Benvenuti nel sito di Giuseppe Pungitore, dell'ing. Vincenzo Davoli, di Mimmo Aracri ed Antonio Limardi, punto d'incontro dei navigatori cibernetici che vogliono conoscere la storia del nostro meraviglioso paese, ricco di cultura e di tradizioni: in un viaggio nel tempo nei ruderi medioevali. Nella costruzione del sito, gli elementi che ci hanno spinto sono state la passione per il nostro paese e la volontà di farlo conoscere anche a chi è lontano, ripercorrendo le sue antiche strade.

DON  GIUSEPPE  CARIA GEMELLI  A  FRANCAVILLA ANGITOLA – MILETO-

FEROLETO DELLA CHIESA – GERUSALEMME  - GADAMES

Nel 50° anniversario della morte (6 luglio 1964/2014)

Alla vigilia del 50° anniversario della morte di Don Giuseppe Caria Gemelli (6 luglio 1964/2014) pubblichiamo quattro scritti dell’insigne Sacerdote, che testimoniano l’elevato livello della sua preparazione culturale, civile ed ecclesiastica, la sua profonda e squisita sensibilità umana, nonché la sua passione per viaggi di scoperta geografica e religiosa. I documenti, che ora per la prima volta vengono pubblicati, sono due lettere (indirizzate all’Arciprete Don Domenico Servelli) e due semplici, ma assai significative, cartoline illustrate, inviate al medico dott. Vincenzo Servelli. Tutti e quattro sono conservati dal legittimo erede dei suddetti destinatari, ossia dal gentilissimo dottor Gino Ruperto, francavillese di Roma, che generosamente e di sua spontanea iniziativa me li ha fatti visionare insieme ad altri importanti e preziosi documenti del suo archivio di famiglia. Chi volesse citare ovvero riprodurre, parzialmente o integralmente, questi documenti, è tenuto ad apporre la seguente annotazione: (Dall’archivio di Gino Ruperto, trascrizione di Vincenzo Davoli).

 

LETTERA  DA  MILETO  DEL  3-09-1910

 

 Il primo documento è un foglio grande che, opportunamente ripiegato e incollato lungo alcuni bordi, alla fine si presenta come una busta chiusa. Sulla faccia esterna della ”busta” è scritto l’indirizzo: Reverend.mo / Arcipr. D. Domenico Servelli. Vicario Foraneo/ (Catanzaro) Francavilla Angitola . Sopra l’indirizzo fu apposto un francobollo da cent. 15 e il timbro postale d’arrivo: Francavilla Angitola  4-9-10, ossia 4 settembre 1910. La lettera fu scritta nel seminario vescovile di Mileto in data 3 settembre 1910; allora Giuseppe Caria aveva 25 anni, ma ancora non era sacerdote; infatti fu ordinato il 23 marzo 1912.

Nella lettera il giovane chierico Giuseppe Caria – che si firma con le sole iniziali G.C. – tratta  un unico, doloroso argomento: la morte di Rachelina Servelli. Il testo della lettera si articola in tre parti distinte: - un breve esordio, con i saluti rivolti all’amatissimo Arciprete e le espressioni di condoglianza estese a tutti i familiari; - una lunga parte centrale, elaborata come un vero e proprio elogio funebre della fanciulla defunta; - la chiusa finale, con richiesta di scuse per la lettera scritta di nascosto ed in fretta, vergata con “calligrafia orribile” (in realtà è facilmente decifrabile), e con rinnovate espressioni di cordoglio per la famiglia Servelli colpita dal lutto.    Per agevolare la lettura  del testo, la prima e la terza parte della     lettera sono state trascritte con caratteri ‘Cambria’, mentre il nucleo centrale,     preceduto da un titolo  [ELOGIO  FUNEBRE  DI  RACHELINA  SERVELLI] , inserito da me  e pertanto racchiuso entro parentesi quadre, è stato trascritto in caratteri Arial Narrow.

   Chi era e come si chiamava la fanciulla morta? Alla nascita era stata registrata in questo modo: SERVELLI Rachele Santa Adelina; nata il 12-9-1899 in via Corso Nuovo 54, ossia nella casa paterna; era figlia di Giuseppe Servelli, segretario comunale, e di Santa Catalano, proprietaria. La neonata fu l’ultima dei nove figli di Don Peppino e Donna Santa. Prima di lei erano nati 4 maschi e 4 femmine. Dei maschi, due, Foca e Francesco Servelli, erano morti in tenera età, vittime della mortalità infantile, allora purtroppo frequente a Francavilla; gli altri due erano rispettivamente:      - Vincenzo, futuro medico chirurgo;      - Domenico, tenente poi Caduto nella I Guerra mondiale.

Le 4 femmine, nate prima di Rachelina, erano: - Marianna, sposata col notaio Vincenzo Ciliberti; - Lucia (1885-1917, di cui si parlerà nella seconda lettera di Don Giuseppe Caria); - Rosarina, poi sposata con Peppino Ruperto, e quindi madre del dott. Gino, custode dei documenti che qui vengono riprodotti; - Teresina, anch’essa morta bambina (1895-1901).

   Il Rev. Don Domenico Servelli, Arciprete, Parroco di San Foca Martire e Vicario Foraneo del Vicariato di Filadelfia, essendo fratello del segretario comunale Don Peppino, era l’affettuoso zio paterno della bella nidiata di nipoti, dei quali Rachele, essendo l’ultimogenita, era la beniamina.

A Francavilla le famiglie Caria e Servelli già intrattenevano fra loro ottime relazioni di amicizia; ancor più questi legami si rinsaldarono quando il seminarista Giuseppe Caria, anelando a diventare sacerdote, vide nel compaesano Rev. Domenico Servelli un modello esemplare di  prelato buono e pio, dotto e rigoroso, abile diplomatico con i benestanti, generoso e misericordioso con i poveri e gli umili.  È molto probabile inoltre che la piccola Rachele Servelli andasse a scuola dalla signorina Teresina Caria, ossia da una sorella del futuro Sacerdote; e la Maestra Caria era un’insegnante valentissima, assai stimata dalla comunità francavillese. Certamente il giovane Caria conosceva bene Rachelina. Pur vivendo a Mileto, dove studiava in seminario, quando rientrava nella sua casa a Francavilla, il nostro giovane chierico vedeva spesso Rachelina e si divertiva “ad interrogarla sulla dottrina cristiana, che ella sapeva già benissimo, e che con celestiale sorriso mi comunicava facilmente.”

   L’arciprete Domenico Servelli e il seminarista Giuseppe Caria sono state le due sole persone che hanno lasciato qualche scritto sulla malattia e morte di Rachelina. Lo zio arciprete ne registrò la morte alla data del 28 agosto 1910 sul “Liber Defunctorum” della Parrocchia di San Foca; compilò l’atto di morte nel latino ecclesiastico, presentandola affettuosamente come mea carissima neptis, ossia nipote mia carissima, aggiungendo che era morta dopo quattro mesi di dura malattia.    

Invece il chierico Caria così poeticamente descriveva la malattia e la morte della fanciulla:   

 “Un morbo latente, da più mesi minava la tenera esistenza di questa bianca rosellina; e medici e professori si meravigliavano anzi come non si fosse avverata più presto la predizione della scienza! Si prodigarono, è vero, le più amorevoli cure, ma già era fissato il suo trionfante passaggio.” “Si spense Rachelina, placida in una notte stellata”.

   Il decesso di Rachele Servelli fu dunque una “morte annunciata”, provocata da “un morbo latente” e crudele, una “dura malattia” che la fece soffrire per almeno 4 mesi. Ad oltre un secolo di distanza dal tristissimo evento non si sa quale fosse la natura di quella malattia, contro cui medici e specialisti, impotenti, dovettero chinare il capo.

Ho provato a classificare come “Elogio funebre” lo scritto del chierico Caria in onore di Rachelina Servelli; in verità è qualcosa di più complesso. È contemporaneamente discorso funebre, necrologio, lettera di condoglianze, scritto memoriale, tenero intimo colloquio con la fanciulla defunta, tutto espresso con linguaggio e toni di malinconica elegia, intriso del profumo di fiori delicati (violetta mammola, bianca rosellina, candido giglio, crisantemi, ed in ultimo la Viola del Pensiero, il fiore idealmente offerto dall’Autore).  Ed è prosa impreziosita da tasselli di poesia.  Ed ecco l’incipit  dai Sepolcri di Ugo Foscolo, i versi del greco Menandro (“On  oi  theoi  filousin, apothneskei neòs”)  mirabilmente tradotti da Leopardi (“Muor giovane colui che al cielo è caro”), e Dante che trapela dall’endecasillabo “come colomba dal desio chiamata”….              Ma lasciamo che il lettore direttamente assapori la bellezza  delle parole  scritte un secolo fa da Don Giuseppe Caria Gemelli.

 

“I.M.I.  Mileto 3 settembre 1910.         Amatissimo Arciprete, con sommo dolore appresi ieri la triste notizia della morte di Rachelina. Mi figuro lo strazio di tutti voi e non posso che associarmi al vostro rammarico in questa luttuosa circostanza. Se mi fossi trovato costì, oltre che cooperare alla solenne riuscita dei funerali, avrei anche detto qualche cosa in proposito per lenire il vostro dolore, e magnificare quell’angiolo. Intanto però non so trattenermi dal desiderio di esprimere, come posso, i miei sentimenti di affetto, che quantunque in ritardo, voi gradirete lo stesso, e perciò m’ accingo senz’altro, con preghiera che vogliate compatirmi, avendolo fatto in fretta.

 

[ELOGIO  FUNEBRE  DI  RACHELINA  SERVELLI]

                                                                                              

                                                                                            Celeste è questa

                                                                            corrispondenza d’amorosi sensi,

                                                                            Celeste dote è negli umani

                                                                            E spesso per lei si vive con l’amico estinto

                                                                            E l’estinto con noi.               (Foscolo)

 

Avea sul principio della sua fanciullezza mostrato una singolare intelligenza, che la rendeva carissima a tutti; s’era acquistata la simpatia di quanti la conoscevano, e con l’angelica semplicità sua costringeva ad amarla, subito che le sue labbra s’aprivano alla parola.  Non era amante dei trastulli smodati, prerogativa comune a quasi tutte le sue compagne; modesta essa a tal segno da vergognarsi persino dei più famigliari, e bella nel suo profilo greco, come simpaticissima nel suo sguardo dolcissimo. Direi, se l’età non presentasse un  grave anacronismo, che la Rachele della Scrittura forse non le disdirebbe a lato. E felice combinazione di nomi, s’intende di chi voglio parlare, Rachelina si chiama l’angelo di cui ho cercato riprodurre il ritratto. Ed era di appena dodici anni.

Frasi e parole non basterebbero per descrivere tutta l’ansia, le pene, il dolore che produsse la morte di tanto cara bambina. Come una violetta mammola, cui manchi l’umore vitale, si spense Rachelina, placida in una notte stellata.  Il Cielo, più che la terra, attendeva in silenzio che quell’anima candida spiccasse il volo per le dorate sfere poiché gli apparteneva quell’essere, come un poeta pagano ebbe a cantare tanti secoli prima che la religione di Cristo lo proclamasse vero: « Muor giovane colui che al cielo è caro» (Menandro).

Ma chi ardì sollecitare un sì sublime volo? Un morbo latente, da più mesi minava la tenera esistenza di questa bianca rosellina; e medici e professori si meravigliavano anzi come non si fosse avverata più presto la predizione della scienza! Si prodigarono, è vero, le più amorevoli cure; ma già era fissato il suo trionfante passaggio! E come colomba dal desio chiamata, con l’ale aperte verso il Paradiso, oltrepassò il suo spirito questa valle di lacrime, lasciando il suo corpo, sacro deposito ai suoi, perché la ricordassero ancora, e ne esaltassero le sue virtù.

Ricordo, ed erano i momenti più belli ch’io passavo quand’ero in famiglia, il candore angelico e la santa riservatezza di Rachelina allorché in iscuola mi divertivo ad interrogarla sulla dottrina cristiana, che ella sapeva già benissimo, e che con celestiale sorriso mi comunicava facilmente. Le sue compagne godevano assai nel sentirla parlare; e poiché per i piccoli io ho sempre nutrito un affetto singolare, da tutte ero contraccambiato ugualmente. Ma Rachelina aveva attirato più di tutte la mia attenzione; volli studiare l’animo suo, ed ebbi presto a persuadermi che un delicato sentimento di squisita dolcezza si stava educando in quel cuore bennato. Felice te, o anima pura, che in seno a Dio, dove gloriosamente riposi, sfolgorante di luce, e olezzante di profumi hai deposto il tuo giglio verginale! E’ vero, lasciasti i tuoi, pel desiderio di te,in una angoscia profonda; lo vedi dal cielo, come piangono la tua dipartita, ma che dici tu adunque a loro?_  Accordi e preludi di serafici strumenti, armonie iniziali di meravigliose canzoni precedono la risposta tua alla mamma, la tua risposta allo zio, che l’attendono ansiosi. E che cosa dirai tu ad essi? «Io godo», dirai, «godo, o cari, la visione beatifica di Dio; qui in Paradiso io prego per tutti. Prego per te, o mamma, che mi educasti cristianamente; prego per te zio, che hai nutrito per me un affetto quasi paterno; prego per voi fratelli sorelle, zii, amici tutti; prego per l’umanità tutta quanta, oggi così lontana da Dio, e pur tanto bisognevole d’aiuti; ma più prego per tante piccole anime, affinché incaute non faccian getto del loro candore col crescere dell’età».  Oh si !prega Rachelina, prega per tutti, e non ti scordar di me, cui l’arduo ministero senza l’aiuto della grazia, mi terrebbe sovente nelle più ardue lotte! Prega, o cara, giacché la tua innocenza è leva potente al cuore di Dio, prega anche, e molto, per i miei poveri morti. Tu lo sai dove essi siano. Forse, chi sa! potrebbe alcuno ancora trovarsi in luogo di espiazione? O Rachelina, per esso ti prego affinché voglia, in ispecial modo, rivolgere le tue manine supplichevoli al trono di Dio, ed implorare per esso la liberazione !

«Angioli belli con l’alucce d’oro, gli occhi cerulei dal color del mare, riconoscete voi la pia ch’è venuta testé ad accrescere il vostro stuolo? Si trovano con lei i suoi fratelli da tempo abitatori dell’Empireo?».«Ma fummo noi che l’abbiamo chiamata! O sorella, non ci riconosci tu? Oh! Come è bello il Paradiso! Ti piace star qui con noi?

Laggiù ci piansero tanto un giorno, sai?! Oggi si piange ancora di più. Ma noi tergeremo le loro lacrime; noi, perché felici, non dimentichiamo la terra, e la nostra famiglia avrà più beni perché noi siam qui. La tua preghiera, non vedi, è stata subito esaudita; ed ecco là la mamma, ecco i nostri parenti tutti, che ora non piangono più. Rassegnati alla volontà di Colui che fece il cielo e le altre cose belle, benedicono il suo Nome, adorano i suoi giudizii. Sei contenta ora? E poi, laggiù qualche cosa rimane di noi ! Li vedi quei fiori, là, in quel sacro recinto? Non vedi tu cosa si eleva da quel cespuglio di crisantemi? Essa è una croce: O Crux ave spes unica….piis adauge gratiam, reisque dele crimina».

E gli angeli tacquero, volarono fino al Santo dei Santi e un suono lento, flebile, solenne per l’aure grate a Dio muove le penne !_ Era preghiera, ed ecco il monito sublime che ci vien dall’alto. Non pianto no, su gli estinti; ma preci, ma fiori sulle loro tombe !_ Oh si, datemi dei fiori per versarli sull’urna che accolse Rachelina riverente; datemi dei fiori per spargerli sulla sua tomba; dei fiori per adornare gli altari; dei fiori ad intrecciare corone per posarle sull’umide zolle accanto alla sua Croce; dei fiori per propagarli eternamente in una gloria di colori ! E fiori e preci, e preci e fiori siano la catena magnifica che unisca la terra al cielo.

Ma se un bel giorno, il furore aquilonare del tempo spezzerà questa catena, e l’oblio avrà sperduto il nome del fiore che l’univa, o Rachelina, suggerisci che non appariscente ed inodore, ma umile e fragrante, era una volta, e sempre: si chiama la Viola del Pensiero. Chi ve lo pose?  Colui che si pregia di averne conosciute le tue virtù; chi scrisse per te queste righe.  Requiem !!!

  Rinnovo la preghiera  che abbiate ad essermi cortese di compatimento, ammirando soltanto la buona volontà. L’ora impiegata a scrivervi, certo mi costerà un rimprovero da parte dei Superiori, essendomi assentato dall’ufficio senza permesso; ma mi consola il pensiero di aver concorso almeno con la parola a rendere il dovuto omaggio alla s. m. di Rachelina, e di aver compiuto il mio dovere di amicizia verso di voi. Forse lo scritto perderà gran parte della sua efficacia per la calligrafia orribile con cui è stato esposto; ma attribuirete questa mancanza alla fretta. Vi bacio intanto la mano, e prendendo nuovamente viva parte al lutto della vostra famiglia, ossequio tutti con religioso rispetto

                                                                   Sempre aff.mo vostro

                                                                                 G.  C.

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LETTERA  DEL  5 LUGLIO 1917  DA  FEROLETO DELLA CHIESA

Don Giuseppe Caria fu ordinato sacerdote il 23 marzo 1912, a ventisette anni compiuti. Una delle prime sedi dove il novello prete fu mandato a svolgere il suo ministero sacerdotale fu il paese di Feroleto della Chiesa, in provincia di Reggio Calabria. Le parrocchie della Piana di Gioia Tauro, e così anche Feroleto, appartenevano alla Diocesi di Mileto, fin da quando questa grande circoscrizione di rito latino era stata istituita dai sovrani normanni che, fedelissimi al Papa, governavano in Calabria.  Il 5 luglio1917 Don Giuseppe scrisse da Feroleto una lettera indirizzata all’Arciprete francavillese Domenico Servelli. La lettera è scritta su un foglio di carta filigranata a tenui maglie rettangolari, recante in alto a sinistra la seguente intestazione stampata:

“GABINETTO  DEL  PARROCO  di Feroleto della Chiesa”. Nella lettera il Rev. Caria tratta due argomenti differenti: - l’incarico conferitogli dal Parroco Servelli di predicare a Francavilla il panegirico di San Foca nella festa d’agosto in onore del Santo Patrono; - il doloroso ricordo della recente morte di un’altra nipote dell’Arciprete.

   Riguardo al primo punto, Don Peppino Caria non nasconde il suo compiacimento per l’onore ricevuto di poter predicare una seconda volta durante la festa di San Foca (sei anni dopo la prima), e quindi rassicura l’Arciprete che, nel predicare il nuovo panegirico del Santo, avrebbe privilegiato, in conformità ai dettami  della recente Enciclica di Papa Benedetto XV, i contenuti evangelici e sacri, anziché sfoggiare una predicazione infarcita di erudizione retorica e letteraria.

   Umanamente più commovente è la seconda parte della lettera dove si ricorda un altro grave lutto che da poco aveva colpito l’Arciprete Servelli: la morte della “santa nipote”. Anche se nella lettera  non viene scritto il suo nome, si trattava di un’altra figlia del segretario Peppino Servelli e di Donna Santa Catalano, ossia di LUCIA SERVELLI.

   Era nata il 12-11-1885, e fu chiamata Lucia, Rachele, Annita; il primo nome rinnovava quello della nonna materna, cioè Lucia Petrocca. Fu battezzata nella chiesa di San Foca il 22-11-1885; le impartì il battesimo lo zio Don Domenico, non ancora Parroco, ma semplice Economo della chiesa di San Foca. Erano presenti: come madrina, l’ostetrica Donna Nicoletta Aracri; in qualità di padrini, i coniugi Francesco Antonio Grillo e Maria Morano, antenati delle sorelle Enza ed Irene Grillo. Nove anni dopo, quando lo zio Domenico era già diventato Parroco di San Foca, la bambina venne cresimata. Con l’aiuto del pizzitano Can. Federico Artese, buon amico del nostro Arcipr. Servelli, Lucia ricevette la Cresima a Pizzo il 5 agosto 1894 da parte di Mons. Antonio Curcio, Vescovo della diocesi di Oppido Mamertina; le fece da madrina D.ª Girolama Gentile.

Crescendo, Lucia diventò una donna di gentile e gradevole aspetto; di lei s’innamorò un giovane serio, Peppino Ruperto, rampollo di una famiglia di abili impresari edili. Purtroppo il loro idillio fu turbato; un morbo intaccò i polmoni di Lucia; e la tisi progressivamente minò il suo fisico.

Una lunga serie di lutti rattristò ulteriormente la sua infelice esistenza: - nel 1910 morì la più giovane delle sorelle, Rachelina, non ancora dodicenne; - ad ottobre del 1913 morì il buon zio Vincenzo Servelli, che era stato Sindaco di Francavilla; - a marzo del 1914 morì la sorella Marianna, moglie del notaio Vincenzo Ciliberti e giovane mamma di tre piccole bambine; - il 2 novembre 1916 morì combattendo sul Carso il gagliardo suo fratello, il Tenente Micuccio Servelli. Segnata profondamente da questi gravi lutti, stremata dalla malattia e  rassegnata nel suo letto di dolore (come dolorosamente scrive  Don Giuseppe Caria), Lucia Servelli morì il 24/05/1917. Dopo la morte di Lucia, Peppino Ruperto non recise i legami con i Servelli, dai quali anzi era molto stimato e ben voluto; così due anni più tardi, nel novembre 1919, Peppino finalmente s’accasò, prendendo per  moglie Rosarina Servelli, cioè la sorella di Lucia.

 

Lettera del 5/7/1917 dal Sac. Giuseppe Caria all’Arciprete  Domenico Servelli

 

 

       li 5 luglio 1917

                                      Mio amatissimo Arciprete,

il vostro invito pel panegirico del nostro S. Protettore, dal doppio aspetto delle circostanze che attualmente incombono, mi sorprende e mi commuove nel medesimo tempo.

Perché non mi aspettavo, dopo sei anni, ricevere un tanto onore; e perché pure fra i miei compaesani sarebbe stato difficile rimuovere ogni prevenzione!

   Nondimeno io non resisto al piacere di farvi cosa grata, e verrò mattino del 12 v.(enturo) agosto da Pizzo, dove sarò fin dal 16 c.(orrente) mese, per rendere a voi ed al popolo l’omaggio della mia parola, che, secondo la recente Enciclica Pontificia, sarà essenzialmente evangelica e sacra, lontana quindi da ogni lenocinio letterario.   Mi ascolterete pertanto benevolmente, e m’è caro pensare che sarete per darmi il vostro giudizio spassionato.

   Per la morte della vostra santa nipote, credetelo, ne ho provato vivissimo dispiacere! Rassegnata nel suo letto di dolore, non poteva che con gioia salutare la morte che veniva a ricongiungerla ai suoi, che non vide su la terra. Dal cielo insieme con loro prega per la sua famiglia, e questa preghiera all’unisono che arriva fino al cospetto di Dio è il miglior sollievo fra tante lacrime e lutti, che solo in tal modo si possono tollerare.

  Vi bacio la mano ossequiandovi con tutti i vostri affettuosamente

                                      U.(mili)ssimo

                                      Sac.  Gius.  Caria  

   

 N.B.: La lettera è stata trascritta utilizzando per la prima parte il carattere tipografico Cambria; nella seconda parte si è utilizzato  il carattere Arial.

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CARTOLINA  ILLUSTRATA  DA  GERUSALEMME  DEL  28-08-1934

      

   Nel mese d’agosto 1934 l’Arciprete Giuseppe Caria andò in viaggio a Gerusalemme. Chissà se gli venne l’idea di andare in pellegrinaggio in Terrasanta dopo aver ascoltato a marzo di quello stesso anno le Missioni predicate dai Padri Passionisti, che tanto impressionarono la gente di Francavilla?

In quel tempo non era impresa facile visitare la Terrasanta, allora chiamata Palestina. Dopo la caduta dell’Impero ottomano, che per 400 anni aveva avuto il dominio su quella terra, la Società delle Nazioni nel 1922 affidò la Palestina alla Gran Bretagna perché la governasse sotto forma di mandato. Allora in Palestina c’era solo un porto in attività, quello di Haifa, ma vi arrivavano pochissime navi dall’Italia. Assai più grande era il traffico navale verso i porti dell’Egitto e verso il canale di Suez; cosicché i turisti e i pellegrini spesso sbarcavano in porti egiziani, per poi proseguire con altro piroscafo dall’Egitto ad Haifa. Non si sa quale fu l’itinerario seguito dal Rev. Caria per recarsi a Gerusalemme. Di quel viaggio io ho potuto vedere solo una cartolina illustrata.

   Martedì 28 agosto 1934, festività di Sant’Agostino, Dottore della Chiesa, il Rev. Caria era a Gerusalemme. Da lì inviò una cartolina illustrata ad un caro amico francavillese.

Nella cartolina c’era la fotografia della Basilica del Santo Sepolcro; la cartolina veniva inviata a questo indirizzo:

Preg.mo Sig. Cav. Dott.Vincenzo Servelli – Francavilla Angitola (Catanzaro) – Italia”

Il messaggio inviato al caro dottore Vincenzo ed esteso a tutta la cerchia della famiglia Servelli diceva affettuosamente, ma stringatamente e senza alcuna enfasi retorica:

Cari  saluti  e  ricordi  con  tutti  dal  S. Sepolcro  /  Sac. G. Caria  /

  Gerusalemme 28 ag. 1934”.

Ammirevole l’asciutta sobrietà di quanto scritto dall’Arciprete Caria nel luogo dove Gesù fu sepolto e al terzo giorno risorse.   

 

 

CARTOLINA  DA  GADAMES  DEL 12  NOVEMBRE  1937

    

Il 12 novembre 1937, giorno in cui l’Italia festeggiava il genetliaco del Re (Vittorio Emanuele III compiva allora 68 anni), Don Giuseppe Caria inviò all’amico dott. Vincenzino Servelli una strana e singolare cartolina illustrata.     Sulla foto della cartolina era stampata questa didascalia:  GADAMES (Libia) – L’entrata in città.     

Il mittente Don G. Caria scrisse il seguente indirizzo:

Dott. Sig. Vincenzo Servelli  Segret. Polit. – Francavilla Ang. (Catanzaro).

Poiché il medico era conosciutissimo, non c’era bisogno di aggiungere la via dove era la sua casa; tuttavia il Rev. Caria volle specificare la carica che aveva il suo amico dottore, cioè quella di Segretario Politico (del Partito fascista)  a Francavilla Angitola. Poi, nella porzione a sinistra della cartolina, di solito riservata a scrivervi un breve messaggio, il nostro prete viaggiatore vergò di suo pugno null’altro che questa semplicissima scritta: Sac. Gius. Caria Gemelli    12-11-37  - XVI.

Messaggio davvero laconico!; tutt’al più si potrebbero notare due dettagli: l’uso del doppio cognome Caria Gemelli  (fatto raro nella corrispondenza privata di Don Giuseppe); e l’aggiunta del numero romano XVI, anno dell’Era Fascista.

Ma cos’era e dov’è GADAMES la città raffigurata nella cartolina?  È una piccola antica città della Libia occidentale posta in una rigogliosa oasi desertica, vicinissima al punto dove s’incrociano le linee di confine dei tre stati: Algeria, Tunisia e Libia.    Grazie alla presenza dell’oasi, il sito era abitato già in età preistorica. Nell’anno 19 a. C.  il console romano Cornelio Balbo l’occupò; i Romani la chiamarono Cydamus, da cui deriva il nome attuale. Ubicata in un’oasi lussureggiante e trovandosi all’incrocio delle piste carovaniere, che dal Sudan e dal Centro Africa conducono alla costa del Mediterraneo,  Gadames  divenne un’importante centro di traffici e scambi commerciali.          Abitata principalmente da gente berbera, dopo la crisi dell’Impero romano, Gadames fu  prima occupata dai Bizantini, poi dagli Arabi, verso il 1860 dai Turchi dell’Impero ottomano, ed infine dagli Italiani, provvisoriamente dal 1913 e stabilmente dal febbraio 1924.

La principale sorgente d’acqua dell’oasi è detta Ain al-Faras, ossia “Fonte della cavalla” a cui gli Arabi attribuiscono l’origine leggendaria della città. Secondo questa leggenda il conquistatore arabo Ocba Ben Nafa (VII secolo), estenuato dal caldo era giunto in questo luogo per trovare acqua con cui ristorarsi; quand’ecco la sua giumenta, battendo con le zampe la crosta sabbiosa del terreno, fece scaturire miracolosamente una polla  d’acqua abbondante.       La guida del Touring Club Italiano degli anni trenta del Novecento forniva notizie interessanti su Gadames: la città contava allora circa 3700 abitanti, di cui solo 44 italiani; la maggioranza degli abitanti era di etnia berbera, la minoranza era di etnia araba;  “però circa la metà è assente perché essi sono mercanti attivissimi e hanno costituito piccoli centri tanto a Tripoli, a Tunisi e in altre città costiere quanto nelle maggiori città sahariane”. La stessa guida presentava Gadames con l’epiteto di perla del Sahara, e come la località di maggior interesse turistico fra quelle dell’interno della Tripolitania; quindi seguiva una descrizione assai suggestiva del nucleo antico della città:    “Singolare è l’aspetto della cittadina, dalla pianta irregolarissima, dalle vie coperte, interrotte di tratto in tratto da aperture verticali che creano forti contrasti di ombre e di luce, e svolgentisi tortuose nel corpo dei fabbricati; sull’ingresso delle case sono infisse corna di antilope o gazzella, mentre agli angoli dei terrazzi si alzano gli sciarafin o piccole cuspidi, entrambi contro il malocchio. Le strade sono di dominio esclusivo degli uomini; le donne trascorrono la vita sulle terrazze delle case”.

È strano e stupefacente che nel 1937 il Rev. Caria si sia recato in una località che, per quanto pittoresca e interessante, era proprio fuori mano, lontana dalla costa medi-terranea (che godeva di clima mite e temperato dalle brezze marine), dalla città di Tripoli e da centri archeologici famosi e più frequentati dai turisti, come Sabratha e Leptis Magna.

Per andare da Tripoli a Gadames bisognava percorrere 641 km di strada; solo per i primi 183 km era bitumata, poi continuava come pista a fondo naturale, intervallata da tratti con fondo sabbioso o ghiaioso-sassoso. Allora era in funzione un’autocorriera, che passando per Iefren e Nalut, raggiungeva Gadames. Il viaggio completo durava cinque giorni, partendo da Tripoli ogni mercoledì alle ore 17, e concludendolo la domenica con arrivo a Tripoli alle ore 18. Il costo del viaggio in autocorriera era di 835 lire. Malgrado occorressero 5 giorni, nonostante i vari disagi del viaggio (specialmente di vitto e alloggio; scomodità dell’autocorriera ecc.) ed il costo notevole del biglietto, il buon Rev. Caria  andò in gita a Gadames. Accortamente fece il viaggio nel periodo climaticamente migliore; la guida infatti sosteneva che la stagione più adatta al viaggio fosse la 2ª metà d’autunno (16 ottobre-30 nov.) e Don Peppino si trovò a Gadames il 12 novembre.

In quegli anni era governatore della Libia il celebre quadrumviro fascista Italo Balbo; nel suo entourage si sussurrava che amasse trascorrere i finesettimana nell’appartata  Gadames, soggiornando nell’unico albergo della cittadina, l’Ain al-Faras, cioè intitolato all’antica  ‘Fonte della cavalla’. Chissà se il nostro Don Peppino Caria nella sua escursione a Gadames si sarà imbattuto nel gerarca fascista, famoso nel mondo come trasvolatore?

   Nel 1986 l’UNESCO ha attribuito all’antico abitato di Gadames, per la sua importanza storico-artistica, il riconoscimento di Patrimonio mondiale dell’Umanità. E quindi si può leggere in un’opera moderna come la “Guida blu” del TCI  (edita nel 2006) quest’avvincente descrizione: “L’impatto con la città vecchia è straordinario: il bianco della calce, l’azzurro del cielo, le palme, le stradine coperte, illuminate solo dalla luce naturale che filtra in alcuni punti, e le piccole piazze scoperte, tutto l’insieme crea un’atmosfera molto suggestiva. Questa città-gioiello, non a caso chiamata dagli arabi la ‘perla del deserto’, è uno dei più antichi centri della regione presahariana e conserva intatte le caratteristiche e gli edifici tradizionali.

Le palme, la terra e il lavoro manuale: questi sono gli elementi che hanno reso grande Gadames, insieme alla creatività e alla solidarietà degli abitanti, oltre che alla conoscenza dell’ambiente. La vecchia Gadames era come un enorme ‘condominio’: di notte un custode chiudeva tutte le porte comunicanti con l’esterno e chi arrivava troppo tardi doveva restare fuori fino al mattino seguente.”

   Concludendo queste divagazioni su Gadames, mi sembra bello avere scoperto come dietro la figura austera del Sacerdote cattolico Giuseppe Caria Gemelli, ci fosse un uomo accorto, sensibile, intelligente; un viaggiatore ,  non timoroso né avventuroso, ma attento, attivo e curioso; uno spirito libero ed aperto ad ogni forma di conoscenza.

                                                                                 Vincenzo  Davoli    

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