci ha preparato. Dio non può abbandonarci! AMEN!
Il Signore è veramente Risorto, Alleluja.
03 MAGGIO 2020 – IV DOMENICA DI PASQUA
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Questa quarta Domenica di Pasqua, ma come corre il tempo…, troviamo il brano del Pastore Bello, come Colui che si pone come Porta d’ingresso dell’ovile delle pecore e solo attraverso la quale è possibile entrare per trovare riposo, pascolo fresco, ristoro per le nostre anime. Non è un caso che la giornata di oggi sia come ogni anno dedicata alle vocazioni. Anche qui abbiamo molto da imparare noi come Chiesa. E dico noi che cerchiamo riconoscimenti, titoli, applausi, favore e sostegno in tutto ciò che facciamo. Gesù non ha cercato tutto questo. Ed è proprio Gesù, il Buon Pastore, colui che è la Porta, a dirci come fare per appartenergli, come fare per ascoltare e riconoscere la sua voce, come diventare quasi i padroni del suo cuore divino. Chi sono coloro che presumono ed esigono di entrare dentro il recinto per altre porte, per altre vie che non sono quelle del vero Pastore? Vedete, fratelli, noi non comprenderemo mai abbastanza come Gesù Cristo Figlio di Dio non è venuto sulla terra per lasciarci chissà quale religione o vuoto rito con “l’obbligo” di aderirvi e da osservare e celebrare. Vi erano e ci sono già tante religioni con i loro riti e le proprie tradizioni, visto come noi siamo morbosamente attaccati alle “tradizioni”! Non era di questo che avevamo bisogno. Gesù il buon Pastore non viene per insegnarci una filosofia, bastavano quelle dei Greci veri maestri nel pensiero speculativo. Dio non è un concetto da capire e fare nostro ma semmai siamo noi a dover fare si che diventiamo suoi: i suoi figli! Mi preoccupo quando vedo tanti di noi che fissiamo lo sguardo sulle tante immagini con cui adorniamo e arricchiamo le nostre chiese, ma dimentichiamo di fissare lo sguardo della Fede su Colui che della Fede è il datore e il dispensatore. Mi preoccupo quando vedo quelle immaginette stucchevoli con quel pastore bellissimo sotto il profilo estetico, ma così inespressivo dal punto di vista teologico della Verità. Gesù sulla Croce non attirava lo sguardo per la bellezza, ma si faceva spettacolo d’Amore fino all’estremo limite tale da ridursi ad essere inguardabile. Qui sta tutta la teologia del Buon Pastore. Quelli che sono venuti prima di lui Gesù li chiama “ ladri e briganti” perché lontanamente dal prendersi cura delle pecore loro affidate le hanno sfruttate e si sono nutriti a loro discapito. Gesù si distingue dagli altri perché per noi ha dato tutto se stesso. Anche la sua divinità l’ha messa a nostra disposizione e nulla ha trattenuto per se stesso senza condividerlo con noi. La Resurrezione del Signore nulla avrebbe da dirci se non fosse in questa linea. Quando a Pietro sulle rive del lago di Tiberiade viene chiesto dal Risorto per ben tre volte: “Pietro, mi ami tu più di costoro?” ,il povero Pietro per ben tre volte deve rispondere affermativamente di si. Ma è un “SI” che lo porterà, come il Maestro e Buon Pastore, a dare la vita per lui donandola per i fratelli. Solo perdendosi per i fratelli Pietro potrà manifestare il suo amore per il Maestro. Noi ci illudiamo quando entriamo nelle chiese e particolarmente quando celebriamo l’Eucarestia, tornandocene a casa senza nulla condividere con i fratelli e senza nulla fare per gli altri. Pensiamo scioccamente ed ingenuamente o forse perversamente che quattro preghiere e una messa ascoltata bastino per ingraziarci i favori divini. Come siamo lontani! Non è questo il cristianesimo. Non è così che apparteniamo al Buon Pastore. Come il Pastore Buono ha dato la vita per noi, anche noi dobbiamo dare la vita per gli altri, diversamente anche noi saremmo “ladri e briganti” a cui non importa nulla delle pecore ma solo della nostra vita. In questi giorni lunghi e terribili durante i quali in mille modi abbiamo tentato di sconfiggere la paura, la solitudine e l’isolamento, magari illusoriamente, cantando dai balconi oppure continuando giorno e notte a stare “collegati” via Internet ai nostri amici e parenti, forse ci hanno insegnato che la VITA è un bene assoluto, da preservare e proteggere come se potessimo chiuderlo in una cassaforte, garantircelo. Ma ci hanno illusi, anzi ci siamo illusi! Gesù ci insegna che la vita ci è stata donata perché la doniamo. In questi giorni pur ammirandoli, ci siamo sentiti “fortunati” per essere rimasti “vivi”, sopravvissuti, rispetto a quanti medici, infermieri o altre categorie varie che invece hanno “perso” la vita per servire e salvare altre vite. Non abbiamo capito nulla! Ricordo quel sacerdote che ha donato il suo respiratore per un ammalato più giovane di lui ma perdendo la sua vita. Proprio il Buon Pastore ci insegna che la vita la ritroviamo perdendola, donandola, giocandocela a favore degli altri. Diversamente l’avremmo persa irreparabilmente! Se non avremo imparato da questa orribile esperienza di precarietà, di fragilità e di debolezza, in cui abbiamo toccato con mano la nostra situazione di piccolezza ed il nostro essere esposti ad ogni rischio che non deve portarci alle chiusure e agli isolamenti, a guardarci dagli altri perché potenziali “untori” e trasmettitori di virus e di morte, ma semmai a restare sempre aperti e disponibili per gli altri, allora veramente e per davvero noi saremo rimasti chiusi e prigionieri della MORTE, quella vera, mentre coloro che si sono persi per gli altri avranno ritrovato per sempre e per davvero la loro vita. Questo non è un pensiero mio, ma Gesù Maestro, il Pastore Grande tornato dalla morte ci insegna tutto ciò. E’ questo il senso vero della Pasqua, oltre quelle funzioni e tradizioni che non abbiamo potuto vivere a causa del coronavirus. Se la cosiddetta “ripartenza” non sarà un ricominciare come uomini e donne nuovi nel cuore e nella mente, per ricreare rapporti nuovi e solidali con tutti, da veri fratelli, avremo perso e vissuto inutilmente questa esperienza che lungi dall’essere inutile e dannosa, poteva diventare una grande scuola e maestra di vita. Proprio ieri nella memoria di s. Atanasio, grande Vescovo, maestro e Dottore della Chiesa, il Santo Padre richiamava ai nostri amati e spesso contestati politici la necessità e il dovere in un momento come quello che ci troviamo a vivere, di restare uniti, così come pure all’Unione Europea. Uniti si vince diceva Papa Francesco, divisi e separati siamo definitivamente perduti! L’indecente spettacolo mentre si lotta per la vita e che ci stanno offrendo i nostri politici che trovano il tempo e la voglia di fomentare polemiche e divisioni, deve farci gridare inorriditi e scandalizzati. Così non andremo da nessuna parte. Si continuerà a tirare ciascuno per la propria strada, anonimi, separati anche se apparentemente “liberi” dove ciascuno continuerà illusoriamente la sua battaglia personale per la propria sopravvivenza, ma saremo appunto dei “SOPRAVVISSUTI” e noi non vogliamo assolutamente “sopravvivere” ma VIVERE, essere protagonisti offrendo la nostra vita ed esistenza. Consapevoli come Gesù ci ha mostrato ed insegnato che solo perdendo la vita, mettendola a servizio dei fratelli possiamo ritrovarla. Solo così ascolteremo e riconosceremo la voce del vero Pastore e lo seguiremo per la via della Vita che solo lui conosce e coloro ai quali lui stesso lo rivelerà. Si, insieme a Gesù e con Gesù soltanto “ce la faremo”, senza di Lui tutto sarà perduto! Tutto questo 2020 è un anno speciale, non perché diverso, ma perché il fermo obbligato, il silenzio che ancora tutto avvolge perfino le nostre stesse vite, deve portarci alla purificazione, alla sedimentazione di tutto quel chiasso e quella frenesia spensierata che fino ad ieri caratterizzava le nostre esistenze e le nostre storie quotidiane. Siamo nel mese di Maggio, il mese più bello dell’anno dedicato interamente a Maria, Madre del Buon Pastore, anzi… del Bell’Amore. Chiediamo a Lei che si faccia ancora nostra compagna di viaggio, che ci assista e ci illumini e continui sempre a sollecitarci ad ascoltare e seguire solo il Figlio suo Gesù, Buon Pastore. Con Lei maestra, la “ripartenza” sarà più bella e più sicura. AMEN!
75° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE – 25 APRILE 1945/2020
DUE PARTIGIANI FRANCAVILLESI QUASI SCONOSCIUTI: Antonio CARUSO e Foca PIZZONIA (a cura di Vincenzo Davoli)
Il 25 aprile 2020 si celebra il 75° anniversario della liberazione dell’Italia dall’oppressione nazifascista. Per questa importante ricorrenza vogliamo segnalare i nominativi di due cittadini francavillesi che nel periodo 1944-45 militarono nelle formazioni partigiane del Nord Italia: Antonio CARUSO e Foca PIZZONIA.
All’infuori dell’insegnante Vincenzo Caruso, unico figlio maschio del suddetto partigiano Antonio, nessun altro concittadino conosceva le vicende di questi due francavillesi, i quali, dopo aver partecipato alla prima fase della seconda guerra mondiale come soldati regolarmente arruolati nel Regio Esercito italiano, nella seconda fase della guerra (quella dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 tra Italia e gli Anglo-americani)volendo lottare contro i nazifascisti, nel 1944 si erano aggregati ai partigiani operanti in Piemonte, entrando ambedue nelle “Brigate Garibaldi”, rispettivamente nella 177ª, Foca Pizzonia, e nella 179ª, Antonio Caruso.
Il merito di aver scoperto i loro nomi va attribuito a Fausto Rondinelli, che, grazie alle sue ricerche storicheappassionate ed accurate, è riuscito a reperire nel sito “istoreto.it”dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “GIORGIO AGOSTI” le schede personali dei due partigiani nativi di Francavilla Angitola.
Antonio CARUSO nacque a Francavilla A. il 15-09-1922, da Vincenzo e Caterina Servello. Da giovane agricoltore, prima di svolgere il servizio militare, coltivava la terra (soprattutto oliveto) posseduta dalla sua famiglia. Durante il 2° conflitto mondiale venne arruolato come Soldato il 24-05-1941; giunse alle armi il 26-01-1942 ed assegnato al 23° Reggimento Fanteria; con tale ruolo partecipò ad operazioni di guerra nei Balcani, e precisamente nella Croazia, dall’11-8-1943 fino all’8-9-1943, data in cui fu annunziato l’armistizio poc’anzi ricordato. Nei giorni successivi all’armistizio, il nostro Soldato fu catturato dai Tedeschi, che controllavano quella zona dell’ex-Jugoslavia, e subito fu trasferito in Germania, in qualche campo di prigionia o in un cantiere di lavoro, dove gli venne attribuita la qualifica di I.M.I., ossia di internato militare italiano. Non si conosce per quanto tempo l’internato Antonio Caruso sia rimasto in Germania; neppure si sa in quale data e in quali circostanze egli riuscì a rimpatriare. Ad ogni modo, in un documento (datato 15-5-1946)rilasciato dalla Commissione Regionale Piemontese per accertare la qualifica di “partigiano” e nella scheda del sopra menzionato “istoreto.it” si attesta che Antonio Caruso prestò servizio nella “179ª Brigata Garibaldi” dal 01/05/1944 al 08/05/1945 e pertanto acquisì il diritto ad ottenere la qualifica di “partigiano combattente”. La “Brigata Garibaldi”, dove per un anno intero militò A. Caruso,operava in provincia di Cuneo, e precisamente nelle Langhe e nelle valli e colline limitrofe. Da buon partigiano, il nostro Antonio assunse come nome di battaglia quello di GIMMY, un epiteto di stampo americano, allora molto popolare tra gli uomini della Resistenza.
Nel dopoguerra il Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà –CVL conferì ad Antonio Caruso il BREVETTO di PARTIGIANO – N° 053419, con la seguente motivazione: “Combatté per la libertà nella guerra partigiana che arse sui monti nei piani nelle città d’Italia contro i nemici all’umanità e alla Patria”.
Tra le firme apposte in calce al brevetto si riconoscono quelle di Ferruccio Parri, di Raffaele Cadorna, di Luigi Longo e di Enrico Mattei, futuro presidente dell’ENI.
In data 25 ottobre 1965 il Comandante del Distretto Militare di Catanzaro, in riconoscimento dei sacrifici sostenuti da Antonio Caruso nell’adempimento del dovere in guerra, gli conferì tre distinti attestati:
-Croce al Merito di Guerra - 1^ concessione, in quanto combattente nella II guerra mondiale;
-Croce al Merito di Guerra, per internamento in Germania– 2^ concessione;
-Croce al Merito di Guerra, in seguito ad attività partigiana – 3^ concessione.
Tornata la pace, dopo essere stato tanto tempo lontano dai suoi cari, A. Caruso poté finalmente rientrare a Francavilla; desiderando mettere su casa e famiglia, Antonio sposò la compaesana Concettina Ciliberti e fissò la sua abitazione in via Roma 6. Dal matrimonio sono nati due figli, Caterina e Vincenzo, che portano gli stessi nomi dei nonni paterni. Entrambi i figli hanno studiato all’Istituto Magistrale e poi sono stati insegnanti elementari. Antonio Caruso è morto a Francavilla il 16 giugno 1983, all’età di 61anni.
I nipoti del partigiano “Gimmy” sono 5: quattro maschi e una femmina. Figli di Caterina “Rina” Caruso e del sindacalista “Ciccio” Russo sono i dottori: Vincenzo Russo, odontoiatra, e Antonio, avvocato.
Gli altri tre nipoti sono figli del suddetto Maestro Vincenzo “Cecè” Caruso e della di lui moglie, la Maestra Rita Cimino, originaria di Nicastro; in ordine di età sono: Antonio Caruso junior, di professione avvocato, Maria Concetta Caruso, dottoressa ingegnera informatica e delle telecomunicazioni, e Michele Caruso, dottore in legge, consigliere comunale, nonché assessore della Giunta di Francavilla Angitola.
Foca PIZZONIA era nato il 25-02-1920 ed era il terzogenito di Paolo e di Torchia Rachele. Prima di lui erano nati la sorella Anna ed il fratello Vincenzo. I Pizzonia del ramo di Foca erano agricoltori molto capaci e laboriosi, ma soprattutto erano apprezzati come abili ed esperti potatori di ulivi, di piante da frutto e di viti. Nel primo periodo (1940-43) della II guerra mondiale si consumò la triste vicenda di Vincenzo Pizzonia.
Come soldato di fanteria Vincenzo fu mandato a combattere sul fronte montano greco-albanese, assai tormentato dal freddo glaciale di quell’inverno (1940-41; non essendo protetto da un equipaggiamento adeguato a quel rigido clima, già il 28-2-1941 gli fu riscontrato un congelamento di I e II grado ai piedi. Fu subito rimpatriato e ricoverato per le prime cure nell’ospedale militare di Bisceglie (Bari). Successivamente gli fu accordata la licenza di rientrare a casa per la convalescenza, con l’impegno di continuare a curarsi gli arti ancora non guariti e con l’obbligo di sottoporsi a periodiche visite di controllo presso l’ospedale militare di Catanzaro. Per oltre un anno Vincenzo rimase in Calabria, alternando le giornate di cura e convalescenza a Francavilla con frequenti ricoveri brevi e visite di controllo nel suddetto ospedale militare; nel frattempo si era fidanzato ufficialmente con la compaesana Maria Bilotta. Un giorno della primavera 1942 Vincenzo doveva andare a Catanzaro per sottoporsi all’ennesima visita di controllo. A causa della guerra, il servizio di corriera tra Filadelfia/Francavilla e Catanzaro c’era solo una volta alla settimana; poiché quel mattino i posti della corriera erano già tutti occupati, Vincenzo, fermamente intenzionato a raggiungere Catanzaro, salì sul tetto del bus appollaiandosi tra le valigie e vari bagagli. Ma una guardia municipale, che stava controllando la partenza della corriera, gli intimò di scendere immediatamente, e non volle ascoltare le giustificazioni di V. Pizzonia, che era stato precettato per sottoporsi a visita di controllo. Nacque un diverbio tra Vincenzo e la guardia; fra i due contendenti volarono ingiurie, spinte e ceffoni. Pizzonia fu subito fermato e quindi condotto al carcere di Filadelfia con l’accusa di aver oltraggiato un pubblico ufficiale. Fu liberato dopo alcuni giorni di detenzione a Filadelfia, ma gli fu inflitta una punizione esemplare; pur non essendo completamente guarito dal congelamento, venne trasferito all’ARMIR, cioè al Corpo di spedizione militare italiana in Russia, ed inviato a combattere in prima linea sul fronte russo del fiume Don. Trovandosi di nuovo su un fronte gelato, per di più continuamente bersagliato dai tiri d’artiglieria e dai bombardamenti dei Russi, il povero V. Pizzonia morì il 4-01-1943 in un ospedale da campo dove era stato ricoverato perché gravemente ferito da un bombardamento o mitragliamento nemico.
Anche Foca Pizzonia fu coinvolto nella II guerra mondiale, ma per sua fortuna si trovò nelle retroguardie, in quanto arruolato nel Servizio di Commissariato come soldato della 58ªSezione di Sussistenza; pertanto Foca badava al rifornimento viveri, forse era cuciniere o preparava il rancio dei soldati, oppure era fornaio.
Nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, Foca con il suo reparto si trovava nella zona di Cuneo. Per i militari italiani quello fu un periodo di grande incertezza e confusione; erano persone sbandate che non sapevano cosa fare. Incerti sulle scelte da compiere: se tornare ciascuno alla propria casa; se restare alleati dei Tedeschi; se provare a mettersi in contatto con gli Inglesi e gli Americani, che però nel settembre 1943 erano comunque lontanissimi dal Piemonte, dato che allora erano impegnati ad occupare tutta la Calabria e a predisporre uno sbarco in grande stile a sud di Salerno. Siccome Foca si trovava a più di 1000 km di distanza dal suo paese e dai suoi cari, per non incappare in guai peggiori e per non correre rischi con i fascisti e i Tedeschi, che di fatto avevano assunto il controllo della zona in cui Foca allora si trovava, ossia la parte pianeggiante della provincia di Cuneo, il nostro soldato francavillese decise, come male minore, di aggregarsi alle milizie fasciste. Viceversa i militari antifascisti del Regio esercito italiano e vari gruppi armati di partigiani (civili, contadini, operai, studenti, giovani donne ecc.) in prevalenza si rifugiarono nelle colline (come le Langhe e il Roero), nelle valli e nelle zone montane del Cuneese.
Il 23-9-1943 Mussolini istituì la Repubblica Sociale Italiana –RSI, con sede del governo nella cittadina di Salò (BS) sul lago di Garda. Successivamente il 20-11-1943 il governo della RSI costituì la Guardia Nazionale Repubblicana –GNR, con compiti simili a quelli dei Carabinieri, ossia per vigilare sull’ordine pubblico e per tenere sotto controllo il territorio. Dalla scheda personale di Foca Pizzonia, redatta sempre da “istoreto.it”, risulta che già in data 15-10-1943 Foca era stato arruolato a Cuneo in qualche reparto della RSI. Rimase aggregato alle milizie fasciste dal 15-10-43 al 03-07-1944, assumendo il grado di Milite della Guardia Nazionale Repubblicana, allorquando la stessa GNR fu costituita ufficialmente (20-11-1943).
Stando a contatto con i fascisti italiani e i nazisti tedeschi, e non avendo concrete speranze di tornare presto dai suoi cari a Francavilla, pian piano Foca maturò l’idea di recidere i legami con questi individui che non gli piacevano affatto. D’altronde Foca e tutta la famiglia Pizzonia, compresa Maria Bilotta (che era stata fidanzata di Vincenzo) ce l’avevano a morte con i fascisti francavillesi, accusandoli di aver perseguitato Vincenzo così tanto da farlo trasferire sulla prima linea del fronte di guerra in Russia, dove poi purtroppo era morto. E maledicevano anche Mussolini, che aveva mandato tanti giovani italiani allo sbaraglio, senza vestiario e senza equipaggiamento adeguati per affrontare i climi rigidi delle montagne albanesi (1941) o della gelida steppa russa (inverno 1942-43). Inoltre Foca non se la sentiva di combattere o di andare a rastrellare quei militari italiani che si erano dati alla macchia, unendosi ad altri uomini e a donne delle bande partigiane; né tantomeno voleva rischiare di essere internato in campi di lavoro o lager di prigionia della Germania. Perciò, quando arrivò il momento più opportuno, Foca si staccò dalle milizie fasciste e s’aggregò ad una delle formazioni partigiane attive nella provincia di Cuneo. Si trattò della 177ª Brigata Garibaldi;Foca fu aggregato alla suddetta Brigata dal 04-07-1944 al 12-11-1944 con la qualifica di“Patriota”.Poiché Foca era nato in Calabria e dimostrava di essere un uomo astuto e molto scaltro, quando era partigiano gli fu affibbiato il nomignolo SCALABRINO, un nome di battaglia assai azzeccato perché negli antichi vocabolari della lingua italiana indicava certi uomini calabresi furbi e scaltri come il diavolo.
Non sappiamo se Foca, dopo il 12-11-1944, riuscì subito a rientrare a Francavilla; comunque, quando fece ritorno a casa, riprese a lavorare in campagna e manifestò il desiderio di sistemarsi e di prendere moglie. Con l’accordo dei suoi familiari, nell’immediato dopoguerra (anno 1945) Foca sposò Maria Teresa Bilotta, ossia la donna che era stata fidanzata del fratello Vincenzo, morto in Russia nel gennaio 1943; il nome del soldato Vincenzo Pizzonia giustamente fu poi inciso sulla lapide del Monumento ai Caduti in guerra, inaugurato a Francavilla Angitola il 4 novembre 1968. Nel 1947 nacque la prima figlia di Foca e Maria; fu chiamata Rachele, come la nonna paterna. Sempre a Francavilla nacque la seconda figlia, di nome Concetta (come la nonna materna), che negli Stati Uniti viene denominata Connie. Il terzo nato fu un maschio; a lui non venne dato il nome del nonno Paolo, bensì il nome “Vincenzo”, in onore dello sfortunato omonimo zio Caduto in Russia, che era stato anche il primo fidanzato di Maria T. Bilotta, mamma appunto del nuovo rampollo della famiglia di Foca Pizzonia.
Nel 1955 i coniugi Foca e Maria Pizzonia, con i tre figli nati a Francavilla, emigrarono negli Stati Uniti. Si stabilirono nel Connecticut risiedendo prevalentemente ad Hartford, capoluogo di quel piccolo ma popoloso Stato, sito poco ad est della città di New York. Negli Stati Uniti da Foca (ormai chiamato Frank, anche dagli amici italo-americani) e da Maria nacquero altre tre figlie, denominate in ordine cronologico: Teresa, Anna e Lucy (ovvero Lucia). Sistematosi in modo stabile negli USA ed assunta la cittadinanza americana, il nostro emigrato trascorse negli Stati Uniti tutto il resto della sua lunga esistenza.
Il francavillese di cognome PIZZONIA, denominato “Foca” nell’atto di nascita del 1920 a Francavilla Angitola; poi soprannominato “Scalabrino” quando fu partigiano nella 177ª Brigata Garibaldi; ed infine chiamato “Frank” quando visse negli USA, morì il 20 marzo 2009, all’età di 89 anni, nella città di Albuquerque, città dello Stato del New Mexico, ossia del Far West americano, dove probabilmente era stato trasferito per trascorrere l’ultimo periodo della sua vita, ricoverato e assistito in una casa di riposo per anziani.
VINCENZO DAVOLI
POST SCRIPTUM
Oggi 25 aprile 2020 il canale 23 di RAI Movie ha trasmesso il film documentario di Ermanno Olmi “Nascita di una formazione partigiana”, realizzato nel 1973. Tra i vari episodi della lotta partigiana il documentario ha ricordato l’efferata uccisione di Spartaco e Giovanni Barale, della 177^ Brigata Garibaldi, dove per qualche tempo militò Foca Pizzonia. Giovanni Barale (1887-1944), padre di Spartaco, fu il primo segretario della Federazione comunista di Cuneo; nel 1943 costituì una banda partigiana nella zona di Boves (CN). Il 31 dicembre 1943 G. Barale cercò di avvertire le altre brigate della zona che i tedeschi e i fascisti stavano per effettuare un massiccio rastrellamento. Purtroppo Giovanni fu intercettato dai tedeschi presso Castellar di Boves e nella sparatoria fu ferito gravemente ad una coscia; comunque trovò rifugio in una chiesa. Avvertito dell’incidente, il figlio Spartaco, con il compagno G. Rigoni, cercò di correre in aiuto al padre ferito. Ma anche i due soccorritori furono intercettati dai tedeschi ed uccisi nello scontro a fuoco (1° gennaio 1944). Poco dopo i tedeschi rintracciarono Giovanni Barale ed uccisero anche lui. La sera di quel Capodanno, 1° gennaio 1944, i soldati nazisti diedero alle fiamme i cadaveri dei tre partigiani cuneesi. Da quel momento la 177^ Brigata Garibaldi, a cui poi s’aggregò Foca Pizzonia, fu intitolata a Giovanni Barale.
12 Aprile 2020 PASQUA MESSA DEL GIORNO
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Con questa Domenica di Pasqua, siamo alla conclusione ma anche alla ripartenza di questo lungo cammino quaresimale che quest’anno è stato particolarmente sofferto e sentito di più perché più “pesante” ma che forse, anzi certamente ci ha aiutato a fare più Pasqua. L’altro giorno qualcuno si lamentava e mi diceva che quest’anno la gente, senza manifestazioni esterne, non sente la Pasqua. E’ perché noi purtroppo, solitamente ci fermiamo alle esteriorità. Noi invece dobbiamo arrivare al cuore, alla sostanza delle cose e di queste nostre feste. Ricordo una bella poesia del Pascoli che diceva: “C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anzi d’antico…”. E’ la famosa poesia ”L’aquilone”. Io oggi avverto questa novità, in questo marasma sociale ed esistenziale nel quale ci ha gettato il coronavirus. Oggi c’è qualcosa di diverso. Gesù è risorto! Questa notte abbiamo “svelato “ il Risorto, questa immagine che è una forzatura della Risurrezione, un nostro bisogno di rappresentarci visivamente il “Mistero”, perché nessuno è stato testimone oculare del fatto della Risurrezione. Testimoni sono i Discepoli, ma del post Risurrezione, dei segni della Risurrezione: il famoso giardiniere visto da Maria che va al sepolcro come ci dicono i vangeli sinottici, per imbalsamare il corpo di Gesù, perché non c’era stato il tempo la sera del venerdi Santo. I due ladroni insieme a Gesù quella sera vengono tirati giù dalle rispettive croci, Gesù in particolare, perchè dopo il tramonto del sole sarebbe iniziato il giorno solenne della Pasqua ebraica ed essendo giorno di festa solennissima per gli Ebrei, non potevano toccare i cadaveri perché si sarebbero contaminati e dunque non potevano celebrare poi la Pasqua da “contaminati”. E’ importante questo fatto. Allora lo hanno avvolto frettolosamente in bende e messo il sudario sul capo come ci riferisce anche il vangelo di stamattina e lo chiudono nella tomba in attesa dopo la Pasqua di continuare in quest’opera di preservazione del corpo di Gesù. Nel vangelo di questa domenica, Maria di Magdala di buon mattino si reca al sepolcro per imbalsamare appunto il corpo di Gesù e con grande meraviglia vede questa grande pietra, immaginate una pietra da mulino ma molto più grande, tale che una sola persona non avrebbe potuto spostarla e che serviva per occludere e sigillare l’ingresso del sepolcro che come era uso di allora erano scavati nella roccia come delle grotte. Lì viene deposto il corpo di Gesù. Maria esterrefatta vede questa pietra rotolata via e vedendo l’ingresso libero ha modo di entrare e vedere quel primo segno: la tomba vuota. Notiamo come Dio per parlare con gli uomini, usa il loro stesso linguaggio fatto appunto di segni. I segni sono importanti ma vanno capiti e interpretati. Il primo segno è appunto la tomba vuota. Maria non vede il corpo di Gesù ed ancora non comprende quel fatto, quell’evento. Stamattina è tutto un correre. Dopo questa scoperta Maria si mette a correre per andare a portare la notizia ai Discepoli del Signore. Maria arriva, dà la notizia e altri due personaggi a loro volta si mettono a correre, Pietro che è il più anziano e Giovanni, il più giovane, il discepolo che Gesù amava e che la sera del giovedi aveva poggiato il suo capo sul petto di Signore. Ed essendo più giovane rispetto a Pietro, Giovanni arriva per primo, si china, per entrare infatti occorreva abbassarsi perché l’ingresso era basso e vede le bende per terra, afflosciate su se stesse, ma Giovanni non entra. Aspetta l’anziano del gruppo, il capo che era appunto Pietro il che indica il rispetto che c’era verso di lui. Pietro quando arriva vede le bende per terra ed il sudario, piegato bene e riposto a parte. Dobbiamo spiegare come i vangeli sono i racconti post pasquali cioè dopo la Risurrezione, per cui i fatti narrati vengono rivisti e riportati alla luce della Risurrezione. Notiamo dunque il rispetto verso l’autorità di Pietro che Gesù stesso gli aveva attribuito con le parole: “Tu sei Pietro e su questa pietra (il fondamento) edificherò la mia Chiesa…”. Pietro è ancora con noi. E’ il Santo Padre che in queste sere stiamo vedendo così affaticato ma non per la fatica dei riti, affaticato per il dolore del mondo. Il Papa porta il dolore del mondo sulle sue spalle, come Gesù. Santa Caterina da Siena chiamava il Papa “il dolce Cristo in terra” e come Cristo si carica di tutti i pesi degli uomini e li porta sulla Croce per liberarci dall’oppressione di questi pesi, per liberarci dall’oppressione di questa enorme pietra tombale. Dicevamo questa notte come ieri mattina abbiamo sepolto due nostri fratelli, un fratello e una sorella, nostri paesani e chiusi in quei loculi con questa pietra tombale sulla quale possiamo scrivere e incidere le cose più impensate: “Nobiluomo”, “Nobildonna” ma non serve a niente. E’ una pietra che ci chiude ma non definitivamente. Ricordate l’episodio della vita del grande vescovo do Molfetta, don Tonino Bello, il quale un giorno vedendo la grande croce di terracotta della cattedrale, dove si stavano eseguendo dei lavori, poggiata al muro. Il parroco “poverino” in un certo senso ma provvidenzialmente ispirato nell’altro, appose un cartello di fianco con su scritto: “Collocazione provvisoria”, affinché i turisti non pensassero ch era il posto e la sistemazione definitiva. Don Tonino che oltre ad essere un grande vescovo era anche ispirato gli è balzato subito alla mente come la Croce, ma questo vale anche per la nostra croce, il coronavirus e tutte le croci che possono terrorizzarci e incutere paura, sono “collocazione provvisoria”. La nostra morte, quando anche noi saremo chiusi nel sepolcro come i nostri due fratelli e come gli ormai quasi ventimila morti in Italia per il coronavirus, anche questi sono “collocazione provvisoria”, tumulati alcuni, cremati e ridotti a ceneri mute e poste in quelle piccole urne cinerarie, un giorno il Signore li restituirà alla Vita. Questo è il risvolto della Risurrezione. Essa non riguarda solo Gesù, riguarda ciascuno di noi. E’ questa la speranza. Il coronavirus passerà sicuramente. Troveranno un vaccino per il quale pare che siano già a buon punto. Altre malattie verranno, per altri motivi noi moriremo. Non è questo il fatto più importante. Questo è nell’ordine delle cose, nell’avvicendarsi di esse, nel trapasso delle cose e nei trapassi epocali per cui tutte le cose che hanno un inizio avranno una fine. Ma la speranza è questa: che noi uniti a Cristo Risorto non moriremo mai. La nostra vita non finirà più, perché questo germe di eternità, attraverso l’incarnazione di Gesù, attraverso la sua passione, morte e risurrezione è stato inoculato in noi. Come il famoso serpente del Paradiso terrestre, come lo scorpione con il suo aculeo mortale aveva inoculato nell’umanità il veleno della morte, la Risurrezione di Gesù ci dà l’antidoto, ci dà il vaccino contro questa morte e quindi essa non potrà più niente contro di noi. Questa è la novità della Pasqua. E’ questa la novità di cui dicevo all’inizio e che sento circolare oggi nell’aria. Quindi non solo la paura del coronavirus, ma la speranza che Gesù risorto ci porta. Se restiamo uniti a Cristo siamo già, fin d’ora, nella Vita. A me dispiace che questa mattina l’Eucaristia possa prenderla solo io, ma essa è già entrare in questa dinamica di eternità, di vita che non finisce più. Però non perché sia una proprietà nostra, ma perché Gesù eucaristia, attraverso il pane e il vino rimarrà tra noi fino alla consumazione dei secoli. E’ tra noi e in mezzo a noi e ci fa entrare già in questa ottica di eternità, di vita che non finisce sebbene con modalità diverse come il suo corpo spiritualizzato. Se noi avessimo più fede, più fede, questo è il vero problema. Questa mattina all’insegna della tomba vuota, questi teli piegati che ancora non ci dicono granché. E’ la Parola ci dice anche il vangelo di Giovanni che illumina i fatti, che illumina gli eventi e li rende comprensibili. Lasciamo che la Parola di Dio illumini i fatti di questi giorni, le nostre paure, il nostro terrore. Illumini la fatica di quei medici che si spendono e si sacrificano per gli ammalati nelle corsie d’emergenza finalmente. Dicevamo l’altra sera la bellezza di questa classe medica della quale avevamo perso fiducia e speranza, perché ci sentivamo trattati non da uomini, non da ammalati ma come “numeri”, con freddo distacco. Finalmente anche i medici sono stati capaci di riscattarsi mettendo la loro vita a servizio della gente. Il prete è a servizio della comunità, il medico è a servizio del malato. Ognuno di noi, e qui sta la Pasqua, deve mettersi a servizio degli altri. Gesù mostra questo servizio passando a lavarci i piedi: “Voi mi chiamate Maestro e dite bene perché lo sono, ma se io il Maestro lavo i piedi a voi, anche voi dovete fare altrettanto…”. Che bellezza, che meraviglia, che miracolo! Questo è il senso della vita. La vita non è fatta per divertirsi. Quando ci sarà la ripartenza, quando sarà e che ancora non si sa, non torniamo a vivere come prima, per favore! Non torniamo a vivere distrattamente, chiusi nel proprio egoismo a dispetto e quasi nell’indifferenza verso gli altri. Rinunciamo a qualcosa di non essenziale e veramente necessario, per essere più solidali con gli altri. Camminiamo insieme, non da soli. Da soli non si va da nessuna parte. A Francavilla per certi versi siamo ossessionati dal fare. L’ossessione, la smania di protagonismo, fate attenzione. Non è il fare che conta ma il “come” facciamo. Allora le cose che noi facciamo hanno valore se le facciamo insieme, ma se le facciamo da soli non hanno alcun senso. E’ questo il senso della comunione. Gesù ci vuole salvare aiutato dal nostro consenso, dalla nostra adesione a lui. E’ questa la fede. Pasqua è passaggio dalla morte alla vita, dalla paura alla speranza, alla libertà, alla gioia. Se la Pasqua non è l’esperienza di questo passaggio, dalla paura e dalla morte alla libertà e alla Vita, noi celebriamo invano ed inutilmente riti senza senso, muti ed incapaci di dirci qualcosa o di essere significativi per la nostra esistenza! Gesù il Risorto vuole essere significativo per noi, dare consistenza e sicurezza al travaglio del nostro quotidiano vivere prigionieri delle tante paure che ci bloccano e ci attanagliano e ci impediscono di vivere! Mentre tanti fratelli sono morti e continuano forse a morire per un piccolo, banale virus, Gesù ci dona l’antidoto a tanto macello. Gesù, il Cristo è veramente risorto! Sarà il nostro saluto oggi e sempre, nei momenti felici come in quelli della paura e del buio, delle chiusure e delle separazioni forzate, del rifugio in inutili e illusorie sicurezze che nulla possono garantirci e assicurarci: Solo il Risorto è la nostra sicurezza. Solo lui è tornato dalla morte per garantirci la Vita, quella che non finirà mai stritolata nella morsa della paura. Gesù ci libera e ci restituisce alla Vita, quella vera: AUGURI….per una nuova rinascita e per un immediato ritorno alla vita quotidiana con il Risorto sempre vittorioso!
Il vostro Parroco
11 Aprile 2020 VEGLIA DI PASQUA
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Immagino o cerco di immaginare se il Signore risorto fosse vivo qui dinanzi a noi le cose che vorremmo e potremmo chiedergli. Salvaci…, liberaci…, guariscici…, fa che questo nostro povero mondo sia più bello e più vivibile, senza doverci barricare nelle case per paura. Sono cose lecite, umane, aspettandoci dal Risorto un pronto e commosso intervento, toccato dalle nostre tante problematiche e vicissitudini. In altre occasioni nel vangelo, Gesù ha addirittura pianto e si è commosso dinanzi alla sofferenza e alla morte e ha operato tanti miracoli. Lui, il Risorto, già conosce tutto, sa tutto e vede tutto. Allora, qualcuno mi dirà, perché non interviene, dov’è Dio in tutto questo trambusto che ormai da troppo tempo ci assilla e non ci fa più vivere? Immagino gli Apostoli la sera del Venerdi Santo, quando frettolosamente fuggirono, lasciando il Maestro penzolante dalla croce, cercando unicamente di mettere in salvo se stessi! E quando Gesù risorge deve “raccattare” nuovamente uno ad uno, quel gruppo che lui aveva formato e che ora in preda alla paura e alla delusione si era disgregato e disperso. Certo erano tornati al proprio lavoro di pescatori, ma ormai pur con dolore e dopo appena pochi giorni dalla sua morte, chi pensava più a quel Maestro venuto da Nazareth che equivale a dire…dai bassifondi della Palestina, ormai chiuso per sempre in una tomba, chiusa da quell’orribile, pesante lapide di pietra che muta e fredda come tutte le altre non aveva più nulla da dire loro, così come Lui ormai non parlava e non li ammaestrava più? Stamattina abbiamo seppellito due fratelli che sono morti per motivi altri e diversi dal coronavirus. Ma la morte è sempre uguale qualunque sia la causa. Ormai ci stiamo avvicinando alla spaventosa cifra di ventimila morti per covid19, e non sappiamo se il mostro che divora e inghiotte si fermerà a questa ragguardevole cifra. Anche loro chi sepolto chi cremato e ridotto in polvere muta e senza vita. Dove sei Signore? Perché non intervieni nonostante le preghiere sofferte che insieme al Santo Padre, Papa Francesco ti innalziamo ormai da tempo? Anche noi dinanzi alla morte, ma non solo, ci fermiamo. Cessiamo di credere e di pregare. Tanto chi ci ascolta? Anche i Dodici Apostoli pensavano così dopo il venerdi. Ma ecco che quella mattina, “il primo giorno dopo il Sabato” dopo che tutti gli Ebrei avevano celebrato la loro Pesah, la loro Pasqua, e che per noi è la Domenica, il giorno del Signore, le donne che erano andate al sepolcro - loro si che avevano avuto ed avevano più coraggio di quei Dodici pescatori – per completare l’imbalsamazione del cadavere di Gesù, per preservarlo dalla marcescenza quando ad un tratto avvertono un forte terremoto e un Angelo sceso dal cielo che rotolò via la pesantissima pietra che chiudeva il sepolcro, mentre le guardie poste a sorvegliare quella tomba per timore che i Discepoli – figurarsi – fossero andati per rubarne il cadavere e poi magari mettere in giro la voce che il Maestro era risorto, caddero a terra tramortite, prive di sensi. Non solo, l’Angelo parlò loro dicendo: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. E’ risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto andate a dire ai suoi discepoli: E’ risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. La gioia, lo stupore grande, non ancora confuso e stravolto dalla ragione le invade e si mettono a correre, per andare a portare quella notizia sconvolgente ed inaspettata ai Dodici. Che strano anche questo. Le donne che non avevano voce in capitolo al tempo di Gesù e la cui testimonianza non aveva alcun valore, vengono scelte da Gesù per un annuncio così importante! Ma cosa ancora più strabiliante, quella corsa viene interrotta addirittura da Gesù che appare loro e dice: “Non temete; andate ad annunciare ai mie fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno”. E’ la conferma dello stesso annuncio dell’Angelo, ma questa volta ancora più autorevole, fatto da Gesù in persona. Cosa sono tutti questi fatti. Favole? Vaneggiamenti di povere donne visionarie e facili a lasciarsi condizionare dalla loro mente fragile, pronte a farsi condizionare da chicchessia? Ma come spiegare allora come quei Dodici pescatori da lì a qualche giorno riprendono a parlare apertamente e senza paura del loro Maestro che sarebbe tornato in vita? Anzi, addirittura dopo qualche anno, sarebbero morti donando la vita per testimoniare questi fatti e quel Maestro che dicono…Risorto”! Non crediamo fratelli che quegli uomini pur rozzi e abituati a lottare con le onde del mare siano degli ingenui creduloni! L’ebreo non è di questa specie. Gli Ebrei sono troppo attaccati alla loro tradizione mosaica per credere ingenuamente e farsi uccidere per un personaggio che non ha saputo salvare se stesso dalla morte! Sono grandi domande alle quali per essere onesti con noi stessi DOBBIAMO rispondere non certamente in questa sede, ma nel nostro cuore. E’ certo che razionalmente non ci arriveremo, anzi si creerebbe ancora più confusione dentro di noi. Anche ai Dodici il Risorto chiede l’umiltà di fidarsi di quelle donne che non erano degne di credibilità perché DONNE! Ma a loro è stato concesso di ricevere quell’annuncio che avrebbe addirittura cambiata la storia, la nostra storia, quella storia che ci appartiene e che il più delle volte non accettiamo perché la vorremmo diversa da quello che è. Ma da questi fatti evidenti dobbiamo dedurre che la risurrezione di Gesù non solo non è un’invenzione della comunità che neanche immagina che Gesù possa risuscitare. Lui è morto e loro vanno per completare l’imbalsamazione del suo corpo attenendosi alla tradizione, non essendoci stato il tempo la famosa sera del venerdi, quando Gesù muore inchiodato sulla croce, poiché dopo il tramonto iniziava il giorno solennissimo della Pasqua e quei lavori non potevano assolutamente compiersi, pena anche l’esclusione dalla comunità. Cari fratelli. Anche noi comunità del Risorto, stiamo ormai da un mese chiusi nelle nostre case, impauriti per la possibilità di un contagio, paralizzati da questa malattia che si trasmette con enorme facilità. Quella nostra, per quanto facciamo per renderla il più possibile vivibile, non è vita. E’ morte, è sopravvivenza, è lasciarsi vivere non da protagonisti ma da gente battuta, sconfitta, come quei Discepoli che erano tornati delusi alla pesca e alle proprie barche. Noi al momento neanche questo! Ma se ci lasceremo interpellare da questi fatti che abbiamo ampiamente esaminato e soprattutto se quella parola ascoltata e quegli eventi celebrati in questa Notte santissima ci toccheranno nel profondo del nostro cuore, come gli Apostoli, allora nulla potrà più farci paura. La nostra storia cambierà com’è cambiata quella dei Dodici. Questa notte stessa il Signore certamente “passa”, per dirci :”Non abbiate paura. Abbiate fede in me. Se crederete in me anche voi vedrete la Gloria di Dio. Io ho vinto esconfitto per sempre la morte!”. Se crediamo, anche la nostra storia cambierà, non nel senso che avremo ciò che sogniamo e che desideriamo, ma nel senso che sentiremo profondamente che è lui, Gesù il risorto dai morti che la conduce e la guida. La Pasqua non è un’insieme di riti suggestivi che commuovono il nostro animo, ma che forse lasciano tutto come prima. Pasqua è fare esperienza del Risorto nella nostra vita, è scommettere su di lui e abbandonarsi a lui lasciandosi guidare perché sappiamo che Gesù il Signore è tornato davvero dai morti e non può più morire. Lui è il Signore della Vita, presente con noi, cammina con noi e non ci lascerà mai soli.
Il vostro Parroco
10-04-2020 VENERDI SANTO O DI PASSIONE
Oggi che siamo invitati a volgere lo sguardo “ A Colui che hanno trafitto” che abbiamo trafitto…, è una giornata senza liturgia, senza celebrazione eucaristica così come pure domani Sabato Santo. La Chiesa adora silenziosa e contemplativa nella preghiera, quella Croce che divenuta “spettacolo del mondo” è causa di salvezza eterna per tutti gli uomini. Era necessario che il divino Maestro - sul cui petto ieri sera Giovanni quel discepolo che Gesù amava, ha potuto poggiare il suo capo ed ascoltarne i battiti tumultuosi certamente di turbamento, per l’imminente “Ora” estrema e fatale che Gesù doveva affrontare fin dall’origine del mondo e per la quale tutto era stato preparato, ma anche per quell’eccesso di Amore con cui Dio amava i suoi figli perduti per il peccato - affrontasse la sua morte in Croce. Quella morte che avrebbe annullato per sempre la condanna scritta e decretata dal peccato in cui tutti ci ritroviamo e di cui tutti siamo complici e che da soli mai avremmo potuto vincere e rendere inoffensiva. E’ caratteristica del vangelo secondo Giovanni che abbiamo appena proclamato nella lettura della “passione”, parlare ripetutamente e costantemente di una certa “Ora” che Gesù doveva attendere ed affrontare. Anche alle Nozze di Cana, Gesù orienta la richiesta miracolistica di Maria sua madre a quell’Ora, la sua Ora. E’ l’Ora che Dio ha preparato fin dall’inizio e se può sembrare anche l’ora del Male, l’ora in cui Gesù è umanamente sconfitto ed eliminato apparentemente per sempre, in realtà è l’Ora della Gloria di Dio “manifestata in Cristo Gesù”. “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” e dice ancora Gesù “Che dirò, Padre allontana da me quest’Ora? Ma è per questo che sono venuto. Padre glorifica il tuo nome.”. Si, effettivamente come abbiamo più volte sottolineato e detto, il linguaggio di Dio è totalmente diverso da quello dell’uomo. L’uomo manifesta smania di possesso, di potere, di forza per prevalere sugli altri, di premunirsi e difendersi dagli altri, Dio parla un linguaggio di spogliazione, di abbassamento oltre ogni limite, di consegna inerme al male e alla violenza degli uomini , di “Amore nella dimensione della Croce” e solo in riferimento ad essa, perché “NON C’E’ AMORE PIU’ GRANDE, DI CHI DA’ LA VITA PER GLI AMICI”. E’ solo nella dimensione del DONO TOTALE che possiamo intendere e capire il linguaggio di Dio. Dove, è l’Amore ad avere l’ultima parola e la meglio su tutti e su tutto. Ed ecco perché ci viene difficile capire, ascoltare e mettere in pratica quello che Dio ci chiede. Noi tutto questo lo vediamo come un linguaggio “duro ed ostico” che rasenta la follia e la stoltezza. La Croce dice san Paolo è follia per i Giudei che cercavano miracoli e stoltezza per i Greci che invece cercavano sapienza, loro abituati ad essere terra di filosofi e di sofisti. In realtà la Croce di Gesù diventa la dichiarazione dell’Amore folle, eccessivo ed esagerato di Dio per il genere umano e manifestazione della sua Sapienza in questo linguaggio duro e rude della Croce del Figlio suo, ma anche nelle situazioni di dolore e di precarietà estrema di ogni uomo. Ci diventa chiaro come solo Dio poteva fare una cosa del genere: la Salvezza nell’impotenza spaventosa e terrificante della rozza Croce, ma resa potente ed efficace dall’azione di Dio al punto che attraverso di essa e solo con essa ha voluto salvare il mondo! Dio non si oppone né combatte fisicamente contro il Male ma si consegna liberamente per renderlo inefficace e sconfitto per sempre! Dalla dura terra arida e secca del Male, ogni male, Dio sa trarre il Bene che salva e che dà la Vita. Qui sta la nostra Fede. E’ molto espressiva la frase di Gesù quando invia i suoi Discepoli: “Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi…”: cosa può l’Agnello di fronte a un branco di lupi? Nulla, solo e indifeso, estremamente debole e alla mercé del più forte di lui, destinato ad essere inevitabilmente sbranato e fatto a pezzi! Gesù ci chiede risoluto di non opporci al male. Ma è in questa estrema debolezza e fragilità che agisce l’Onnipotenza di Dio e che sa trasformare ogni tempesta e ogni avversità, ogni morte e ogni fallimento in vittoria e nuova vitalità. E’ la logica del Servo sofferente, come Gesù si manifesta a noi e come viene preconizzato in maniera adombrata ma che in Lui si chiarisce e si comprende definitivamente, dal profeta Isaia in particolare. Si, certamente, domani notte sarà Pasqua e sappiamo che Gesù verrà fuori da quel sepolcro che ci atterrisce e ci lascia senza fiato. Ma prima è necessario passare da quella strettoia che è la morte. Non può esserci Resurrezione, se prima non si scende nella terra e nel sepolcro. E’ così che anche la nostra morte e la nostra malattia, magari a causa di un coronavirus…., ne esce illuminata e trasformata, resa inoffensiva e che ci immette nella luce della Pasqua e della Vita che risorge vittoriosa per sempre. Alla morte dell’amico Lazzaro, Gesù dice ai Discepoli costernati: “Questa malattia non è per la morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Non si tratta di abbandonarci inermi alle malattie e alla morte. E’ lecito lottare contro il male, ma sempre tenendo presente che l’ultima parola, quella decisiva appartiene a Dio. Non possiamo illuderci di poter sfuggire sempre a certe esperienze anche dolorose. Anche Lazzaro, risuscitato dai morti sarebbe poi morto. E’ nell’ordine delle cose. Ma dobbiamo credere che la nostra vita, “ riposa con Cristo in Dio” e solo lui può assicurarci la Vita, quella che non ha fine. Queste feste pasquali, quest’anno diverse dal solito, più essenziali, direi quasi austere, senza frastornanti e confusionari movimenti di gente e di fedeli, senza processioni e sacre rappresentazioni per quanto suggestive e commoventi, non possiamo dire assolutamente che siano….meno pasquali o che facciamo meno Pasqua! Siamo immersi nella paura, viviamo nella precarietà, avvertiamo quante cose ci mancano fosse solo la libertà di recarci al supermercato per fare le solite compere come eravamo abituati e come ci aveva abituati la cosiddetta “società dei consumi”. Ma la Pasqua c’è tutta. C’è il Cristo crocifisso ben piantato sulla Croce in mezzo a tutte le nostre sofferenze, alle nostre malattie, alle nostre tante, troppe morti. Ieri sera dicevamo fra le tante di questa ritrovata capacità di amare e di spenderci per gli altri anche a costo della nostra integrità fisica, in un servizio totale e senza riserve. Questo è Pasqua! E questo è quanto ci chiede il Padre Celeste offrendoci quel Figlio che si immola stasera per noi, per insegnarci che l’Amore non è un gioco né una bella poesia. L’Amore ci porta a pagare per gli altri, a condividere tutto quello che abbiamo e ci fa capire che nulla ci appartiene o possiamo dire “è mio”. Gesù nulla ha tenuto per sé, ma tutto ha voluto condividere con noi, anche la sua stessa divinità e figliolanza divina, la sua stessa vita. Qui sta tutta la forza dell’Amore che è contenuta nella Croce gloriosa del Signore Gesù e che da essa si sprigiona cambiando e dando nuovo senso ad ogni nostra realtà negativa. In tutte quelle persone che in questi lunghi giorni sono state in un modo o nell’altro protagoniste in questa guerra virale, anche per il semplice fatto di essersi lasciate relegare in casa per non allargare la diffusione del virus, è contenuta la Pasqua di Gesù e la nostra Pasqua. Forse c’è voluto il coronavirus per ricordarci che Pasqua è cambiamento, passaggio da una vita da morti, putrefatti e rinchiusi come nella “tomba” di una vita egoistica di semplice ricerca di piaceri e di divertimenti, alla freschezza di una vita impegnata e spesa, messa a disposizione di chi è meno fortunato e che si abbassa nel servizio e nella completa disponibilità verso l’altro, in casa e fuori di casa, sul lavoro e per la strada, senza distinzioni o differenze di razza, di colore e di provenienza. Una vita “spezzata” e condivisa con gli altri come il pane fresco e profumato, come Gesù ha fatto con noi. Mi tornano in mente quei medici che contagiati dal coronavirus e poi vinta la loro battaglia con la malattia, hanno trovato ancora la forza di dare anche il proprio plasma reso immune dal virus letale, nel tentativo di salvare la vita di chi ancora era in lotta con la malattia. Questo è bello, questo è esemplare, questo è eroico e ci invita tutti a fare altrettanto, oggi e sempre, in questa lotta ancora estrema contro il male ma anche dopo, nella vita di tutti i giorni quando si tornerà a Dio piacendo alla normalità. Sono questi i segni pasquali che ci indicano come deve cambiare la nostra vita, come dobbiamo giocarcela, per non perderla nel tentativo di assicurarcela ma ritrovandola e rendendola veramente sicura spendendola e donandola, condividendola e mettendola a servizio di tutti come Cristo che è morto per tutti perché della sua morte tutti potessimo beneficiare e trarre giovamento e salvezza!
Il vostro Parroco
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
09 Aprile 2020 – GIOVEDI SANTO - OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Carissimi fratelli.
Stasera siamo invitati da Gesù alla sua mensa, dove lui anticipa il dono del suo corpo e del suo sangue dati per la salvezza del mondo. Mi trovo in questa chiesa vuota, a celebrare solo il più grande dei misteri che tutti ci unisce, il più grande dei doni che un Dio poteva farci: il suo corpo spezzato e crocifisso e il suo sangue versato entrambi per la nostra salvezza, fatti e datici in cibo per noi. La prima lettura ci parla di una “liberazione”, di notte, nella veglia, quella veglia che diventerà la Madre delle veglie ed in cui affonda le radici la nostra identità di figli di Dio. La liberazione dalla schiavitù che significa “morte” verso la libertà della vita, di una progettualità, di una possibilità di realizzarsi come individui e come popolo: il Popolo di Dio. Stasera voi non siete fisicamente presenti come siete stati invece gli altri anni. Ma tuttavia siete con me, presenti come me, in questa “sala” dove Gesù , il Figlio di Dio ci apre il suo Cuore divino all’intimità con Lui e ci fa dono di tutto se stesso, senza riserve. Anche noi come gli Ebrei in Egitto, siamo schiavi della stanchezza di un isolamento “forzato”che dura ormai da più di un mese e come loro isolati, schiavi, per fare dei lavori che non avrebbero voluto mai fare per un oppressore, il Faraone d’Egitto. Ma ecco che Dio ode il grido di quel popolo senza identità, del quale vuole fare il suo Popolo, dandogli un’identità, un volto e suscita un personaggio, Mosè, per mezzo del quale vuole liberare quel popolo che lo ha invocato. In questo contesto di morte e di schiavitù Dio stesso chiede e detta una serie di norme e di procedure che diventano un “rito”, una cena che diventi “Memoriale” perenne di ciò che lui ha fatto per il suo popolo. La Cena pasquale appunto dove al centro di tutto c’è un agnello da consumarsi ed il cui sangue serve per segnare le porte di casa di ogni famiglia ebrea, per essere salvati da sicura morte. Anche Gesù quella sera come questa sera, da buon ebreo, stava celebrando forse necessariamente anticipandola, prima di morire, quella Cena e quel Memoriale per ripresentare le gesta straordinarie di Jhawè per il suo popolo santo. In questo contesto Gesù quella cena la porta ad un livello vertiginoso identificando se stesso con l’Agnello pasquale. Le sue parole “Prendete e mangiatene tutti….; Prendete e bevetene tutti…” dette sul pane azzimo e sul calice del vino fanno si che Gesù sia con noi presente sacramentalmente fino alla consumazione dei secoli. Ma questo ancora non basta. Nel bel mezzo di quella celebrazione solenne, Gesù ad un tratto si alza inaspettatamente, si cinge di un grembiule, prende un catino con dell’acqua e passa a lavare i piedi ai suoi Apostoli; piedi sporchi, piedi stanchi, piedi feriti e provati dalla stanchezza del lungo andare per le vie della vita. Fatto sconcertante e strabiliante. Mai un Maestro come Gesù, riconosciuto tale da tutti, anche da quelli che non erano dei suoi, si sarebbe inchinato davanti ai piedi di un suo discepolo…, per lavarli. Questo era un gesto che non si richiedeva neanche allo schiavo. Giovanni nel suo vangelo ci dice che Gesù, “avendo amato i suoi li amò fino alla fine”, cioè fino al massimo del dono di sé. Gesù non ci lascia solo delle belle parole in quella sera, ma ci lascia dei gesti come esempio che noi dobbiamo seguire e fare nostri per essere suoi discepoli. Siamo ancora frastornati, spaventati ed atterriti dai fatti di questo ormai lungo periodo di prova. Mentre noi siamo al chiuso delle nostre case, ormai stanchi e sfiniti per questo tempo non certo sereno e spensierato, durante il quale la nostra indipendenza della quale necessariamente siamo stati privati, altri negli ospedali lottano insonni, faticano, servono, sudano e mettono a rischio la propria vita, per tentare di salvare dal male del contagio quanti più possono, ma senza che possano essere loro stessi a determinarlo o deciderlo. Credo che non ci sia un gesto più plastico e concreto di questo, per capire un po’ di più ciò che ha fatto Gesù per noi. Gesù passa a lavarci i piedi, un gesto che inquieta e scandalizza, lo capisce bene Pietro che cerca di sottrarvisi, redarguito e rimproverato da Gesù. Lavare i piedi di qualcuno! Con questo gesto Gesù vuole significarci fino a che punto il nostro amore deve abbassarsi per definirsi discepoli del Maestro divino. Inutile illuderci delle tante eucarestie celebrate, se non siamo arrivati ancora a comprendere questo mistero del servizio, amorevole, libero e spontaneo al quale l’Eucarestia ci impegna e ci invia. Lo sanno bene quei medici che nelle corsie e nei reparti per gli infetti degli ospedali si stanno sacrificando e immolando se stessi per salvare il più possibile vite umane dal contagio del coronavirus. Non è un rito vuoto celebrare l’Eucarestia. Non è un segno lontano nel tempo che non ha più nulla da dirci. E’ san Paolo che ci ammonisce dicendoci: “Chi mangia e beve (riferendosi appunto all’Eucarestia) senza discernere il corpo ed il sangue del Signore, mangia e beve la propria condanna”! In questa fase difficilissima del nostro tempo abbiamo riscoperto tante cose. Intanto abbiamo riscoperto una classe medica che era caduta nella disistima e nella sfiducia di molti di noi. Ci eravamo quasi abituati a lamentarci, forse con ragione, del tempo e della scarsa attenzione dataci nei pronti soccorso dei nostri ospedali, lasciandoci spesso abbandonati ad attendere che qualcuno si ricordasse di noi seduti su di una sedia o distesi doloranti e pieni di paura su una barella traballante. Abbiamo ora riscoperto questo ruolo essenziale della classe medica ed infermieristica, finalmente riabilitata e meritevole di tutta la nostra considerazione e del nostro ringraziamento. Si sta riscoprendo a livello politico la necessità di “lavorare uniti ed insieme” per affrontare e superare la crisi, ogni crisi, per uscirne vincitori. Da soli si esce battuti e sconfitti irrimediabilmente. Abbiamo riscoperto il gusto e la necessità di passare più tempo con i nostri figli. Spesso per egoismo li abbiamo separati da noi immergendoli e frastornandoli con una serie di impegni e di attività non necessarie, sol perché NOI avevamo altro da fare, per quanto necessario. Stiamo ritrovando il gusto e la gioia di prepararci il pane in casa…, cosa che per i nostri nonni era la norma, prima che i nostri tanti panifici invadessero il mercato con le mille qualità di pane con cui ci nutriamo giornalmente a seconda dei nostri gusti. Stiamo riassaporando la bellezza e il gusto di passare nelle famiglie del tempo insieme a giocare, ad ascoltarci a parlare e a guardarci negli occhi, per cogliere e fare nostre tutte quelle domande e quelle richieste di “aiuto” e quel bisogno di amore di cui i nostri cuori sono gravidi ed assillati. Ci siamo ritrovati con i Carabinieri, da sempre vicini alle comunità tra cui operano, a portare personalmente la pensione a quegli anziani che non possono uscire. Anche noi pastori, Sacerdoti e Vescovi, costituiti tali in questa solennissima sera a favore del popolo di Dio, riscopriamo il bisogno che abbiamo di voi fedeli e nostri fratelli, il bisogno di dedicarci a voi per portare insieme i pesi gli uni degli altri, la sofferenza di non avervi con noi a condividere la Parola ed il sacramento della Vita e dell’Amore che Gesù, nostro Signore, ci ha lasciato in questo Memoriale perpetuo che è la sintesi della celebrazione di questa sera speciale. Tutto questo è Eucarestia, Cena pasquale, sacro Convito dove Cristo si è fatto e si fa ogni giorno nostro cibo, nostra vita e pegno di eternità, per condividere i nostri assilli, le nostre paure, i nostri smarrimenti, i nostri dubbi e i nostri tradimenti. Lui può trasformare e rigenerare tutto questo restituendolo alla luce e alla verità. Tutto questo è Amore, quell’amore di cui Cristo è perfezione ed al quale ci invita e per il quale ci invia nel mondo. Ci voleva un virus… per farci ricomprendere quanto di essenziale forse, avevamo troppo frettolosamente dimenticato? Già si parla di ripartenza, di lenta e graduale ripresa della vita di tutti i giorni. Ma questo spirito di servizio e di condivisione di ogni situazione lieta o triste non dovrà abbandonarci mai più, pena la riduzione della celebrazione dell’Eucarestia a mera “celebrazione” senza riflesso nella vita personale e comunitaria. Papa Francesco parla spesso di una Chiesa del “grembiule”, si quel grembiule di cui stasera Gesù si cinge, per insegnarci fino a che punto il nostro amore, come il suo, deve abbassarsi per farsi SERVIZIO. Negli ospedali, nelle case, per strada, nelle fabbriche, nelle scuole e negli uffici, TUTTI siamo chiamati a “fare Eucarestia” abbandonandoci senza limiti e mettendoci a disposizione gli uni degli altri. E se questo nostro servire, dovesse portarci a “perdere la vita” ? Gesù ancora una volta ci ammonisce: “Non c’è amore più grande di chi dà la sua vita per gli altri”. Ma chi perde la sua vita per Gesù cioè per gli altri, la ritrova ed è salvo! Solo per questo la vita ci è stata donata. Coraggio, sempre avanti in questa ricerca di comprensione e di senso del nostro vivere, lavorare, soffrire, pregare, amare gli altri. Gesù è con noi e la nostra vita è nelle sue mani che mai ci lascerà da soli essendo il SOLO che può darle un senso ed un compimento, l’unico: l’Amore più grande.
05 Aprile 2020 - DOMENICA DELLE PALME
OMELIA DI DON GIOVANNI BATTISTA TOZZO
Fratelli carissimi, con l’ingresso festoso di Gesù in Gerusalemme, iniziamo oggi la grande e solenne Settimana Santa, durante la quale la Chiesa universale tutta celebra i misteri della passione, morte e Risurrezione del suo Signore Cristo Gesù.
Sembra difficile parlare di “Risurrezione” in un tempo come quello che ci troviamo a vivere, e non per una nostra scelta! Sembra che la morte aleggi intorno a noi e la paura che essa comporta faccia sentire il suo fiato nauseabondo sul nostro collo. Oggi, Domenica delle Palme, commemoriamo la passione del nostro Signore Gesù, il Maestro che ha dato e dà la vita per noi. La Vita, quella vita che ci è diventata così precaria e della cui fragilità forse, non ci eravamo accorti prima. Ci era sembrato di possederla quella Vita, di esserne i padroni, forti, sprezzanti e forse senza pietà per i più deboli. Ora ci ritroviamo tutti quanti terribilmente deboli dentro la stessa medesima barca, a lottare per non affondare, a remare contro le onde che vorrebbero travolgere la barca della nostra vita, facendoci perire miseramente e costretti a condividere lo stesso destino, quel destino che miopi ci eravamo illusi di poter costruire diverso per ciascuno e possibilmente per noi e a noi più amico! Ora quella vita che rincorrevamo e che ci rincorreva senza poterla gustare e assaporare appieno, sembra essersi inceppata, bloccata, facendoci rinchiudere tutti nelle nostre case, asserragliati e timorosi gli uni degli altri, sospettosi per potenziali contagi e quindi maggior diffusione della malattia, causata da un’invisibile nemico che è il CORONAVIRUS. Ci stiamo preparando a celebrare la santa Pasqua che per antonomasia per noi cristiani è la festa per eccellenza della gioia, della Vita che si rinnova e che ha la meglio sulla morte, la nostra morte. La Morte! Gesù ha un modo tutto suo per parlarci della morte. Gesù è il solo, l’unico che parla di una vittoria sulla morte e sul male, ogni male. Gesù è il solo che non subisce la morte, ma “si consegna volontariamente” ad essa con autorità, manifestando una forza e un potere inauditi che nessun uomo poteva manifestare né avere. Gesù ci dice che nessuno gli “toglie” la vita, ma la dà spontaneamente “per poi riprenderla di nuovo”! Quanti filosofi, maestri e sapienti abbiamo avuto, ma nessuno di essi è stato capace di salvarci, di garantirci e darci la Vita. Gesù parla della sua morte come un… “passaggio da questo mondo”: il mondo del male e del peccato, dell’egoismo e dell’avarizia, dell’orgoglio sfrenato e del delirio di onnipotenza…, al “Mondo del Padre”; mondo di pace, di gioia, di luce, Regno della vera Vita, dove ci verrà manifestata e condivisa la Gloria stessa di un Dio che ha scelto di farsi, lui infinitamente potente, infinitamente debole fino alla morte di Croce, a noi poveri uomini deboli, fragili, impauriti e messi in ginocchio da un invisibile, microscopico VIRUS. Anzi, Gesù ci promette di darci la Vita e di darcela in…abbondanza, senza fine! E lì su quella misteriosa ed immobile, inquietante e silente Croce che oggi ci viene offerta perché la guardiamo con fede viva, Gesù il Maestro, il Signore dei signori, il nostro Re che nel suo corpo trattiene e sconfigge la nostra morte. Come gli Ebrei nel deserto, vengono invitati a guardare il serpente di rame innalzato da Mosè sull’asta di legno, per essere salvati dai morsi letali dei serpenti usciti dalle sabbie del deserto, oggi siamo invitati anche noi a guardare con fiducia e speranza quella Croce sulla quale è stato innalzato il Figlio di Dio. Anche noi, morsi dal letale coronavirus e pieni di paura, siamo invitati a guardare con ferma fiducia al Cristo innalzato sulla Croce. Più volte Gesù ci invita e ci raccomanda: “non abbiate paura…”. Sta qui tutta la nostra forza! E’ Gesù che ci chiede di “arrenderci” all’Amore di Dio manifestato in Lui crocifisso e risorto. E’ in questo abbandono leale, sincero, senza fingimenti a Cristo Crocifisso che manifestiamo la nostra fede, la sola capace di sconfiggere la morte e la paura di essa e di farci ritrovare la pace. E’ in questa apparente debolezza del Crocifisso che sta la nostra vittoria su ogni male, perché la sua “debolezza” è più forte della nostra forza che l’attuale situazione manifesta e mette ampiamente allo scoperto nella sua fragilità ed inconsistenza. Guardiamo a cosa si sono ridotte le nostre civiltà a causa di una pandemia che atterrisce tutti. Piazze vuote e senza vita, chiese, scuole ed uffici chiusi, case e famiglie asserragliate dalla paura del contagio, non più contatti affettuosi, abbracci, baci, carezze e strette di mano. Sembra che la morte regni sovrana e che le nostre speranze, i nostri programmi e progetti siano finiti per sempre. No! Certamente si riprenderà, ci riprenderemo. Magari gradualmente, lentamente ma ci riprenderemo. Coraggio: chiusi nei nostri tanti egoismi siamo perduti, uniti e aperti al fratello certamente ne usciremo vincitori, come i tanti medici e operatori sanitari ci stanno insegnando con il loro sacrificio e dedizione all’ammalato anche a costo della loro stessa vita. Il loro agire, oggi ci invia il messaggio potente e salvante della Croce del Signore Gesù. “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per il proprio fratello”. Qui non può esserci alcuna paura ma semmai un ritrovato senso del vivere, nel servizio e nella donazione, nel portare gli uni i pesi degli altri, nella condivisione e nella ricerca dell’essenziale, di ciò che veramente conta. Solo questo può darci gioia, la gioia pasquale che il Signore Gesù, nonostante tutto ci assicura. Solo l’Amore alla fine ne uscirà vincitore! Uno slogan di questi giorni e che circola ogni momento recita : “Insieme ce la faremo”, “insieme” si, ma non da soli. Insieme a Gesù che dà la sua Vita, perché noi possiamo avere la Vita, si, ce la faremo! Coraggio. Vi voglio tutti bene!
Anche per questo numero siamo riusciti a pubblicare nonostante il #COVID19 - MARZO 2020
CATONA – Perla calabrese nel “Dantedì” - 25 marzo 2020
Il governo italiano ha istituito il “Dantedì”, ossia una manifestazione nazionale per celebrare Dante Alighieri nella giornata del 25 marzo, dopo che gli studiosi dantisti hanno individuato tale giorno come data di inizio del viaggio ultraterreno del poeta attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.
Qui vogliamo ricordare che nella “Divina Commedia” compaiono soltanto due toponimi calabresi, ossia il nome di Cosenza (Purgatorio, canto III, verso 124)e quello di Catona (Paradiso, canto VIII, verso 62). In verità nel canto III del Purgatorio le parole pronunciate da Manfredi, re della dinastia sveva (“Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia / di me fu messo per Clemente allora..”) non alludono ad un “topos”, ad una località denominata Cosenza, ma ad un uomo, a un prelato, un “pastore” che nella sua carriera ecclesiastica fu anche arcivescovo della città bruzia. Quasi tutti i dantisti ritengono che ’l pastor di Cosenzafosse Bartolomeo Pignatelli, un alto prelato che fino al 1254 era stato arcivescovo di Amalfi, poi dal 1254 al 1266 fu arcivescovo di Cosenza, e in ultimo dal 1266 alla morte (1272) fu arcivescovo di Messina. L’arcivescovo Pignatelli, appartenente ad una nobile famiglia napoletana, acerrima nemica della dinastia sveva, fu istigato da papa Clemente IV a perseguitare Manfredi sia da vivo, sia da morto, così da indurlo a reperire e a profanare le ossa del corpo di Manfredi, che era stato nascosto e sepolto sotto un mucchio di pietre vicino a un ponte di Benevento, presso il luogo dove lo stesso Manfredi era stato sconfitto ed ucciso dalle truppe di Carlo I d’Angiò, incoronato re di Napoli proprio dal suddetto papa Clemente. Pertanto “Cosenza” nel III canto del Purgatorio fu menzionata non come città calabrese ma come “titolo” ecclesiastico, come uno dei vari “incarichi” vescovili conferiti al prelato Bartolomeo Pignatelli, amico del papa regnante e fiero nemico della dinastia sveva.
Assai differente è invece la citazione di Catona fatta nell’ottavo canto del Paradiso. In questo canto Dante fa parlare un altro giovane re; si tratta di Carlo Martello d’Angiò (1271-1295), figlio di Carlo II d’Angiò e di Maria d’Ungheria, nonché nipote di Carlo I d’Angiò, poc’anzi ricordato insieme a papa Clemente IV. Qui di seguito riportiamo le tre terzine che vanno dal verso 58 al verso 66 dell’VIII canto del Paradiso, sottolineando in particolare i versi che riguardano Catona e il territorio del Regno di Napoli al tempo dei primi re della Casa d’Angiò (1265-1282):
58) Quella sinistra riva che si lava di Rodano poi ch’è misto con Sorga per suo segnore a tempo m’aspettava
61) e quel corno d’Ausonia che s’imborga di Bari e di Gaeta e di Catona, da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
64) Fulgeami già in fronte la corona di quella terra che ’l Danubio riga poi che le ripe tedesche abbandona.
Le parole che Carlo Martello rivolge a Dante descrivono, con alcune suggestive perifrasi e senza mai pronunciare la loro denominazione geografica, i vari territori di cui lo stesso re angioino era divenuto sovrano, prima di morire giovanissimo all’età di soli 24 anni. Per prima presenta la Provenza, descritta come terra che si estende sulla riva sinistra del Rodano, dopo che in esso versa le acque l’affluente Sorga; la seconda perifrasi concerneil regno di Napoli, esclusa la Sicilia; in ultimo ricorda il regno d’Ungheria (“quella terra che ’l Danubio riga”) la cui corona gli era stata data nel 1292, quando Carlo Martello aveva appena 21 anni. Soffermandoci sulla seconda terzina spieghiamo che corno d’Ausonia sta ad indicare la parte continentale del regno di Napoli, che Dante raffigura come un triangolo avente i vertici a Bari (a nordest sul mare Adriatico), a Gaeta (a nordovest sul Tirreno) e a Catona(a sud sullo stretto di Messina). La voce verbale s’imborga,usata da Dante nel verso 61), deriva dal vocabolo tedesco Burgche in italiano significa “roccaforte”, “castello fortificato”.In verità nel Medio Evo tre capisaldi difensivi, tre punte fortificate del Regno di Napoli erano proprio Bari, Gaeta e Catona. Un lato di quel triangolo geografico era costituito dalla linea che collega il fiume Tronto (che sgorga nell’Adriatico) con il fiume, anticamente denominato Verde, ed oggi noto come Liri o Garigliano (che sgorga nel Tirreno); Catona,in questa raffigurazione geometrica, risulta essere il vertice opposto al suddetto lato che unisce i fiumi Tronto e Verde.
Oggi ci si potrebbe meravigliare del fatto che Dante abbia menzionato una località piccola come Catona, anziché la più grande, e molto più antica, città di Reggio, colonia fondata dai greci-calcidesi, fiorente fin dal periodo magnogreco, ed unica località calabrese menzionata nella Bibbia, perché vi sostò brevemente l’apostolo Paolo di Tarso (Atti degli Apostoli, 28 – 13). Certamente, al tempo di Dante, Reggio era una città popolosa, un importante centro amministrativo, civile e religioso, con varie attività commerciali e artigianali, ma essendo ubicata di fronte a Messina ad una distanza quasi tripla rispetto alla minima che intercorre tra le due rive dello Stretto, non era una comoda base portuale per i traffici di merci trasportate da barconi che ogni giorno facevano la spola tra la sponda calabrese e quella siciliana; neppure era munita di rilevanti fortificazioni difensive. Viceversa la piccola Catona, al tempo di Dante, era abbastanza nota, sia come baluardo per la difesa del Regno di Napoli quasi alla punta dello Stivale, sia come punto di imbarco per la Sicilia. L’imperatore Federico II di Svevia aveva fatto edificare sulle vicine alture di Concessa, sovrastanti l’abitato di Catona, un imponente castello -di cui tuttora rimangono le rovine-a protezione della marina di Catona e delle connesse attività di pesca e di traffici marittimi con la Sicilia; molto probabilmente sulla spiaggia di Catona sorgeva anche qualche torre di guardia e di avvistamento. D’altronde Dante Alighieri, sfogliando le pagine dellaCronica di Matteo Villani, poteva avervi letto che, qualche tempo dopo larivolta dei siciliani contro gli Angioini, i cosiddetti Vespri Siciliani (1282), Catona e le marine limitrofe erano stati i luoghi di raccolta della armata radunata da re Carlo I d’Angiò con l’intento di riconquistarela Sicilia e riunirla al Regno di Napoli.
Le cronache più realistiche affermano che a Catona e dintorni si radunarono almeno 5.000 soldati angioini ed altri loro alleati, tra cui circa 500 fiorentini di parte guelfa; e proprio per la cospicua presenza di questi armati fiorentini, al loroconcittadino Dante non sarà sfuggito il nome di Catona, come luogo d’imbarco delle truppe che a più riprese salparono da lì per riconquistare la Sicilia. Ma tutti i tentativi di recuperare la Sicilia alla dinastia angioina fallirono, sicché l’isola rimase sotto il dominio dei re d’Aragona.
In virtù della sua ubicazione vantaggiosa sulla sponda calabrese dello Stretto di Messina, Catona per molti secoli continuò ad essere uno dei più frequentati punti di attracco dei barconi e degli scafi a vela che facevano la spola tra Calabria e Sicilia. Ma alla fine dell’Ottocento con l’apertura di linee ferroviarie sulle coste calabresi e siciliane, ma soprattutto con l’entrata in funzione di traghetti a vapore sulle tratte Reggio Calabria-Messina e Messina-Villa San Giovanni, cessarono per sempre i traffici di piccolo cabotaggio con base a Catona. La decadenza di Catona s’aggravò ulteriormente dopo il tragico terremoto-maremoto di Messina del 28 dicembre 1908, e nel 1927 quando cessò d’essere Comune autonomo e fu aggregata come frazione alla “Grande Reggio”.
CATONA E SAN FRANCESCO DA PAOLA
Il nome di Catona, oltre che al sommo Dante Alighieri, è legato anche ad un altro grande italiano, un santo non solo calabrese ma della Chiesa universale, San Francesco da Paola. Tutti i suoi devoti conoscono la sua miracolosa traversata dello Stretto, compiuta usando il mantello come vela ed il bastone come albero di navicella; ma solo i devoti più eruditi sanno che il Taumaturgo Paolano salpò proprio dalla spiaggia di Catona per approdare a Messina. Avendo conosciuto e più volte visitato questo ridente paese dello Stretto di Messina, perché attratti dalla splendida figura del Santo Patrono della Calabria, nonché Patrono della Gente di Mare italiana, vogliamo salutare e ringraziare alcune persone, che abbiamo avuto il piacere di conoscere o incontrare proprio a Catona, sede di un Convento di Minimi e dell’adiacente Santuario di San Francesco da Paola, e preziosa perla calabrese del “Dantedì” – 25 marzo 2020.
Per primo ringraziamo il carissimo amico catonese, Comm. Ammiraglio Francesco CIPRIOTI, Medaglia d’oro Mauriziana, Alto Ufficiale del Corpo delle Capitanerie di Porto, devotissimo a San Francesco da Paola. Quindi salutiamo i Padri Minimi che negli ultimi 15 anni hanno svolto il loro servizio pastorale come Parroci della chiesa Santuario di Catona, elencandoli in ordine cronologico: P. Casimiro MAIO, P. Giovanni COZZOLINO, P. Giovanni TOLARO, P. Antonio CASCIARO. Non dimentichiamo il gentil sesso; perciò ricordiamo con simpatia la Preside Prof.ssa Giuseppina BARRESI, solerte collaboratrice dei PP. Minimi nelle varie attività promosse dal Santuario di Catona e che sempre ci ha accolto con garbo e squisita gentilezza; un affettuoso saluto alla giovane signorina Manuela ZADARA, anche perché negli ultimi anni è stata una preziosa e premurosa guida per il nostro amico Ciprioti, è stata un attento pilota della sua autovettura, quasi una novella “Beatrice” che ha aiutato il caro Ammiraglio a superare gli impedimenti derivanti dai suoi arti inferiori, resi purtroppo incerti nei movimenti e malfermi, a causadi malanni e malattie. VINCENZO DAVOLI
L'Amministrazione Comunale, ancora una volta, per il bene comune e la salvaguardia della salute pubblica, invita tutta la cittadinanza di evitare di uscire dalle proprie residenze e soprattutto dal territorio comunale. Vi ricorda che per i beni di prima necessità, per non incorrere in sanzioni penali, sono aperti al pubblico i gestori di Località Stazione, Località Molino, Località Convento, Località Frà Giuseppe, Piazza Solari, Corso Mannacio e Corso Servelli.
Pertanto:
1) Farmacia, Corso Servelli;
2) Tabacchi, Corso Servelli, Piazza Solari, Loc. Molino, Loc. Stazione;
3) alimentari, Piazza Solari, Loc. Convento, Loc. Molino, Loc. Stazione, Loc. Frà Giuseppe;
4) panetteria, Corso Servelli;
5) macelleria, Corso Servelli;
6) pescheria, Corso Mannacio.
Attenetevi scrupolosamente ai D.P.C.M. alle Ordinanze Regionali e Sindacali.
Con l'auspicio di un presto ritorno alla normalità.
L' amministrazione Comunale.
Ad integrazione del precedente comunicato, l'Amministrazione Comunale informa che, oltre alle attività locali già menzionate, prodotti igienizzanti per la persona e per la casa possono essere reperiti anche nelle attività site in Viale del Drago, Corso Servelli e Corso Mannaccio.
Si ringrazia ancora per la collaborazione.
INIZIATIVA LODEVOLE DELLA SIGNORA CARMELA TORCHIA IN ANELLO
La sig.ra Carmela TORCHIA, mamma del vice sindaco di Francavilla Angitola, geom. Domenico ANELLO, che per tanti anni è stata abile e solerte maestra di taglio e cucito nel territorio francavillese, essendo donna, madre e nonna, moltosensibile all’emergenza provocata dal coronavirus COVID 19 , considerata la grande difficoltà a reperire nella nostra zona delle mascherine, ha deciso di mettere la sua esperienza sartoriale a disposizione della nostra comunità; così prontamente ha realizzato 60 mascherine artigianali in tessuto, da donare a titolo gratuito alle famiglie che ne fossero ancora sprovviste. Parte delle mascherine sano state donate oggi stesso, 20 marzo 2020, alle forze dell’ordine del territorio di Francavilla Angitola e Filadelfia,ai dipendenti del Comune di Francavilla Angitola; la rimanenza è stata consegnata alla Farmacia del dottor Raffaele Costa di Francavilla, che le distribuirà gratuitamente a chi ne avesse bisogno.
Le mascherine sono fatte in doppio strato di tessuto ed è possibile igienizzarle lavandole per un successivo riutilizzo.Hanno un’apertura superiore tra i due lembi di tessuto, così da poter inserire un panno filtrante oppure si consiglia di utilizzare la carta da forno.
Si precisa che si tratta di mascherine artigianali; non sono un presidio medico-sanitario, non hanno il marchio CE, ffp2, ffp3. Un grazie va alla sig.ra Fernanda MULTARI di Filadelfia, che ha donato il tessuto necessario alla realizzazione delle suddette mascherine.
AVVISO #CORONAVIRUS
Chiarimenti dall’Ufficio di Polizia Municipale:
Le Forze dell’Ordine danno un chiarimento sulle autocertificazioni e spiegano perchè stamattina sono già partite le prime denunce.
Non è che se uno compila l’autocertificazione può andare dove vuole.
Bisogna stare a casa!
Ci si può spostare solo per:
- lavoro
- necessità
- salute
Al momento del controllo vi fanno dichiarare e firmare perchè vi state spostando.
Fatto questo la pattuglia verifica (es. chiamando in azienda, chiamando il vostro medico, etc… in base a quello che dichiarate).
Se scoprono che quello che avete dichiarato non è vero, vi beccate due denunce:
una per la violazione dell’ordinanza di salute pubblica coronavirus (art. 650 C.P.) e l’altra per dichiarazioni mendaci (art. 495 C.P.).
Fare la spesa solo nel proprio comune e per articoli di prima necessità! Fare la spesa, non fare shopping! Una persona per famiglia .
Se siete in 3 in macchina e state andando a fare la spesa, denuncia .
Max numero di persone in macchina 2, il guidatore e 1 passeggero posteriore.
“Anche chi va a piedi deve portare l’autocertificazione” .
Lo afferma il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, in conferenza stampa sull’emergenza coronavirus.
CONSEGUENZE:
art.650 codice penale (arresto fino a 3 mesi o ammenda fino a € 206,00);
art.495 codice penale (reclusione da 1 a 6 anni)
Per favore condividetela #poliziamunicipale#iorestoacasa#insiemecelafaremo
DAL SINDACO DI FRANCAVILLA ANGITOLA - RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
DAL SINDACO DI FRANCAVILLA ANGITOLA - RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
DAL SINDACO DI FRANCAVILLA ANGITOLA - RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
FESTA DI SAN FOCA A FRANCAVILLA ANGITOLA –5 MARZO 2020
Si è svolta la festa del Santo Patrono di Francavilla, alle ore 10.30 l’arciprete Don Giovanni Battista TOZZO ha officiato la messa solenne, Anche quest’anno grande successo ha riportato l'offerta dei tradizionali dolci in onore del Santo Patrono a forma di serpi. La banda musicale di Filadelfia ha allietato la festa percorrendo le vie del paese. Alle ore 11,30 ha avuto inizio la lunga processione. Dietro alla statua del Santo e al gonfalone comunale, recato da Gianfranco Schiavone . procedeva l’Amministrazione guidata dall’ avv. Giuseppe PIZZONIA. La processione si è conclusa sul sagrato della chiesa parrocchiale dove i fedeli hanno intonato la tradizionale litania. LA STORIA di san foca martire San Foca, come voi ben sapete, é nato ad Antiochia ed è vissuto in un'epoca in cui essere cristiano significava mettere a repentaglio la propria esistenza. Foca, attraverso la preghiera, la meditazione e la carità vissuta, divenne imitatore di Gesù Cristo; quindi, per appartenere completamente a lui, volle essere battezzato, e, da allora, la sua vita cambiò radicalmente. A Sinòpe, lasciate le armi, polche era soldato, si dedicò alla coltivazione di un orticello, e a sfamare i viandanti che si trovavano a passare dalla sua modesta casa. E' stata appunto l'inestimabile carità verso il povero, il misero, l'affamato,a far sospettare ch'egli fosse cristiano, e come tale fu accusato e deciso di privarlo della vita, poiché il cristiano, in quel periodo, era considerato nemico della patria. Persino i soldati che avrebbero dovuto ucciderlo, rimasero stupiti, scossi dall'affabilità con cui vennero accolti da quell'uomo semplice e pio. Ecco come si svolsero i fatti: alcuni soldati si sono trovati a passare dall'orto di Foca, che, affabilmente, li invitò a sfamarsi e a dissetarsi. Dopo di ché, chiese agli ospiti il motivo del loro faticoso cammino. Essi risposero: “ Te lo diremo, se ci prometti di mantenere il segreto”. Foca promise, ed essi: “Siamo in cerca di un certo Foca per metterlo a morte, ma non lo conosciamo; se tu puoi aiutarci, ci renderai un grande favore”. Foca rispose: “Quest'uomo mi è noto abbastanza e vi prometto di consegnarvelo, ma domani, perché adesso è notte; vi piaccia quindi riposare delle sostenute fatiche “. Mentre i soldati riposavano, Foca preparava la sua anima, disponendosi alla morte. L'indomani, di buon mattino, si fece incontro agli ospiti, e, sereno, quasi sorridendo, disse loro: “Sono io l'uomo che cercate! Prendetemi, Fate di me quello che volete”. 1 soldati, pieni di stupore ed increduli, non ebbero il coraggio di eseguire la sentenza di morte. Foca li supplicava di compiere il loro dovere, aggiungendo che lui era sereno e gioioso, e non aveva paura. E i soldati, invece di ucciderlo, lo portarono ad Antiochia, sperando che i loro capi lo avrebbero risparmiato dalla morte. Informarono il proconsole Africano, il quale, grandemente meravigliato del loro racconto, affermò di volerlo conoscere ed interrogarlo personalmente. 1 soldati, prontamente, lo condussero al suo cospetto. Il giudice disse a Foca: Chi sei tu, che non riconosci come Dio il nostro imperatore Traiano? A1 silenzio di Foca, che in quel momento imitava il silenzio di Gesù dinnanzi al sommo sacerdote Calfa, il giudice esclamò: Perché taci? E Foca: Non basta a Traiano essere chiamato imperatore, senza avere l'attributo di Dio? 1 supplizi poi, che tu mi minacci, sono da me desiderati e sono contento se tu comandi di eseguirli. La cosa più importante, il tesoro più grande, per Foca, era l'amore di Dio, fare la volontà di Dio. Durante l'interrogatorio, improvvisamente, una luce celeste irradiò in quel punto dove essi si trovavano, e, vestiti di fiamme vampeggianti, apparvero tre angeli, per cui Africano, esterrefatto, cadde a terra privo di sensi. Sua moglie, Terenziana, supplicò Foca d'intervenire, promettendo che, se il marito fosse tornato in vita, si sarebbe convertita al cristianesimo. Foca pregò con gran fervore; Africano tornò in vita, ma invece di liberarlo lo fece condurre da Traiano. Qui, stesse accuse, stessa incrollabile fede di Foca, che, essendosi affidato a Dio, sente dall'alto una voce: “Sii forte, o Foca, io sono con te; avrai un posto in Paradiso". E così, nel 107, dopo essere stato gettato in una fossa di serpenti velenosi, ed esserne uscito incolume, è stato decapitato. Nel corso dei secoli, a Francavilla e altrove, è stato invocato, supplicato; molte anime si sono consacrate a lui, portandone il nome, diffondendo il suo fulgido esempio di vita cristiana. Molti sono venuti dal paese, dalle campagne, addirittura dall'estero, in questa magnifica chiesa a lui dedicata. Si sono presentati al cospetto del santo Patrono con le lacrime agli occhi, i ginocchi flessi e lacerati, i piedi scalzi. Quante mamme hanno portato in braccio il proprio bimbo ammalato e, fiduciose, l'hanno offerto a san Foca! Quanti voti, promesse e sacrifici! Che magnifica fede! Quanto orgoglio, nel definirsi devoti a san Foca: da lui protetti, da lui presentati all'eterno Padre! Oggi siamo qui, per dirgli: grazie per il tuo esempio; grazie per la tua protezione contro le insidie del male; grazie per il tuo sostegno e le tue preghiere.
Si aprirà il 12 marzo il “Città di Catona – Memorial Alfonso Ciprioti”.
Il torneo nazionale di tennis di terza categoria maschile è giunto alla quattordicesima edizione e sarà, come sempre, ospitato dallo Sport Village che organizza l’evento dal 2007 per ricordare la figura dell’ex consigliere comunale e provinciale, socio del circollo. Il “Città di Catona”, patrocinato dalla Federazione Nazionale Tennis, è divenuto negli anni un classico del tennis che raccoglie numerosissime adesioni sia dalla Calabria che dalla vicina Sicilia: atleti che si sfideranno per dieci giorni sui tre campi in terra rossa della struttura polivalente a nord di Reggio.
A sottolineare le caratteristiche della manifestazione Francesco Postorino del Palextra Club, deus ex machina del torneo, e Francesco Violante presidente dello Sport Village. «Si tratta – spiegano – di un appuntamento sportivo che nel tempo ha conquistato sempre più iscritti, tanto da permetterci di calendarizzarlo, con profonda convinzione, tra gli eventi previsti dal nostro circolo per l’arrivo della primavera tennistica. Tantissimi, infatti, sono gli atleti che hanno voluto presenziare al memorial Ciprioti in questi 14 anni, rendendoci orgogliosi sia del torneo sia del fatto che esso sia cresciuto a tal punto da essere ben conosciuto ed atteso nell’ambito tennistico calabrese, soprattutto dalle nuove leve. Ciò – concludono – è stato possibile grazie allo sforzo dello staff organizzativo capitanato da Marco Bonforte che sta lavorando alacremente per l’ottima riuscita del Città di Catona la cui conclusione è prevista il 22 marzo».
Il Club Vallelonga – Monserrato valorizza i borghi e l’emigrazione Calabrese
L’identità e la memoria storica, la valorizzazione dei borghi attraverso interventi mirati all’estero che posso contribuire alla crescita della Calabria e in particolare alla Valle dell’Angitola. È questo l’obiettivo del Club Vallelonga – Monserrato di Toronto, che nella giornata di venerdì presso la sede Canadese presenterà il progetto finanziato dalla Regione Calabria con i fondi previsti per l’ex Legge 8/2008. All’iniziativa oltre al presidente Antonio Pileggi, parteciperanno anche i deputati Calabresi del Canada Judy Sgrò e Francesco Sorbara a sostegno del ministro per l’Immigrazione Marco Mendicino, nonché le docenti dell’Università di Toronto Mississagua dipartimento di lingua Italiana Teresa Lobalsamo e Adriana Grimaldi. Dalla Calabria arriveranno il professor Giuseppe Cinquegrana, antropologo e studioso dell’emigrazione, l’esperto ed editore della rivista storica e antropologica “La Barcunata” Bruno Congiustì, il regista Davide Manganaro e il direttore della web tv dei Calabresi nel mondo Nicola Pirone. Il progetto che vedrà il coinvolgimento degli atenei, quindi rivolto ai giovani, si svolgerà tra Toronto, Philadelphia e Cuba. Per l’occasione il Club Vallelonga – Monserrato ha fatto di più, poiché oltre alle conferenze all’interno delle università e scuole, ha ideato una serie d’incontri con tour operator e imprenditori esteri, per fare conoscere le bellezze della Regione ed accrescere il turismo. Tra gli incontri, particolarmente attenzione sarà rivolto a quello di Philadelphia con il Console Generale d’Italia Pier Forlano, la Filitalia International e il Console onorario di Santo Domingo Enzo Odoguardi che sarà accompagnato da diversi imprenditori italo-americani. Ai partecipanti saranno consegnati materiale informativo cartaceo e audio visivo. Per quanto riguarda l’emigrazione sono già partiti i colloqui con le strutture che si occupano del tema nei tre paesi, mentre grazie alla collaborazione con il nascente museo di San Nicola da Crissa sono stati siglati i primi accordi per lo scambio culturale, che permetterà la presenza sul territorio calabrese di visitatori. Oltre alla Valle dell’Angitola, un paragrafo del progetto sarà riservato alla Valle del Torbido nella provincia di Reggio Calabria.
Le dichiarazioni del presidente Antonio Pileggi:“L’obiettivo principale è di promuovere la Calabria partendo dalla cultura dell’emigrazione, dando valore ai borghi e allo stesso tempo ai calabresi emigrati, che sono il primo veicolo pubblicitario per un ritorno o una visita nella propria terra. Attraverso le storie inedite raccontate con immagini e documenti si intende valorizzare dei borghi ancora sconosciuti al mondo, ma che sono ricchi di tesori. In questo senso è aperto a un pubblico giovane, da qui il coinvolgimento delle università e dei settori d’interesse. Favorire il collegamento tra i musei dell’emigrazione che si trovano nei tre paesi e in Calabria. Il progetto ha come innovazione il raggiungimento di un pubblico giovane quale le università e che non sia particolarmente legato alla Calabria, quali discendenti o emigrati. Allo stesso tempo metterà in condizione i tour operator stranieri di potere conoscere una parte dell’Europa Meridionale ancora oggi assente dai propri itinerari o non valorizzata”.
CARNEVALE FRANCAVILLESE : UN SUCCESSO Un pomeriggio di svago e di divertimento Domenica 23 febbraio 2020
«Un successo oltre le aspettative, frutto della collaborazione messa in campo dall’Amministrazione comunale guidata dal Sindaco avv. Giuseppe Pizzonia. C’è aria di soddisfazione nella sede del palazzo municipale di Piazza Solari per il “Carnevale francavillese ”, concretizzatosi con il raduno delle maschere e dei carri al Viale del Drago, con la sfilata lungo le vie del paese e la tappa finale in piazza S. M. Degli Angeli. Un pomeriggio di svago e di sano e puro divertimento per le tantissime persone adulti e bambini Un «motivo d’orgoglio», insomma, per l’Amministrazione di Francavilla Angitola . Una domenica molto speciale, all’insegna del divertimento, della libertà di espressione e dell’allegria, senza nessun limite di età.
CONSULTA ASSOCIAZIONI VALLE DELL’ANGITOLA Segnaletica del patrimonio nella Valle dell’Angitola
La neo costituita Consulta delle associazioni Valle dell’Angitola con sede a Monterosso Calabro e che vede raggruppati i sodalizi culturali di 9 comuni, comincia a portare a casa i primi risultati. Dopo il convegno dello scorso mese di Agosto sulle infrastrutture Borboniche organizzato nel centro Angitolano, oggi un altro tassello sta per essere inserito al mosaico per la promozione del territorio. Negli uffici del Parco Regionale delle Serre, il presidente Antonio Parisi e il vice Bruno Congiustì hanno presentato al Commissario Pino Pellegrino un progetto per segnalare i beni patrimoniali e gli itinerari turistici attraverso una cartellonistica che riguarderà i 9 comuni che fanno parte del comprensorio. Un’idea che il Commissario dell’ente parco delle Serre ha sposato fin da subito, da quando in occasione del convegno di Agosto era stata proposta. Il Parco delle Serre si assumerà l’onere della stampa e della messa in opera, con 5 cartelli madre che racconteranno la Valle dell’Angitola e suoi tesori, posti in punti strategici come le usciti autostradali e le vie di accesso alla valle. Pannello descrittivo che comparirà in doppia lingua, italiano e inglese, mentre alle varie diramazioni stradali saranno istallati i 9 itinerari turistici, di vario interesse. Si partirà con l’itinerario naturalistico di Polia per visitare gli antichi mulini ad acqua e la felce preistorica Woodwardia radicans. L’itinerario di Bizantino – Medievale di Francavilla Angitola sarà da apripista per quello illuministico e archeologico di Filadelfia – Castelmonardo. Lungo l’ex SS110 già via Regia si incontreranno gli itinerari Borbonico con il Santuario di Mater Domini e Il Balcone delle Calabrie di San Nicola da Crissa, il Faunistico - archeologico con l’oasi dell’Angitola, i ruderi di Rocca Angitola e la Piana degli Scrisi per Maierato, il polo museale di Monterosso Calabro, lo Storico – Artistico con Nicastrello e gli affreschi di Renoir a Capistrano e quello Religioso – Paesaggistico di Vallelonga con i quadri di Andrea Cefali e la Basilica Minore di Monserrato, per chiudere con l’itinerario Basiliano e la macchia Mediterranea del bosco Fellà di Filogaso. Consulta delle associazioni Valle dell’Angitola che sabato si ritroverà a San Nicola da Crissa ospite della Filitalia International, uno dei sodalizi che per prima ha lanciato l’idea unitaria per salvaguardare il territorio.
Soddisfatto al termine dell’incontro il presidente della Consulta delle associazioni Valle dell’Angitola Antonio Parisi:<<L’incontro con il Commissario Pino Pellegrino è stato molto produttivo quanto entusiasmante. Le nostre idee sono state ascoltate e spero che da oggi in poi si comincerà a pensare in maniera positiva in questo territorio. I panelli e le indicazioni faranno capire che anche nell’entroterra esistono dei beni culturali che vanno valorizzati. Insieme alle associazioni che hanno preso parte a questa sfida, stiamo stilando un programma che avrà molta visibilità anche all’estero sfruttando le nostre piattaforme. Ringrazio quanti hanno lavorato a questo progetto e ci hanno messo passione come il Commissario Pellegrino che fin da subito ha creduto nell’iniziativa>>.
Nicola Pirone
Sono passati QUINDICI anni dalla fondazione del più importante sito di cultura che abbia avuto Francavilla, ha saputo far conoscere e diffondere le tradizioni religiose e laiche suscitando ammirazione e consensi anche al di fuori dell'ambito paesano. Vero scrigno delle memorie storiche del nostro paese.
CARNEVALE FRANCAVILLESE 2020
II Carnevale è tempo di baldoria, di divertimento, di spensierata allegria. E' per questo che, l’Amministrazione comunale di Francavilla Angitola, guidata dal Sindaco avv. Giuseppe Pizzonia a organizzato per giorno 23, ore 15,00, una SFILATA SU CARRI ALLEGORICI, CON BALLI IN MASCHERA per le vie del paese, Una domenica molto speciale, all’insegna del divertimento, della libertà di espressione, senza nessun limite di età.
AntonioLazzaro Presidente del Consiglio Pizzoniavara il rimpasto Michele Caruso nuovo assessore allo Sport e alle Politiche giovanili
Sorta di “mini-rimpasto” in seno alla maggioranza consiliare che sostiene il sindaco Giuseppe Pizzonia. Ciò per cause di forza maggiore. Pochi giorni fa, infatti, si è svolto il primo consiglio comunale francavillese del 2020. Il primo dopo l’improvvisa scomparsa dell’assessore comunale alla Cultura Armando Torchia. Un consiglio comunale carico di vera commozione, alla vista di quel posto, ormai vuoto, dove era solito sedere proprio l’amministratore locale francavillese scomparso a dicembre. Tre i punti all’ordine del giorno. Ovvero “Surroga consigliere comunale”, “Sostituzione presidente consiglio e vice presidente” e “Ratifica delibera di giunta del 02/12/2019”. Detto ciò, prima che i lavori iniziassero, assente solamente l’ormai ex presidente del consiglio comunale francavillese Michele Caruso a causa di un imprevisto, è stato osservato un minuto di silenzio e ai posto dove sedeva solitamente Armando Torchia è stato deposto un mazzo di rose rosse. Il Sindaco Pizzonia ha ricordato l’impegno e lo spirito che ha contraddistinto il compianto Armando Torchia nella sua esperienza amministrativa. Per Anna Fruci, consigliera comunale di maggioranza con delega alle Pari opportunità, «è stato strano, insolito e triste andare nella sala consiliare e vedere quella sedia, che per molti è una semplice sedia, vuota. Nessuno di noi si aspettava di dover vivere una sensazione come questa. Quella sedia che tu occupavi, oggi era vuota. un bouquet di fiori rossi in modo che ti arrivi quell’affetto “esplosivo” che tutti noi proviamo tuttora per te. Ci manchi tanto prof. Senza di te nulla è più come prima, adesso che puoi, guidaci tu. Un bacio al cielo». Anche per Domenico Anello, vice sindaco, non è stato per nulla facile vedere quel posto in Consiglio vuoto, dove è stato adagiato quel mazzo di rose rosse, questo per il fatto che «il nostro territorio ha perso una persona speciale, cordiale e sincera che in questi 2 anni e mezzo ci ha insegnato tanto con i suoi modi pacati e ben voluto da tutti. Ricordo la bellissima giornata di due giorni prima della tragedia quando siamo stati insieme a pranzo nella tua scuola del cuore con i tuoi splendidi colleghi e amici che ti hanno voluto un grande bene. Grazie a te, ha aggiunto tante cose siamo riusciti a fare, sono sicuro che dove sei sicuramente sarai già il “numero uno” e il più ben voluto. Riposa in pace caro amico». A raccogliere il pesante testimone di Armando Torchia è stato proprio Michele Caruso, nominato nuovo assessore comunale allo Sport, Politiche giovanili e Sviluppo economico. A ricoprire la carica di presidente del consiglio comunale sarà, invece, Antonio Lazzaro (in sostituzione del dimissionario Caruso) che, in memoria dell’amministratore locale scomparso, ha voluto ricordare le sue doti e la voglia di fare bene per il proprio paese. Fra i banchi del civico consesso farà ingresso anche la “newentry” Rosario Giampà, ovvero, il primo dei non eletti, sempre nella lista di maggioranza. Infine, è stata ratificata la rateizzazione del pagamento inerente la spazzatura dell’anno precedente così per fare in modo che, a fine mandato, il bilancio comunale sia privo di debiti. FOTO - Il presidente Antonio Lazzaro e il neo assessore Michele Caruso
AUGURI DALL’ESTREMA AMERICA DEL SUD
Tra i consueti messaggi augurali, che ci si scambia all’arrivo dell’anno nuovo, uno è arrivato da molto lontano. Ce l’ha mandato dalla remota Patagonia (Argentina) - dove da poco tempo è iniziata la stagione estiva dell’emisfero australe - il dottor Mario Roccuzzo, valente odontoiatra e soprattutto mio caro nipote, in quanto figlio primogenito di mia sorella Carmen Davoli. Concedendosi una pausa dalla sua intensa attività dentistico-sanitaria svolta a Torino, Mario Roccuzzo con la moglie Silvia Ronchetti, docente/ricercatrice di Chimica e Tecnologia dei materiali al Politecnico di Torino, ha voluto visitare quella regione, sita agli antipodi dell’Italia (Patagonia e Terra del Fuoco), scoperta da Ferdinando Magellano, e meglio conosciuta grazie agli scritti sia dell’italiano Antonio Pigafetta (diarista della spedizione guidata dal suddetto navigatore portoghese). sia del britannico Bruce Chatwin.Mario e Silvia hanno inviato gli auguri di “Buon anno dal Perito Moreno”, corredandoli con una fotografia che li ritrae con i loro volti sorridenti avendo per fondale il grande, spettacolare ghiacciaio denominato “Perito Moreno”.
Consultando Wikipedia vi si apprende che il “Perito Moreno” fa parte dell’enorme calotta glaciale denominata in spagnolo “Los Glaciares” che per volume è la terza nel mondo tra le riserve di acqua dolce, superata soltanto dalla Groenlandia e prima ancora dall’Antartide.Il ghiacciaio “Perito Moreno”, con l’intero Parco nazionale argentino “Los Glaciares”, per la sua bellezza, per l’interesse glaciologico e geomorfologico, e per la fauna parzialmente in pericolo di estinzione, è stato dichiarato nel 1981 Patrimonio mondiale della Umanità da parte dell’UNESCO.
Il dottor Mario Roccuzzo, pur essendo nato ed operando a Torino, è profondamente legato in generale alla Calabria, terra di nascita di sua madre Carmen Davoli, e specialmente ai territori del Lametino e del Vibonese. Dopo essersi laureato in Odontoiatria all’Università di Torino, M. Roccuzzosubito ebbe modo di incontrare e conoscere il famoso professore Mario Giancotti (da Piscopio/Vibo Valentia), luminare delle discipline dentistiche. L’illustre dentista prof. Mario Giancotti manifestò il suo apprezzamento per l’ottima preparazione del giovane dottore, che si era brillantemente laureato con il primo corso di Odontoiatria istituito a Torino.
Per il nostro sito www.francavillaangitola.com è un motivo di orgoglio e di vanto essere seguiti e ricordati da personaggi così importanti, seppure estranei al piccolo mondo francavillese.
Vincenzo DAVOLI
Ma la cavalla di Francavilla parla ancora?
Vi ricordate della bellissima incredibile storia di Stellina, la cavallina “parlante” di Francavilla Angitola? Sono passati anni da quando siamo venuti a conoscenza di quei "fatti" strani, di quell’uomo con la barba che conversava con il suo cavallo, pensavamo allora si trattasse di qualche contadino intento a ricevere dal suo cavallo uno strano rapporto di "obbedienza" ai suoi comandi. Il "caso" di Francavilla Angitola fu poi successivamente affrontato dai media di mezzo mondo quando lo psicologo Vincenzo Viscone, dopo anni di serio silenzioso studio e sacrificante ricerca, decise di svelare i frutti del suo paziente lavoro facendo conoscere le sue esperienze scientifiche con una cavallina di nome Stellina. Toccò agli esperti etologi delle università internazionali studiare e approfondire tutto il resto. Non sappiamo se sia stata veramente abbattuta una barriera nelle comunicazioni tra uomo e animali. Certamente e oggettivamente non sappiamo ancora cosa significò quel "dialogo" che "vedevamo realizzarsi" tra uomo e animale e animale e uomo, e se tutto ciò abbia avuto un vero significato. Per anni Francavilla Angitola, centro del vibonese a pochi chilometri da Filadelfia, è stata meta continua di giornalisti, operatori di ripresa e fotografi delle agenzie, semplici curiosi e corrispondenti delle testate giornalistiche di tutto il mondo. Il Tg Uno, T3, T3 Regione, radiogiornali Rai, Rete 4, Radio Cuore, Radio Studio G, la prima pagina de Il Messaggero, Il Secolo XIX di Genova, Visto, La Gazzetta del Sud, il Domani, Il Giornale della Calabria, Il Quotidiano, Le Calabrie, Cronaca Vera, L'Artiglio, Rete Kalabria, Il Mattino di Napoli, Il Corriere di Milano, l'Agi, l'Ansa e grandi testate estere come il The Sunday Times, il Daily Mail di Londra, Le Matin della Svizzera, France Soir della Francia, si interessarono di Viscone, tutti chiesero di contattare Vincenzo e la sua cavalla "Stellina". Oggi la notizia ha già fatto il giro di tutto il mondo. Ma cerchiamo di ricordare l’incredibile storia nei dettagli: Vincenzo Viscone, oggi 53 anni, è uno psicologo nato a Filadelfia. Da anni è residente a Francavilla Angitola ed è proprio nelle campagne di Francavilla Angitola che il dottor Viscone ha scoperto una cosa sensazionale che porterebbe a clamorosi capovolgimenti della scienza dell'etologia. Vincenzo Viscone ha elaborato, durante i suoi lunghi studi, un linguaggio che utilizza il sistema binario e ha realizzato un codice di comunicazione di intermediazione specifica - con un cavallo. Il cavallo in questione è in realtà una cavalla e si chiama Stellina. Lo psicologo ci disse che durante alcune sue sperimentazioni si accorse che l'animale rispondeva ad alcuni stimoli verbali. "Le cose sono andate avanti molto lentamente - ci dice Viscone - all'inizio ho dovuto insegnare a Stellina tutti gli elementi che la circondavano nell'ambiente, come si fa con i bambini, con pazienza, tramite catene associate, ripetendo molte volte parole e concetti. Poi, solo dopo, ho utilizzato il codice binario, quello dei computer, e finalmente ho avuto risposte dal cavallo. E' stato questo il momento più bello dell'esperienza", ci racconta emozionato lo psicologo, "quando ho capito che le mie parole avevano un senso nel cervello di Stellina e quando attraverso risposte basate sul sì e sul no, sul positivo e sul negativo, sull'uno e sullo zero, ho visto che mi dava risposte logiche e che, cosa importantissima, non si contraddicevano mai e mai, chiedendo più volte in periodi diversi la stessa cosa, si avevano risposte diverse. Stellina dimostrava di rispondere in piena coscienza". Stellina per dire sì o no, successivamente alla domanda dello psicologo, e solo successivamente, indirizzava il muso alle mani del dottore Viscone e toccava con il muso il pugno chiuso per rispondere no o la mano aperta per rispondere sì. Oggi, da anni, quel cavallo non è più a Francavilla Angitola, si trova in un maneggio della vicina Maida, in provincia di Catanzaro. Il dottore Vincenzo Viscone, ha in questi anni tenuto, giorno per giorno, un diario che lui definisce "equidiario". In questo libro di viaggio nel mondo misterioso e sconosciuto della natura. Viscone ha appuntato minuziosamente tutte le esperienze, le prove, gli insuccessi e i successi delle varie giornate di lavoro con Stellina. Poi ci mostra una pagina che porta la data di un giorno di anni fa, è una pagina in bianco con una scritta in rosso. C'è scritto solo eureka. Quell' espressione, quel giorno, corrisponde al momento in cui il dottore Vincenzo Viscone ha avuto quel primo contatto straordinario con la mente cosciente, attiva e quasi umana di Stellina. Il dottore Viscone paga ancora quotidianamente questo suo successo scientifico, questa sua ricerca sconfinata al di là del credibile. Molti non credono,altri sono indifferenti. Noi crediamo che questo fatto meriterebbe di essere ancora seriamente recuperato, affrontato, studiato, comparato. Viscone è uno studioso serio con conoscenze profonde della psicologia. Crediamo che questo caso, ripetiamo, ancora da studiare, sovvertirà se provato il mondo degli studi dell'etologia e dell'ambiente scientifico internazionale. Ma, per adesso, istituzioni, stampa, studiosi, si sono già dimenticati di Stellina, di Vincenzo e delle inedite ricerche di etologia sviluppate a Francavilla Angitola.
Franco Vallone
Lo storico prof. Antonio Galloro di San Nicola Da Crissa, ci ha fatto la gradita sorpresa di inviarci un suo studio di onomastica calabrese. Si tratta della sua ennesima opera letteraria che come al solito non manca di scrupolosita' e precisione. Edita dal periodico "la Barcunata". Lo ringraziamo cordialmente e volentieri pubblichiamo il materiale inviatoci, perché possa essere apprezzato dagli appassionati lettori del nostro sito . ANTONIO GALLORO ORIGINE STORICO-LINGUISTICA DEI COGNOMI IERACITANO E CÁLLIPO STUDIO DI ONOMASTICA CALABRESE _________ STAMPATO IN PROPRIO__________ SAN NICOLA DA CRISSA (VV), 10 MAGGIO 2010 INTRODUZIONE Lo studio che riguarda l’origine dei nomi di persona (cognomi) e di luogo (toponimi) è una scienza assai complessa, non soltanto perché alla loro formazione concorrono elementi linguistici eterogenei, appartenenti cioè a diversi ceppi idiomatici, che sono di non facile identificazione ed al cui etimo, quindi, non sempre è possibile risalire, ma anche e soprattutto a causa delle continue modifiche e trasformazioni, che essi sono costretti a subire da parte dell’inesorabile Tempo, che, sulla Terra, durante il suo veloce e violento passaggio, secondo la giusta considerazione del poeta latino Ovidio, divora ogni cosa: Tempus edax rerum (1). A questi cambiamenti e deterioramenti, a cui l’uomo non può porre rimedio alcuno, in quanto rientrano nel ciclo naturale della precarietà della sua esistenza terrena e sfuggono pertanto al suo diretto controllo, si aggiungono le deformazioni dovute alle inesatte trascrizioni anagrafiche da lui medesimo apportate nel corso dei secoli ed imputabili a sua esclusiva incapacità ed incultura. È esattamente a causa di queste alterazioni che i cognomi e qualsiasi altra forma di dizione (o parlata) popolare, con il passar degli anni, finiscono per smarrire sempre più la loro identità originaria, per assumere una forma diversa e, poi ancora, un’altra, fino a divenire, alla fine, del tutto irriconoscibili (2).
Lo staff è lieto di annunciare che oggi, finalmente, è cominciata l'avventura sognata da mesi: viene pubblicato il nuovo sito: www.francavillaangitola.com, grazie alla tenacia di Giuseppe Pungitore, alla determinazione di Mimmo Aracri, alla saggezza dell'ing. Vincenzo Davoli e alla intraprendenza di Antonio Limardi jr.