“Pittindiàni, “Pittindiàni, una storia di vita e di speranza” è il bilancio, breve ma intenso di sessant’anni di vita di Giuseppe Furlano. Per una singolare coincidenza l’autore centellina i momenti salienti della sua biografia in maniera tale che il numero di pagine del suo libro, quasi coincide con i primi 63 anni della sua esistenza. La parola “Pittindiàni”, che compare nel titolo, mostra chiaramente quanto siano profondi i legami dell’autore con Francavilla Angitola e con il suo dialetto. Anzitutto Francavilla è la “Patria”, il suolo dove affondano le radici degli antenati; tuttavia il dialetto francavillese non è solo il vernacolo pittoresco, parlato dalla gente del paese, ma è piuttosto il linguaggio degli affetti, la voce del cuore, è l’espressione della tenerezza materna, la vera “madre lingua”anche per uno, come lui, nato e vissuto mille chilometri lontano dalla terra degli avi. Il racconto del libro si articola in dieci capitoli, preceduti, intervallati e seguiti da brevi poesie. Provando a fare una sintesi, quasi a coniare uno slogan breve, quest’opera Furlano si potrebbe definire una “dichiarazione d’amore verso la Madre”. La parola “Madre” va intesa in un duplice significato: sia come mamma, umana genitrice, colei che l’ha partorito, nutrito, allevato, educato; sia come luogo terreno, “madrepatria”. Per cui la mamma, rivolgendosi al figlio e “parlando con il cuore ha saputo trasmettere l’amore per la sua terra”. Così tramite i ricordi e i racconti ripetuti dalla mamma, Francavilla diventa, per il figlio Giuseppe, un’altra madre, una mitica “terra madre”, un luogo sognato ed esaltato tanto che, quel paese di Calabria, malgrado sia piccolo e povero, in quanto terra delle origini e del suo concepimento, nella scala degli affetti precede persino Asti, città natale e luogo della sua affermazione civile e sociale.
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