VITO SIMONETTI REDUCE DA CEFALONIA E DALLA PRUSSIA ORIENTALE
Vito Pasquale Luigi SIMONETTI nacque a Francavilla Angitola il 4-02-1909, da Antonio, possidente, e da Maria Teresa Condello, casalinga. Fu il primo maschio della sua famiglia, che ap-parteneva al ceto medio del paese, sia dal lato paterno (i Simonetti erano proprietari terrieri ed agri-coltori) sia da quello materno (i Condello erano da molte generazioni a Francavilla i “molinari” per antonomasia). Vito nacque nella casa avita, situata sul lato sinistro del corso del paese, poco sotto “Tafuri”,tra il corso stesso ed il vico parallelo; l’indirizzo ufficiale di casa Simonetti era allora:vico Corso Nuovo n° 11. Prima di lui era nata (settembre 1907) Vittoria Barbara; dopo Vito nacquero due maschi, Michele (nel 1910) e Vincenzo (nel 1916), una donna - Barbara Rachele, del 1918 - ; poi altri due maschi, Giuseppe Luigi (del 1919) e Pasquale Giuseppe (del 1921). Da giovane, Vito si occupò della conduzione delle terre di famiglia, ed in particolare s’impegnò nell’olivicoltura, nell’orticoltura, agrumicoltura e frutticoltura; dai Condello invece imparò il mestiere di mugnaio ed apprese i segreti dell’arte molitoria. Oggi non si sa dove Vito fosse stato mandato a svolgere il servizio militare in tempo di pace, né si conoscono con precisione le varie tappe della sua esperienza militare durante la guerra. Comunque gli eventi cruciali ed importanti della sua esistenza furono dapprima il coinvolgimento nell’eccidio di Cefalonia (a cui scampò come per miracolo) e poi la dura prigionia in Germania. Quando l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale, Vito Simonetti fu richiamato sotto le armi e fu arruolato come soldato nella Divisione “Acqui”. Nell’estate del 1943 egli faceva parte delle truppe italiane che presidiavano l’isola greca di Cefalonia, nel mar Jonio. Fino alla data dell’8-09-1943 la situazione degli Italiani a Cefalonia era stata molto tranquilla; i nostri fraternizzavano volentieri con la popolazione locale e si verificarono non solo unioni, ma pure alcuni matrimoni tra militari italiani e donne isolane. Ma dopo l’armistizio dell’8 settembre (stipulato dagli Italiani con gli Angloamericani) la situazione cambiò radicalmente. Nei due giorni susseguenti all’armistizio, i Tedeschi, che a Cefalonia contavano soltanto su 1800 uomini (rispetto ai diecimila militari italiani presenti nell’isola) avviarono con prudente cautela delle trattative con il comandante della Div.Acqui, gen. Gandin. Nel frattempo però il ten.col. Hans Barge faceva affluire nell’isola nuove truppe ed armi pesanti tedesche. L’11 settembre Barge mandò un ultimatum agli Italiani, con l’intimazione di consegnare le nostre armi ai Tedeschi. I nostri non cedettero; anzi, il 13 settembre, le batterie del capitano Renzo Apollonio aprirono il fuoco su due grossi pontoni da sbarco tedeschi che volevano scaricare i loro uomini dalle parti di capo San Teodoro. Il comandante Barge rispose con un altro ultimatum che conteneva l’ambigua promessa di far rimpatriare i soldati italiani che consegnavano le loro armi ai Tedeschi. Allora il gen. Gandin chiese ai suoi uomini di pronunciarsi su tre alternative: - il mantenimento della collaborazione con i Tedeschi; - oppure l’accettazione di consegnare loro le nostre armi; - o infine la resistenza armata contro di essi. Tramite un rapido referendum i nostri militari scelsero la via della resistenza armata contro le ingiunzioni tedesche. Il 15 settembre iniziarono le ostilità, che si protrassero fino al 22 settembre: decisivi furono gli interventi di artiglieria pesante e di mezzi corazzati, e soprattutto di 200 aerei Stukas che mitraglia-rono e bombardarono le nostre truppe. Dopo otto giorni di eroica resistenza e dopo la morte in com-battimento di oltre 1300 Italiani, i superstiti asserragliati attorno al capoluogo dell’isola - Argostoli - quasi completamente distrutto, alle ore 14 del 22-09-43 issarono la bandiera bianca e capitolarono. La vendetta tedesca fu terribile; Hitler stesso aveva ordinato che a Cefalonia «a causa del tradimento della guarnigione non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le armi». Il 24 settembre il gen. Antonio Gandin fu fucilato alla schiena; 340 ufficiali furono giustiziati a gruppetti nel cortile della tristemente famosa “Casetta rossa” nella penisola di San Teodoro, presso Argostoli. Il cappellano, padre Romualdo Formato, nel suo libro L’eccidio di Cefalonia così presentò la strage: «Tentare di descrivere in tutti i particolari la varia e multiforme opera di decimazione consumata dai tedeschi contro i nostri reparti, sarebbe impresa del tutto impossibile. Pochissimi sono i superstiti che possono raccontare….Ogni consuetudine di guerra fu trascurata e vilipesa! Ogni norma di diritto internazionale fu affogata nel sangue». Molto esiguo fu il numero di nostri militari sopravvissuti ai massacri di Cefalonia. La Guida Verde Michelin della Grecia (ed. 2002) scrive che essi furono soltanto 34. Il nostro Vito Simonetti fu, per l’appunto, uno dei pochissimi sopravvissuti alla carneficina. È assai difficile stabilire tutta la verità su come Vito sia riuscito a salvarsi e a sopravvivere all’ec-cidio perpetrato a Cefalonia; la sua vicenda presenta alcuni passaggi rocamboleschi, tante zone di ombra e, viceversa, così pochi elementi sicuri, da destare il sospetto che si tratti di una storia par-zialmente inventata, o desunta dalla trama di qualche fiction o film ispirati a episodi della 2ª guerra mondiale. In verità il nostro Simonetti non amava raccontare le sue vicissitudini di guerra e di pri-gionia; forse temendo di non essere creduto dai Francavillesi, mantenne su tali drammatiche vicende un dignitoso riserbo; solamente a qualche intimo familiare rivelò, peraltro in modo fram-mentario, quanto gli era successo a Cefalonia. Questa mia ricostruzione del modo in cui Vito riuscì a scampare all’eccidio, si basa sui ricordi dello stesso Simonetti (a me pervenuti indirettamente per voce di qualche nipote); sui libri di memorie dei Cappellani, don Luigi Ghilardini e padre Romualdo Formato, testimoni oculari delle stragi; sulla testimonianza preziosa del caporale Pietro D’Agostino (di Feroleto Antico) che, come scampato all’eccidio di Cefalonia e come reduce da campi di prigionia in Germania, visse vicende analoghe a quelle di Simonetti. Il nostro Vito era uscito indenne dai sanguinosi scontri tra Italiani e Tedeschi, svoltisi dal 13 al 22 settembre nell’isola greca di Cefalonia. Dopo la resa delle nostre truppe, Simonetti, insieme a migliaia di suoi commilitoni, era stato catturato dai Tedeschi. Subito ebbe inizio l’azione di rappre-saglia contro i nostri militari. I Tedeschi si accanirono, in primo luogo e con spietata efficacia, con-tro gli Ufficiali italiani, che vennero uccisi a gruppi ristretti o giustiziati addirittura uno alla volta.I nostri militari di truppa, essendo dieci volte più numerosi rispetto agli Ufficiali, subirono da parte della Wehrmacht un “trattamento” parzialmente differente. Qualche migliaio di nostri soldati, in particolare quelli che sembravano meno riottosi di carattere, più sani di salute e più robusti come struttura fisica, scamparono alle stragi, non già per ragioni umanitarie, ma per motivi puramente economici. Infatti i Tedeschi intendevano trasferirli in Germania per sfruttarli come manodopera a buon mercato, adibendoli ai lavori più pesanti e pericolosi, in miniere, cantieri, fabbriche e aziende agricole. Invece altri soldati più sventurati vennero massacrati a Cefalonia nella rappresaglia messa in atto prontamente dai Tedeschi. Per lo più questi soldati furono uccisi a raffiche di mitragliatrice, dopo averli radunati in gruppi più o meno folti. L’episodio più grave avvenne in una scuola dove man mano erano stati riuniti 600 nostri soldati, che alla fine vennero falciati dalle raffiche di mitra. Quasi a suggellare ignominiosamente la loro morte, i cadaveri delle povere vittime, anziché essere seppelliti nelle fosse, venivano recuperati dai soldati tedeschi, quindi trasportati sulla costa, e dopo averli adeguatamente zavorrati con carichi pesanti venivano buttati in fondo al mare prospiciente l’isola. Vito Simonetti fu coinvolto in una di queste esecuzioni di massa; sennonché il nostro soldato, colpito solo di striscio dai tiri del plotone d’esecuzione o dalle raffiche di mitra, cadde a terra tramortito venendo subito coperto e quasi riparato dai corpi dei commilitoni che gli crollavano addosso. Terminata la micidiale sparatoria, nel mentre i Tedeschi si accingevano a recuperare i ca-daveri, per trasportarli sui loro automezzi verso il mare, il nostro Vito, per quanto fosse rimasto gravemente ferito sul fianco posteriore sinistro all’altezza dell’addome, era riuscito a liberarsi dalla morsa degli altri cadaveri (probabilmente con l’aiuto di qualcuno che di nascosto aveva assistito alla strage); quindi era stato allontanato di soppiatto dal luogo del massacro. Nei giorni seguenti Vito fu in qualche modo curato; quindi la sua lunga ferita fu ricucita applicandogli dei punti di sutura. Non si sa se la cura e l’intervento di sutura siano stati prestati a Vito da parte di sanitari italiani oppure tedeschi; comunque il nostro ferito rimase nelle mani dei Tedeschi, che oramai avevano assunto il controllo dell’isola. Inopinatamente, grazie a questa ferita, Vito scampò una seconda volta alla morte. Infatti i Tedeschi tra fine settembre e primi d’ottobre 1943 predisposero il trasferimento dei prigionieri italiani, catturati a Cefalonia e a Corfù, verso i campi di concentramento e di lavoro in Germania. Per far evacuare dalle due isole questi prigionieri, i Tedeschi disponevano allora di tre piroscafi che, per quanto venissero stivati fino al massimo, non potevano trasportare con un unico viaggio tutta la massa dei nostri militari catturati. Perciò nella prima fase dei trasferimenti dalle isole Jonie verso la Germania furono imbarcati su queste navi da trasporto prevalentemente i prigio-nieri più efficienti o quelli che, quantomeno, si trovavano in discrete condizioni di salute, rinviando ad un secondo tempo il trasporto degli altri, più malandati, ancora infermi o convalescenti, ovvero feriti in via di guarigione, com’erano allora il francavillese Simonetti e il feroletano D’Agostino. Sennonché per colmo di sventura uno dopo l’altro quei tre piroscafi, urtando contro mine disseminate a migliaia nel mar Jonio o colpiti da bombe sganciate da aerei inglesi, colarono a picco provocando la morte di migliaia di prigionieri su di essi imbarcati. Il primo piroscafo affondò il 28 settembre 1943; il secondo colò a picco l’11-10-43 ed il terzo affondò il 13-10-43. Così scrisse il cappellano don Formato: «Se fossi partito il 13 u.s. (13 ottobre 1943) sarei morto in mare, come tanti miei fratelli, i cui cadaveri sono stati portati lontano dalle onde e inghiottiti dalle acque. Qualche cadavere è stato portato a riva, ma in uno stato così orrendo ed irriconoscibile che né io, né il Caporale Pietro D’Agostino…siamo riusciti ad identificare». A causa di queste gravi sciagure i trasporti dall’isola di Cefalonia furono per qualche tempo sospesi. Finalmente il 3-11-43 un altro piroscafo partì dal porto di Argostoli per trasferire i militari italiani superstiti verso i campi di concentramento e di lavoro sparsi nei paesi del III Reich (Austria, Germania, Boemia e Moravia, Polonia). È probabile che anche Simonetti sia stato evacuato da Cefalonia il 3-11-1943, per essere destinato ad un campo di prigionia e di lavoro coatto della Germania settentrionale. Il viaggio, prima in nave e poi in treno, che partendo da Cefalonia aveva come destinazione ul-tima qualche località della Germania del nord, già di per sé faticoso ed estenuante per l’eccessiva durata, diventava per i prigionieri un’esperienza terribile poiché si svolgeva in condizioni letteral-mente bestiali. Il cappellano don Accorsi così scrisse nel suo libro“Fuellen -Il campo della morte”: «Per giorni sepolti vivi nel carro di ferro, e la fame, e la sete, e il rullo delle ruote che macinano, e l’incubo e la morte, la morte di molti! E non è finito!... Un carro sudicio immondezzaio ha inghiot-tito i nostri poveri stracci e sotto e sopra i nostri stracci, i fratelli moribondi». Come altri presi prigionieri a Cefalonia, anche Vito Simonetti fu costretto a percorrere un lunghis-simo itinerario per giungere a destinazione. È verosimile che per compiere l’intero viaggio dall’isola greca alla meta finale, situata nella lontana Prussia nord-orientale, ci sia voluto più di un mese, a causa dei frequenti rallentamenti nella marcia dei treni, di continue improvvise fermate lun-go la linea ferroviaria, dei molti trasbordi da un convoglio all’altro, e di presumibili soste presso qualche “Durchgangslager”, ossia in quei “campi di transito” dove i prigionieri potevano, alla bell’e meglio, lavarsi e pulirsi, nonché ricevere qualche misero rancio. Ho incontrato parecchie difficoltà a individuare il nome esatto e l’ubicazione precisa della località dove Simonetti venne internato al termine del lungo viaggio di trasferimento. I suoi parenti mi dicevano genericamente che Vito era stato tenuto prigioniero nella Germania del nord. Per fortuna mi han dato in visione, ed ho potuto esaminare con cura, un documento ufficiale rilasciato a Simonetti dai Tedeschi. Grazie a questa opportunità, non solo ho potuto vedere una sua foto di quel triste periodo, ma da quel documento sono riuscito anche ad estrarre ed acquisire dati, informazioni e varie interessanti notizie. Il 13 ottobre 1944 le autorità tedesche rilasciarono a Vito Simonetti, che sicuramente allora era sprovvisto di documenti di riconoscimento, un “Vorlaeufiger Fremdenpass”, cioè un “Passaporto provvisorio per stranieri”. L’autorità che rilasciò quel passaporto era indicata tramite un timbro “Der Landrat”, ossia “Il Consiglio regionale”, entità del Reich germanico presente nei capoluoghi di distretto, più o meno equivalente alla Prefettura o alla Questura di una provincia italiana. Sulle pagine del passaporto di Simonetti appare una stampigliatura con bollo circolare che porta al centro l’immagine di un’aquila posata su una svastica (la croce uncinata, simbolo del III Reich); lungo il bordo del bollo è riportata per esteso la denominazione del Landrat che rilasciava il passaporto. Con molta difficoltà si riesce a leggere la seguente scritta in tedesco: Landrat des Kreises………., ossia Consiglio regionale del distretto di…….Il nome del capoluogo di distretto, inciso sul timbro con caratteri gotici e molto minuscoli è davvero difficile da decifrare; tuttavia confrontando paziente-mente questo nome inciso sul timbro con quello che era stato scritto a mano con la penna su due pa-gine del passaporto, sembra di poter leggere qualcosa come “Hätzen”, oppure “Lätzen” o “Lötzen” . Nel territorio della Germania attuale però non c’è nessun capoluogo di distretto con un nome del genere. Per fortuna poco tempo fa, nel libro di Martin Gilbert “La grande storia della seconda guerra mondiale”, ed. Arnoldo Mondadori, 2010, a pag. 725 mi è capitato di leggere questa frase: “Sul campo di battaglia, il 23 gennaio (1945), la IV Armata tedesca, che aveva presidiato la fron-tiera della Prussia orientale, si ritirò dalla fortezza di Lötzen”. Così scoprivo finalmente che in Prussia orientale, all’estrema periferia dei territori del III Reich, c’era una città di una certa impor-tanza denominata in lingua tedesca Lötzen. Dopodiché consultando l’Atlante internazionale del Touring Club Italiano (ed.1977), nell’indice dei nomi ho scoperto che la città prussiana di Lötzen, che si può scrivere anche Loetzen, da quando è passata alla Polonia, ha assunto il nome polacco di Gizycko. Fu proprio quella Loetzen (ora Gizycko) la città dove Vito Simonetti venne deportato come Internato Militare Italiano – I.M.I.. Oggi Gizycko è una città di 31.000 abitanti; ubicata su un istmo tra due specchi d’acqua pittore-schi, è diventata un importante centro di villeggiatura della regione dei Grandi Laghi della Masuria nella Polonia nord-orientale. Nel Medioevo i monaci tedeschi cavalieri dell’Ordine Teutonico ave-vano colonizzato quella regione insediandovi villaggi e cittadine (fortificate con torri, castelli o for-tezze) talvolta abbellite con palazzi, chiese ed altri edifici monumentali. Questa regione fu la culla di uno Stato che nei secoli successivi crebbe in estensione, in fama e in potenza militare, espanden-dosi dal piccolo Ducato originario fino a diventare il grande Regno di Prussia. Nell’ambito della Prussia orientale la regione dei Laghi Masuri, di cui Lötzen faceva parte, fu teatro di eventi impor-tanti nella storia tedesca: ad esempio nella I guerra mondiale, nel 1914, proprio in questi luoghi l’ar- mata tedesca, sotto il comando del feldmaresciallo Hindenburg, riportò grandi vittorie sull’esercito zarista russo. Poi nella II guerra mondiale, ad appena 30 km ad ovest di Loetzen, nella foresta di Rastenburg (ora detta in polacco: Ketrzyn) Hitler aveva fatto insediare il suo Quartier generale, de-signato con il lugubre nome “Tana del lupo” (Wolfsschanze). Da quel luogo ai margini del Reich, il Fuehrer seguiva l’andamento della guerra sia lungo il fronte russo, sia nel resto d’Europa; da quella “tana del lupo” Hitler impartì ordini, direttive, comandi che sconvolsero il mondo e distrussero la vita di milioni di esseri umani. Lassù nel Quartier generale di Rastenburg, il 20 luglio 1944 il Fuehrer visse ore particolarmente drammatiche. Alle 12,42 di quel giorno, fortunosamente scampò ad un attentato messo in atto dal conte von Stauffenberg, Ufficiale delle forze tedesche della riserva; l’esplosione della bomba uccise quattro Ufficiali in riunione con Hitler, mentre il Fuehrer se la cavò, riportando solo una lieve scalfitura ad una mano. Per quanto colto di sorpresa e scosso dall’attentato, Hitler recuperò subito il suo sangue freddo ed immediatamente prese le prime spietate contromisure per scoprire ed eliminare i congiurati che avevano ordito il complotto. Nel pomeriggio di quella stessa giornata a Rastenburg doveva arrivare Mussolini, per incontrarsi con Hitler e con lui fare il punto dell’anda-mento della guerra. All’arrivo il Duce si congratulò con il Fuehrer per lo scampato pericolo; poi l’incontro tra le due delegazioni proseguì in un’atmosfera alquanto tempestosa. Hitler era visibil-mente agitato e furibondo per il complotto ordito da esponenti delle sue stesse Forze armate. Il col-loquio con il Duce procedette in modo frammentario e sbrigativo, continuamente interrotto da mes-saggi in arrivo, da squilli di telefono, dagli ordini concitati che Hitler impartiva a destra e a manca, a chi gli era vicino e a chi si trovava a Berlino. Dopo un rapido accenno alle difficoltà che in quel momento la Germania attraversava, il Fuehrer deviò il colloquio verso il suo tema preferito, quello delle armi nuove e segrete che presto avrebbe messo in campo e che avrebbero ribaltato in suo favo-re le sorti della guerra. Alla fine del colloquio Mussolini, perorando la causa di migliaia di nostri soldati che, dopo essere stati catturati dai Tedeschi, erano costretti a lavorare in Germania, discri-minati e sfruttati sotto lo status di internati militari, anziché di prigionieri di guerra, ottenne da Hitler la promessa che in futuro sarebbero stati utilizzati in modo più consono alle loro capacità e attitudini, ed avrebbero goduto di un trattamento migliore. Forse anche Vito Simonetti ne trasse qualche beneficio; il rilascio del passaporto ne costituirebbe la prova. Esaminiamo attentamente tale documento, partendo dalla fotografia che ci offre una nitida imma-gine di Simonetti al tempo della sua permanenza a Loetzen. Vito è ritratto in abito civile; sotto un giubbotto grigio indossa una maglietta in tinta scura, con una chiusura lampo. L’espressione del volto, lo sguardo dei suoi occhi sembrano velati da una patina di malinconia. Simonetti, seppur di-messamente vestito, si presenta nel complesso come un uomo di aspetto gentile, dai lineamenti regolari, con il volto dalla pelle liscia, pulito, senza rughe o segni di cicatrici. Su due angoli della foto era stato impresso il bollo del Landrat. Al di sotto c’è la firma del titolare “Simonetti Vito”, vergata con calligrafia molto chiara. Di fianco alla firma appare un bollo circolare con la dicitura in italiano “Comitato Regionale Lombardo”; venne impresso un anno dopo quando Vito, finalmente rimpatriato, aveva sostato a Milano. Tutte le pagine del passaporto furono punzonate al bordo inferiore con il numero 38816G42. La pagina dei dati personali venne compilata nel modo seguente (in carattere corsivo e tradotti in italiano sono riportati i dati che nel documento originale furono compilati a mano ed in tedesco): - Nazionalità: italiana - Mestiere: mugnaio - Luogo di nascita: Francavilla Angitola, prov. Catanzaro - Data di nascita: 9 febbraio 1909 - Residenza o luogo di soggiorno: temporaneamente a Lötzen - Corporatura: media - Viso: rotondo - Colore degli occhi: castano - Colore dei capelli: nero - Segni particolari: taglio ricucito con sutura sul fianco posteriore sinistro e due dita senza le unghie. Il taglio sul fianco sinistro corrisponde a quella ferita che Simonetti riportò a Cefalonia nei giorni della rappresaglia tedesca. L’indicazione delle “due dita senza le unghie” è invece un particolare assai strano: i Francavillesi, che lo conoscevano, ricordano che Vito al ritorno dalla prigionia aveva alcune dita, non solo prive di unghie, ma parzialmente amputate delle falangi. Non si sa come mai Vito avesse subito queste amputazioni alle dita; se siano da addebitare a ferite non curate a dovere o invece a infezioni; oppure se siano state provocate da torture inflittegli, o più semplicemente se fossero conseguenza di qualche infortunio accidentale alle mani occorsogli mentre lavorava al servizio dei Tedeschi. La questione delle dita amputate rimane avvolta nel mistero. Comunque per tali mutilazioni gli venne giustamente corrisposta una pensione minima da invalido di guerra. Come ambito territoriale di validità il passaporto valeva unicamente nel Reich germanico e in Italia. Riguardo alla durata di validità c’era scritto: “Il passaporto non è più valido a decorrere dal 24 ottobre 1944, a meno che non venga prorogato”. Seguiva la seguente certificazione: “Si attesta qui di seguito che il titolare è la persona ritratta nella fotografia e che ha vergato di suo pugno la firma posta sotto la foto stessa. Lötzen, il 13 ottobre 1944”. L’autorità emittente era indicata con la stampigliatura “Der Landrat” e con una firma illeggibile poste a fianco del bollo ufficiale – l’aquila sopra la svastica. L’ultima pagina compilata dall’autorità tedesca conteneva un visto d’uscita, impresso su una pagina bianca con apposita stampigliatura. Nel visto è scritto: “74/44 - Franco di tasse per il rilascio - Annotazione di visto a Vito Simonetti per un solo viaggio di uscita dal territorio del Reich, attraverso un valico di frontiera ufficialmente riconosciuto, con meta l’Italia. Il visto può essere utilizzato per attraversare la frontiera fino al 24 ottobre 1944. Lötzen, il 13 ottobre 1944 Il Landrat firma illeggibile” Per quanto illeggibile, la firma sul visto è la stessa di chi rilasciava il passaporto. In realtà il rilascio del passaporto abbinato ad un visto d’uscita di validità così breve (10 giorni ap-pena) nascondeva molti inganni. In quel periodo gli stessi cittadini tedeschi incontravano difficoltà a viaggiare individualmente e liberamente nel territorio del Reich. A maggior ragione gli internati militari, come Vito Simonetti, in Germania non avevano alcuna libertà e possibilità di movimento. I loro viaggi erano “trasporti” a gruppi, effettuati a bordo di autocarri militari o di carri merci ferro-viari, sotto la scorta di pattuglie tedesche di vigilanza; erano per lo più faticosi trasferimenti da un campo di lavoro/prigionia all’altro. Nell’autunno del 1944 la situazione delle truppe tedesche ai confini orientali del Reich si fece drammatica; il 16 ottobre l’Armata Rossa irruppe nella Prussia orientale. Le strade, che passavano per quelle contrade e che attraversavano città come Loetzen e Rastenburg, subito si riempirono di sfollati e profughi che fuggivano verso occidente. Quel 16 otto-bre l’avanguardia dell’Armata Rossa arrivò a soli 50 chilometri da Loetzen. Forse, sotto l’incalzare delle truppe sovietiche, le autorità tedesche decisero di spostare verso occidente anche gli internati italiani; quindi, illudendoli di dargli un permesso per rientrare finalmente in Italia, fornirono loro un passaporto. Anche se il visto d’uscita aveva una validità assai breve, quel passaporto costituiva pur sempre per i nostri internati un prezioso documento d’identità personale. In assenza di informazioni precise io arrischio a collocare la partenza (o meglio l’evacuazione) di Simonetti da Loetzen in una data compresa tra il 16 ottobre e il 20 novembre 1944, giorno in cui Hitler lasciò per sempre il suo Quartier generale di Rastenburg. Dopodiché nel racconto delle vicende di Vito Simonetti, non aven-do trovato – per un periodo di tempo abbastanza lungo – nessuna notizia su di lui, sono costretto a fare un volo nello spazio e nel tempo, saltando da Loetzen/Prussia Orientale (novembre 1944) a Milano (probabilmente a maggio/giugno 1945). Per fortuna sono riuscito a ricavare, da quel prezioso passaporto tedesco, qualche informazione frammentaria sul passaggio di Vito per il capoluogo lombardo, al momento del suo rimpatrio; pec-cato che non sia segnata alcuna data, cosicché non si può sapere quanto sia durata la sua sosta a Milano. Un timbro a bollo circolare ci informa che Simonetti passò presso un “Comitato Regionale Lombardo”, non meglio identificato. Sicuramente si recò presso il “Comando Piazza di Milano”del C.L.N.A.I. – C.V.L., ossia Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia – Corpo Volontari della Libertà, che aveva assunto il governo amministrativo della città; il passaggio di Simonetti attraverso gli uffici del CLNAI è confermato sia da un bollo circolare, sia da una stampigliatura rettangolare che porta una dicitura molto significativa “assistenza militari internati in Germania”. Simonetti passò ancora da un altro ufficio del Comitato Liberazione Nazionale, così precisamente designato: “C.L.N. – Città di Milano – Ufficio Assistenza Rimpatriati Germania”. Nei suddetti uffici ed in altri centri d’accoglienza di Milano, non menzionati esplicitamente, Vito trovò aiuto, assistenza materia-le, vitto e alloggio. Qualche organismo assistenziale, forse del CLN, gli diede del danaro contante; precisamente un timbro attesta l’erogazione della somma di mille lire: “Pagato il sussidio in L. 1000”, seguito dalla firma di Simonetti a mo’ di ricevuta. Sul passaporto sono riportati altri due appunti interessanti. - 1) La parola “Indumenti” seguita da una sigla e dal numero 200 (coperto da un tratto di penna, come per fare una cancellatura); dovrebbe segnalare che a Vito, rimpatriato dalla Germania, erano stati forniti degli indumenti.
- 2) Un indirizzo scritto a matita: “S. Lucia Foglietti / Via G. Uberti 2 / MI”. Chi era questa donna? La S. potrebbe indicare “Signora” o forse “Suora”; chissà se era un’addetta all’accoglienza dei militari rimpatriati? Forse una familiare di qualche eventuale compagno di prigionia di Simonetti? O chissà quale altra persona? Dopo la sosta a Milano, Vito Simonetti poté finalmente tornare a casa, in famiglia, alla sua terra natale. Ma per il resto della sua esistenza, come un marchio incancellabile, come stigmate indelebili portò, impressi sul suo corpo e nel profondo del suo animo, i segni delle sofferenze fisiche e morali patite prima a Cefalonia e poi in prigionia. Sebbene fosse un uomo di gradevole aspetto ed il primo maschio di una stimata famiglia, Vito non volle prendere moglie. Introverso, schivo e riservato, diffidente con gli estranei, anziché sprecare il suo tempo con la gente del paese, preferiva trascorrere le sue giornate in campagna, a vigilare sui lavori e sui raccolti agricoli stagionali. Nel tardo pomeriggio ritornava nella casa paterna; nella quiete domestica assaporava momenti di serenità; alle volte giocava e scherzava con qualcuno dei nipoti, circondato dall’affetto dei familiari. Vito Simonetti morì all’improvviso a Francavilla il 7 ottobre 1965, all’età di 56 anni. Non avendo avuto modo di conoscerlo personalmente mi piace rievocarne la figura negli anni della sua maturità tramite i versi affettuosi del “ritratto” che gli ha dedicato suo nipote, il dottor Enzo Simonetti: Zio Vito Grande, calvo, senza più riccioli, col sorriso sempre sul viso. Ad ogni tuo passo, della casa degli avi, vibravan le travi pazienti ed antiche. Sulle mani, sul corpo, dolenti di Cefalonia le stimmate avevi. Non le ostentavi, a chi di noi domandava, rispondevi: - Dovere -, poiché nella Patria credevi. Camicie a scacchi, sol per te da Ninì preparate. Di velluto l’immensa giacca indossavi. Nelle tasche, che mai avean fine, arance, nespole e mandarini dalla valle dei Duchi portavi. Da Cottura, tornando per casa, mandorle, prugne e ciliegie rosate, per le sorelle ed i nipoti adorati. Quell’ultima sera, la famiglia d’intorno, a lungo giocasti con Materesa, poi salutasti dicendo: - Presto ritorno -, Al mattino, venne piangendo Michele per dire a Luigi della tua dipartita.
Poche delucidazioni per meglio individuare località e persone indicate nella poesia: - Ninì: colei che confezionava camicie a Vito era la cognata Nina Rondinelli, moglie del fratello Giuseppe Luigi Simonetti, e madre di Vincenzo, autore della poesia. - valle dei Duchi: valletta piuttosto pianeggiante sulla riva sinistra del rio Talagone; essendo facilmente irrigabile era terra particolarmente ubertosa; suddivisa in minuscoli fazzoletti vi si coltivavano ortaggi e legumi prelibati, nonché diverse specie di agrumi e altre piante da frutto. La gente di Francavilla la chiama valle dei “Luchi”; ma essendo posta immediatamente a ponente e sotto il castello dei Duchi dell’Infantado, secondo Enzo Simonetti doveva essere un tempo l’orto più bello, il giardino d’agrumi, il “barco dei Duchi”, antichi Signori di Francavilla. - Cottura: in molti paesi calabresi questo toponimo designa quegli appezzamenti rurali, spesso in vicinanza dei centri abitati, dove, per la feracità del suolo e la felice posizione ed esposizione del terreno, si praticavano le coltivazioni più redditizie e più pregiate, la coltura per eccellenza, in dialetto “cottura” . - Materesa: vezzeggiativo per Maria Teresa Simonetti, la nipotina con cui zio Vito amava giocare; figlia di Luigi e sorella di Vincenzo, autore della poesia. - Michele e Luigi, entrambi fratelli di Vito Simonetti.
^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^ Concludendo il racconto delle vicissitudini di guerra e prigionia di Vito Simonetti, voglio esternare questa mia considerazione. Vito, primo maschio dei Simonetti, come internato militare venne trasferito, a sua insaputa, a neppure 30 km di distanza dalla “tana del lupo”, il luogo da cui Hitler dirigeva le operazioni e controllava l’andamento della guerra. A sua volta Vincenzo, terzo maschio dei Simonetti, per rispettare il giuramento di fedeltà allo Stato italiano, come funzionario amministrativo del Ministero degli Interni, seguì a Salò il governo della Repubblica Sociale Italiana, trovandosi così vicinissimo a Mussolini. Pertanto le alterne vicende della guerra portarono i fratelli, Vito e Vincenzo Simonetti, a risultare i due francavillesi che si trovarono più vicini “topograficamente” ai due attori principali sulla scena del secondo conflitto mondiale, il Fuehrer tedesco e il Duce italiano. Nessun altro francavillese venne a trovarsi tanto vicino ad Hitler come capitò a Vito Simonetti; nessun francavillese fu vicino a Mussolini quanto lo fu Vincenzo Simonetti.
VINCENZO DAVOLI
(Fonti: archivio Ins. Vincenzo Simonetti; trascrizioni di Vincenzo Davoli)
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