Tra storia e leggenda: il “Drago” e la “Grotta con i pulcini d’oro”
Labile è il confine tra storia e mito ed infiniti sono i casi in cui verità e fantasia hanno rotto gli argini finendo per fondersi armoniosamente. Spesso la contaminazione fluida e convincente del vero ha dato origine a racconti che col tempo hanno acquisito una credibilità che radicatasi poi nel patrimonio culturale di un popolo è stato difficile rimuovere. Il mito, il fantastico talvolta avvinghiano la realtà e l’avvolgono in una coltre impenetrabile che ne impedisce il discernimento; la contaminazione in alcuni casi è stata talmente perfetta e persuasiva da rendere odiosi o inaccettabili anche i tentativi di chi voleva epurare i fatti per riportarli almeno nella sfera del verosimile. Quanto è difficile scalfire un mito o una leggenda! Del resto Schliemann nella sua ricerca della città di Troia non portava sempre con sè “ l’ Iliade” di Omero e gli archeologi nel Lazio non giravano con “l’ Eneide” di Virgilio? Non c’è popolo o regione del mondo che non abbia le sue credenze esclusive con i suoi dei, semidei, eroi, folletti, o bestie straordinarie. Il mito ha poi la capacità di nobilitare le origini di un luogo o di un popolo o magnificare le imprese di un singolo. Quante notizie stravaganti e fantasiose ha diffuso il Barrio nella sua opera nel tentativo di rendere illustri i natali di luoghi umili della Calabria. Eppure il mito può legarsi ad un luogo con dinamiche diverse, una “ab antiquo”, l’altra più moderna che scaturisce dalla verve creativa (letteraria) di chi lo vuole partorire. Era il 1981 quando Vittorio Torchia pubblicò “Il Paese del Drago”opera mai sufficientemente celebrata, accantonata oggi nei meandri dell’oblio. Lo scrittore dopo le poesie e il suo taccuino autobiografico volle esplorare la via del racconto e lo fece magistralmente regalandoci pagine evocative di una Francavilla operaia , popolata da uomini semplici e straordinari nello stesso tempo. Come dimenticare i personaggi immortalati dalla sua penna? Quanto sarebbe utile adottare questa narrativa nelle nostre scuole per perpetuare “la francavillesità”.
Uno di quei racconti egli lo volle dedicare al viale del Drago: “era una lunga linea retta piegata da due curve e fiancheggiata da pioppi antichi. Cominciava dopo la Chiesa degli Angeli ….. raggiungere il Drago, passeggiare al Drago è stata la prima aspirazione d’indipendenza di ogni ragazzo francavillese quasi un segno d’emancipazione……. La piazza e il Drago i due poli di Francavilla…..il Drago appartiene alla storia di ogni francavillese….le più balde generazioni del mio paese sono cresciute al Drago ” Il Drago quindi non rappresentava solo una via, ma una vetrina, il salotto del paese o una appendice di casa propria, una pietra miliare nella vita dei giovani di Francavilla. Calcare quella galleria di pioppi sanciva il raggiungimento della maggiore età che non coincideva necessariamente con i canonici 18 anni. Anche per noi degli anni 60 vigeva come un divieto a praticarlo perché raggiungerlo voleva dire uscire dalla patria potestà e nella famiglia patriarcale di un tempo ciò spesso risultava dannoso non solo per ragioni economiche, ma perché portava pericolose concorrenze in casa dove tradizionalmente comandava un solo uomo, inutile rimarcare che del gentil sesso solo le operaie di ritorno dai campi potevano attraversarlo in fretta e ben coperte. Chi raggiungeva il Drago era uomo idoneo alla fatica dei campi o pronto alla più dolorosa emigrazione, ma anche studente libero di uscire dagli stretti confini paesani per assaporare le prerogative degli emancipati, comprese quelle più libertine. Vittorio Torchia, in quelli che sarebbero stati gli ultimi anni della sua vita terrena, nonostante avesse limitato le sue visite a Francavilla – risiedeva da anni a Taormina - aveva colto i mutamenti irreversibili del paese “il Drago stesso è cambiato, non ha più pioppi, si gioca raramente al formaggio ma in compenso si vedono belle fanciulle a passeggio come si vedono a Bagdad a Torino e a Palermo, egli però mai avrebbe potuto immaginare che le pagine del suo libro dedicate a quel viale avrebbero creato un marchio, un simbolo, che sarebbe diventato poi il sinonimo del paese stesso. Ecco dunque come nasce un mito moderno.
Francavilla dunque è il paese del Drago non per la sua morfologia apprezzabile solo oggi dall’alto in virtù delle moderne riprese aeree, ma per quel tratto di strada esclusivo che ha trovato nell’illustre poeta il suo straordinario cantore. Già il Drago! Mi sono sempre arreso ai tentativi di dare una risposta allo strano accostamento del nome di un ruscello di un piccolo paese della Calabria a quello di una creatura fantastica. Il Drago appartiene sì a molte culture ( cinese e nord-europee), ma nel medioevo solo i popoli anglosassoni e bretoni alimentano i loro racconti con queste enormi bestie che riescono a librarsi in volo, a sputare fuoco e ad allearsi alcune volte con i malvagi ed altre con i cavalieri senza macchia. Il drago arriva con queste sfumature in Calabria con i Normanni, poiché nelle nostre terre la bestia rappresentava l’incarnazione del maligno, quello che San Giorgio aveva sconfitto in un suo celebratissimo combattimento. Ritornando al nostro viale con i suoi pioppi, la fantasia fa strani voli quando impatta in quella “Grotta coi pulcini d’oro” che rompe il suo percorso dalla parte oggi non alberata. A questo punto si è disorientati scoprendo che la leggenda, ma è meglio parlare di rituale funebre che circonda questa cupa spelonca, ormai ignorata come se fosse un roveto, è tipicamente longobarda. Di questo popolo molto rimane ancora da scoprire, fin dove esso penetrò realmente in Calabria? Sappiamo che era organizzato in “fare” ossia in gruppi di famiglie discendenti da un unico capostipite le quali s’insediavano in modo autonomo e indisciplinato in aree non necessariamente contigue del meridione (tra le tante ipotesi fatte circa la fondazione della vicina Castelmonardo una riguarda proprio una fara longobarda e non a caso la Grotta coi pulcini d’oro partendo da Francavilla sbucava in quel sito) In molti territori della Calabria si conservano ancora oggi impronte tipiche di quella gente, la credenza della chioccia con i pulcini d’oro è poi condivisa da numerosi luoghi dominati da quel popolo.
Ogni antica civiltà s’è contraddistinta per la diversa concezione della morte e dell’oltretomba per cui molto differenti furono in passato i cerimoniali funebri seguiti. Il cristianesimo, pur ribaltando l’escatologia dei popoli convertiti, non riuscì a spazzare completamente i riti dei vecchi credi, del resto al presente non manteniamo anche noi usanze folkloristiche pagane? Il popolo longobardo convertitosi dall’arianesimo al cristianesimo mantenne vivo il rituale funebre della chioccia con i pulcini d’oro per cui accanto al corpo di ogni longobardo morto onorevolmente si continuò a collocare all’interno del sepolcro, per lo più una grotta naturale, le sagome di una chioccia con i suoi pulcini, il metallo impiegato variava a seconda delle condizioni economiche del defunto: nel caso di Teodolinda per esempio si usò l’oro, ma molto frequentemente si ricorse a chiocce e pulcini in carne ed ossa. Ciò non rispondeva ad un mero scopo ornamentale ma ad un rituale ben preciso, la chioccia per quel popolo simboleggiava la rinascita, il simbolo della vita stessa. Rimane da capire a questo punto la relazione tra la nostra grotta e quel misterioso popolo.
28-8-2012 Lorenzo Malta
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