Benvenuti nel sito di Giuseppe Pungitore, dell'ing. Vincenzo Davoli, di Mimmo Aracri ed Antonio Limardi, punto d'incontro dei navigatori cibernetici che vogliono conoscere la storia del nostro meraviglioso paese, ricco di cultura e di tradizioni: in un viaggio nel tempo nei ruderi medioevali. Nella costruzione del sito, gli elementi che ci hanno spinto sono state la passione per il nostro paese e la volontà di farlo conoscere anche a chi è lontano, ripercorrendo le sue antiche strade.

ILARIO TRANQUILLO, STORICO DI FRANCAVILLA ANGITOLA

E DELLA FAMIGLIA MANNACIO*

 

        di Foca Accetta

 

È noto che la storiografia contemporanea ha eliminato e spazzato via i “topoi” degli eruditi locali, cioè la descrizione di una società felice e prospera, la rivendicazione di origini remote e mitiche attribuite a divinità o a eroi della guerra di Troia,[1] e che nello stesso tempo, ha riconosciuto al monografismo erudito il merito di aver sottratto all’oblio degli uomini e alla forza distruttrice del tempo una enorme quantità di documenti e di testimonianze del vivere quotidiano.

          La Dedica che Ilario Tranquillo (1668-1743) - professore di Teologia e primo canonico della chiesa collegiata di Pizzo - fece a Tommaso Mannacio (1667-1739) nella sua Istoria apologetica dell’antica Napitia (Napoli, 1725), presenta tutte le caratteristiche, positive e negative, evidenziate dalla storiografia.

          Quelle pagine - utilizzate da numerosi studiosi per ricostruire la storia di Rocca Angitola e dei suoi casali[2] o per giustificare le remote origini del proprio borgo[3] - sono in realtà il tentativo d’illustrare le vicende di Francavilla e della famiglia Mannacio. Il risultato è un insieme di contes fantastiques, di ragionamenti sillogistici, di notizie che hanno un riscontro documentale, di testimonianze dirette.

          La Dedica, scritta in forma epistolare e datata 31 gennaio 1725, è dichiaratamente propensa a soddisfare esigenze araldiche:

 

A rendere famosa l’istoria del Pizzo mancava il solo Nome di V.S. Illustrissima, onde essendo stato impreziosito dalla grandezza di quello, acquisterà ella varie esorbitanze di glorie, sì per stare sotto i suoi auspici sì per vederselo tutelare. Ora per far conoscere al mondo che ho fatto scelta di suggetto ottimo la bisogna ricerca ch’io faccia risplendere queste poche carte co’lumi della vostra prosapia.[4]

 

          A tal fine la storia della famiglia Mannacio è sviluppata dal Tranquillo seguendo un percorso narrativo che ne illustra le origini e le virtù religiose, le virtù sociali e civili. Nelle intersezioni del discorso sono inserite le notizie relative alla storia di Rocca Angitola e di Francavilla.

          Il Tranquillo, radicalizzandolo all’estremo, utilizza con disinvoltura il “topos” delle origini. Infatti, basandosi su congetture, che lo portano ad arbitrarie conclusioni, piuttosto che su argomenti storicamente validi, sostiene e proclama l’origine greca della famiglia Mannacio:

 

La vostra famiglia fioriva e pompeggiava alle glorie nell’anno 950 di nostra salute, quando fu fabbricata Francavilla, e ciò si raccoglie fondatamente dal sapersi anche fin ad oggedì che una delle porte di Francavilla sia stata chiamata Monacio, oggedì Monace, per dar con ciò onore al valoroso Alfiero Monacio [...] essendo stati tutti i fondatori di Francavilla Crissei, cioè nati in Crissa, o dependenti ed originati da Crissa, posso ragionevalmente raccogliere che l’onore fatto da Crissei alla vostra famiglia fu cagionata perché i vostri più antichi, anzi antichissimi antenati furono parte della fondazione di Crissa in compagnia di Crisso [...]. Narra Giovanni Boemo che la Grecia, illustre regione dell'Europa, è adornata d’una nobilissima provincia, che Focide vien chiamata, la quale fu ne tempi antichi famosissima, perché teneva nel suo seno, città molto nobili delle quali era una appellata Focea, e Focesi erano chiamati i suoi cittadini. Da tal città Focea usciti nobilissimi Eroi, tra cui vi furono i vostri antichissimi Antenati, s’inviarono verso Troia [...] sotto la condotta di Crisso fratello di Panopeo, vinsero l'inclita città di Troia da cui poscia partiti, spinti da venti contrari approdarono in questo Golfo di Santa Eufemia; ed havendo fabricato, presso il fiume Angitola una città le diedero, ad onor di Crisso lor condottiero, il nome di Crissa, oggedì Rocca Angitola.[5]

 

          Per quanto riguarda il valoroso Alfiere Monacio e quindi le virtù militari dei Mannacio, il Tranquillo si rifugia in un “istorico rapportato, presentatomi da verissima tradizione” per dar forza al contes fantastiques del suo argomentare:

 

Essendo il nostro regno pieno di sanguinose stragi, recate dalla tirannica violenza de’ Saraceni, e ritrovandosi in un fiero combattimento un valoroso guerriero della Famiglia Mannacio, onorato col posto d’Alfiero [...]. Or mentre il valoroso campione era nel bollore della battaglia, avvenne che lanciatosi contro di lui un intiero squadrone di Saraceni li fu troncata la sinistra mano, che restò dal braccio distaccata; quindi perciò il valoroso Alfiero entrò in tanta furia che divenne quasi un leone; onde con terrore dell’esercito nemico, inalberò la sua bandiera, e tenendola ben stretta, tra il suo petto e il gomito, cominciò con tanta intrepidezza a maneggiar contro i nemici la spada, che scorrendo dappertutto atterrò a somiglianza di un turbine impetuoso, quanto a lui vi s’oppose; e però quasi a lui solo s’ascrisse la vittoria ottenuta [...] la sua intrepidezza obbligò il Generale dell’esercito cristiano […] ad esclamare viva l’Alfier Monacio [...] e con ciò additossi, che il nobile Alfiero essendo stato uno solo, ebbe quasi il valore d'un esercito, imperoché Monos è nome greco e significava uno solo, e Acies è nome latino e significa esercito il ordinanza.[6]

 

          Le prime notizie documentate relative ai Mannacio sono della fine del secolo XVI, inizio del XVII allorquando tal Paduano Mannacio viene indicato nelle fonti sindaco di Francavilla, nel biennio 1594/95,[7] e fondatore, nel 1621, della cappella di S. Maria di Loreto, eretta dentro la chiesa di S. Pietro Apostolo con una rendita di 25 ducati.[8]

          La documentazione archivistica del XVII e XVIII secolo permette di verificare “l’esimia pietà cristiana” dei Mannacio, collegata sia ad atti di pura e semplice devozione, sia a comportamenti che hanno come obbiettivo la conservazione e l’integrità del patrimonio familiare.

          E’ opportuno ricordare che nell’età moderna l’incremento dello stato ecclesiastico dipendeva, anche e soprattutto, dai vantaggi fiscali, reali e personali, di cui usufruivano tutti i religiosi nel Regno di Napoli. Infatti, il patrimonio assegnato agli ordinandi “per ascendere alla prima clerical tonsura e successivamente agli ordini sacri” era esente da gravami fiscali, così come i beni delle cappelle, delle chiese, dei conventi. Per questo motivo lo stato ecclesiastico veniva sfruttato dal notabilato come paravento fiscale: attraverso la formula del sacro patrimonio i sacerdoti e i religiosi in genere divenivano beneficiari e custodi di una consistente quota di beni familiari, anche perché era facile prevedere che, alla loro morte, essi facessero ritorno al ramo maschile. Il 10 gennaio 1666 Marco Antonio Mannacio assegnava al figlio Nicola la casa (“consistente in più membri posta dentro questa terra di Francavilla [...] con tutto l’introito che si ritrova dentro [...] così mobili, come suppellettili, oro, argento, rame et ogni altra cosa”) che in genere veniva riservata al primogenito poiché rappresentata il passato degli avi, il prestigio economico e sociale della famiglia, il mulino sito in contrada Gurnella, che costituiva parte della forza imprenditoriale dei Mannacio, due vigneti, uno in territorio di Acconia in contrada Turcararo e l’altro in agro di Francavilla in contrada Trivio, e infine un fondo in contrada Russomanno affinché potesse “ascendere al grado sacerdotale”.[9]

          Due anni dopo, precisamente il 22 maggio 1668, Pietro Francesco Mannacio assegnava, per il medesimo scopo, al figlio Michelangelo tre appezzamenti di terreno ubicati in territorio di Francavila in contrada Trivio, Russomanno, Spilinga.

          Il sacerdote D. Nicola Mannacio con i beni del sacro patrimonio fonderà, il 23 settembre 1703,[10] la cappella di S. Anna, eretta dentro la chiesa matrice di S. Foca, con l’obbligo di celebrare due messe al giorno e di “maritarsi un’orfanella per ogni anno perpetuamente”.[11] Secondo il Tranquillo

 

cotal obligo, per anni dodeci durò col peso di maritarsene due, onde perciò in ogni anno, nel dì di S. Anna, fattesi da' RR. Parochi le cartelle, co’ nomi dell’orfanelle, si tira a sorte il nome d’una delle medesime a cui si da la dote di scudi venticinque.

 

 Tale circostanza è confermata nei capitoli matrimoniali di Anna Sgalera, stipulati il 26 febbraio 1775, ove si legge:

 

In primis si promette a [Foca Parisi] ducati venticinque che si deve conseguire dalla famiglia Mannacio e Vitale come amministratori in solidum della cappella di S. Anna eretta nella chiesa matrice di S. Foca dal fu Nicola ed altri della famiglia Mannacio, col peso di maritaggio di venticinque ducati a un’orfana l’anno et altri pesi come dalla fondazione e testamento.[12]

 

          E’ da ritenere invece infondata la notizia, riferita dal Tranquillo, che la cappella del SS.mo Rosario, eretta nel convento di S.M. dell’Annunziata dei pp. Domenicani, fosse di jus patronato della famiglia Mannacio; infatti, apparteneva all’omonima confraternita alla quale erano iscritti i membri di quella famiglia.

          Tuttavia, la devozione alla Vergine del Rosario è testimoniata da un ex voto di Nicoletta Mannacio. Il 12 maggio 1782, Domenico Soriani di Monteleone, procuratore della Nicoletta, consegnava ai responsabili della confraternita del Rosario (il priore Francesco Palmarelli, il primo assistente dott. fisico Giuseppe Salatino, il procuratore Giuseppe Barbina)

 

un vestito intiero di drappo frascato in oro di vari colori con altre robbe insieme componenti detto vestito [...] quali vestito e robbe constano di una veste di donna intiera guarnita nelle maniche col frisillo d’oro, con il montesino d’innanzi e colla vittuccia, una petiglia del medesimo drappo cola nocca in mezzo, una sciappa frascata tutta in oro, un paio di camiciotti di tela batista bianchi col pizzello a due registri e uno scallino di tela costanza col pizzello attorno; quali vestito e robbe sopra descritte ed annotate si regalano e si donano per voto fatto e per sua devozione alla Sacra Immagine della Beata Vergine Maria del Rosario di questo prefato luogo [di Francavilla], per uso e commodo [...] per onoranza della Santa Immagine specialmente nei giorni festivi e processione.[13]

 

          Altri elementi che dimostrano la devozione e la carità cristiana dei Mannacio sono:

 

La bellissima statua di Maria Vergine e Madre di Dio posta dentro la Venerabile Chiesa de’Padri Riformati di S. Francesco nell’altare maggiore, la quale è carica d’oro, fatta a spese del dottor D. Pietro Francesco Mannacio, come a piè della statua si legge [...] una campana di quattro cantara, ove furono le vostre misteriose insegne intagliate, posta nel convento de’Padri di S. Domenico [...] inoltre nella chiesa del medesimo convento il dottor Pietro Giovanni Mannacio fin dall’anno 1519 (?) rinovò di finissimo una lapide di marmo del sepolcro di sua famiglia, posta davanti la cappella del SS.mo Rosario. Parimenti gli antenati vostri sono stati limosinieri co’ poveri [...] D. Decembre Mannacio, avo del dottor Don Pietro Francesco Mannacio, dispensava nel S. Natale di Giesù a poveri, che non erano pochi, varie e copiose limosine [...] il dottor Pietro Francesco Mannacio nella fiera di S. Lucia vestiva le povere con gonne, maniche e con senili [...] nel S. Natale dispensava a’poveri una fossa di grano e più porci, e ne’giorni di Pasca li dava un’altra fossa di grano e quantità di formaggio, appunto come costumò di fare il signor D. Decembre.[14]

 

          Per quanto riguarda la situazione patrimoniale ed economica della famiglia Mannacio, il Tranquillo la giustifica con l’intervento della Divina Provvidenza; infatti, scrive:

 

Quindi avvenne che le grandi limosine solite a dispensarsi con benefica profusione de’vostri antenati premiò Iddio tanta loro liberalità avendo arricchito la Casa vostra di tanti beni che pagava anticamente di fiscali ogn’anno scudi duecento ventiquattro, del che si può raccogliere il gran novero de’fondi, donde tanti redditi provenivano, come il tutto chiaramente si legge in un manuscritto di vostra casa [...] e parimenti da ciò si può raccogliere quanto sia stato lo splendore di vostra casa.[15]

 

          Essa, invece, come si vedrà in seguito, è la conseguenza di una oculata e accorta applicazione di norme successorie e di consuetudini, volti a garantire l’unità del patrimonio preservandolo da divisioni che potevano indebolire il potere - non solo economico - della famiglia, di alleanze matrimoniali.

          Da un inventario del 1740, che regista l’eredità di Tommaso Mannacio, è possibile ricavare notizie precise e dettagliate circa il patrimonio immobiliare e fondiario, comprendente:

 

Un fondo in più membri detto Citrara, Surdo e Valle dell'Olmo di tumulate cento e dieci in circa alborati con ulivi, celsi, fichi, ed altri alberi fruttiferi, limito fiume corrente, via publica ed altri notorii confini; un fondo detto Cardirò di tumulate novanta alborato con ulivi e fichi, limito la via publica ed altri suoi notorii confini; un fondo detto Garciopoli alias D. Michel’Angiolo confina alla via publica ed ha un territorio della Cappella di S. Anna jus Patronato della famiglia Mannacio di tumulate dieci in circa con ulivi, fichi ed altri alberi; un pezzotto di territorio alla Fontanella limito la via publica d’una tumulata in circa con pochi gelsi; Pizzullo, Garciopoli, Furno e Chiusella di tumulate cento dieci in circa con ulivi, celsi, fichi, terre seminatorie [...] con due mulini giacenti, limito la via publica ed altri suoi notorii confini. [...] Palazzo d’abitazione limito la chiesa Parrocchiale [di S.Foca] con sei camere nel quarto di mezzo, tre nel quarto di basso, tre tavolati e con tre altre nelle parti inferiori d’esso palazzo; una vigna nel Pizzo limito la via publica e alli beni del R.do D. Tomaso Satriano di tumulate quattro in circa chiamata la Pietà alborata con gelsi, fichi, olivi, vigne ed altri alberi fruttiferi; una casetta in detta città con una camera ed un basso limito la via publica  ed altri notorii confini posta nella strada del Carmine; [...] più in detta città un luogo dove s’era principiato dal detto fu D. Tomaso un palazzo; più una metà mulino in città che si possiede in comunione col sig.re D. Marco Antonio Contestabile [...]; una altra casa in Francavilla limito quella delli eredi del R.do D. Giacinto Cauzzi tre camere in filo, una camera di sotto e una stalletta.[16]

 

          La lettura dei testamenti rivela che nella famiglia Mannacio non mancano di riverbarsi comportamenti, che hanno lo scopo di impedire la frammentazione e la dispersione del patrimonio familiare. Lo stretto rapporto tra cognome/patrimonio, che impicava limitazioni nelle scelte matrimoniali, avviamento al sacerdozio, monacazioni per evitare lo smembramento dei beni destinati al primogenito o a coloro che erano destinati ad assicurare la continuità biologica ed economica della famiglia, si perpetua attraverso i secoli.

          Così Marco Antonio Mannacio nel suo testamento, rogato dal notaio Giuseppe Costa il 21 ottobre 1672, assegnava i suoi beni principalmente al primogenito Giovan Francesco e, in misura minore, all’altro figlio Giuseppe, con l’obbligo per entrambi di pagare una dote di 300 ducati ad ognuna delle tre sorelle (Laura, Dianora ed Elisabetta) “per potersi monacare nel convento di Monteleone o [dove]a loro piacerà]; all’altro figlio Domenico “non ha lasciato jure legati né altro, che abbia di pigliarsi il di più che valerà dette robbe”; infine, esortava i figli “a non vendere né alienare robbe furché [...] succedesse occasione di ricatto, di banditi o di Turchi o per discarico di dette dote e peso di dette sue sorelle ovvero per discarico et occasione pertinente alla detta eredità”.

          Più articolato è il testamento di Tommaso Mannacio, rogato il 20 marzo 1739, dal notaio Francesco Corrado di S.Nicola da Crissa.[17] Infatti il Tommaso, dopo aver nominato il figlio primogenito Nicola (nato il 20 febbraio 1712) erede universale, “sopra tutti li suoi beni mobili, stabili, denari, oro, argento [...] e sopra tutto ch’ha, tiene e possiede, li può aspettare e competere, dedotte le porzioni di legittima, che de jure li spettano alli suddetti sig. Pietro Francesco e Marco Antonio”, e stabilito che l’erede istituito “debba stanziare e ritenere il suo domicilio nella Terra di Francavilla da dove depende la loro famiglia Mannacio durante la vita di Donna Giulia Bono madre e moglie respettiva”, pena la perdita dei diritti ereditari, istituiva un fedecommesso, che collegato al principio del maggiorascato, escludeva le donne dalla successione ereditaria:

 

morendo esso sig.re Don Nicola senza figli maschi, ma con sole figlie femine, queste non abbiano da succedere se non che nella sola dote di pareggio e tutti li beni siano del sudetto Marco Antonio eredi e successori d’esso mascoli per fidecommesso speciale, accioché sempre gli [sic] beni si conservino e siano della famiglia Mannacio [...] e l’istesso si senta se il sudetto sig.re Don Nicola lasciasse figli maschi e quelli morissero senza descendenti di linea mascolina, di modo che sempre li figli sudetti di detto testatore succedano l’uno all’altro, e l’altro all’altro durante il ceppo, casa e famiglia Mannacio [...] et ad estinzione de’mascoli [...] abbiano da succedere le femine e così s’abbi d’osservare in perpetuum et in futurum.

 

          L’estensione del codice napoleonico del 1804 al regno di Napoli abolì molti istituti quali il maggiorascato, il fedecommesso e ridimensionò la forte asimmetria fra i sessi. Fra le norme che hanno avuto conseguenze particolari è quella relativa alla successione ereditaria: per la prima volta le donne hanno avuto accesso ad una quota del patrimonio familiare. La prosecuzione del sistema che privilegiava il rapporto cognome/patrimonio è realizzata attraverso la formula “avanzi parte”, cioè il testante assegnava a chi era destinato ad assicurare la continuità biologica della famiglia una quota di beni svincolati dalla divisione ereditaria.

          Il 14 settembre 1838, Scipione Mannacio al notaio Giovan Francesco Palmarelli, che trascrisse le sue ultime volontà, dichiarava che il fondo Pezzullo doveva essere assegnato a titolo di ante parte a quello “de’ tre miei figli Vincenzo, Fabrizio e Annibale che si caserà e dovrà formare famiglia”, e per evitare contrasti e dissapori esortava tutti i figli Giuseppe (sacerdote), Vincenzo, Fabrizio, Annibale, Marianna, Maria Concetta e Rachele a

 

essere uniti e formare se fosse possibile una sola famiglia, perché il regno diviso si desola. Questa è la mia ultima volontà che voglio e l’intendo che si esegua seguita la mia morte.

 

Nel giro di 48 ore fu fatta la scelta di chi doveva assicurare la continuità biologica della famiglia. Infatti, il 16 settembre 1838, Scipione Mannacio rinnovava il suo testamento per precisare che il fondo Pezzullo andava a Vincenzo poiché “deve formare famiglia”. Nelle nuove disposizioni veniva, comunque, precisato che in assenza di eredi o nel caso che Vincenzo “non volesse o non potesse casarsi e formare egli famiglia in tal caso voglio che il medesimo dritto [...] passi gradatamente agli altri miei figli Fabrizio e Annibale”.[18]

          Vincenzo Mannacio si unirà in matrimonio con Maddalena Sodero l’anno successivo.

          La scelta del coniuge non era lasciata al caso, ma rispondeva a esigenze precise, perché osserva il Tranquillo “l’albero di qualunque famiglia, quando a tronchi d’oro di nobili famiglie innestato, diviene più luminoso”. Infatti, nella strategia matrimoniale dei Mannacio l’endogamia si alternava all’esogamia.

          L’endogamia derivava dalla necessità di rafforzare e di consolidare i legami con le altre famiglie del notabilato locale (Ruffo, Stella, De Cunis, Solari); l’esogamia dalla necessità di allargare al di là dei ristretti confini di Francavilla i rapporti familiari, la rete di alleanze.

          A tal proposito il Tranquillo scrive:

 

farò qui solamente raccordo di due personaggi: l’uno fu il regente Burgos in Napoli, uomo grande, nobilissimo, riverito di questo regno, il quale fu di V.S. Ill.ma consanguneo. L’altro fu il dottor D. Antonio Bono, della Regia Città di Stilo, nel cui nobilissimo seggio sta ella registrata [...] è figlia D. Giulia Bono la quale è vostra moglie.

 

Dal matrimonio tra Tommaso Mannacio e Giulia Bono deriva il ramo dei Mannacio di S. Nicola da Crissa. In quella cittadina e nei centri vicini (Pizzoni, Monterosso, Pizzo, Vallelonga) la famiglia Bono-Martini aveva un cospicuo patrimonio fondiario e immobiliare e il jus patronato delle cappelle del SS.mo Rosario, del Carmine, di S.Maria dell’Itria erette nella chiesa parrocchiale.[19]

          Un altro aspetto che si deve sottolineare è il valore e il ruolo che i Mannacio riconoscevano e attribuivano alla cultura. Il Tranquillo ricorda i “dottissimi scritti” di Pietro Francesco Mannacio e di Giuseppe Mannacio “de quali siamo stati estimatori meritevoli di godere, a raggi di sole, splendori d’eternità, onde co’lumi dell’erudizione abbagliarono gli occhi più prespicaci de’Letterati, e perciò in questa nostra provincia, furono di legali dottrine, come prodigi, applauditi”.

          Tuttavia, il documento che permette di conoscere il tipo di cultura, la letteratura preferita in casa Mannacio è il citato inventario del 1740, dove sono elencati i libri di Tommaso Mannacio, conservati nel palazzo di Francavilla.

          L’elenco, purtroppo, ha una grave lacuna; infatti, l’estensore si è limitato a segnare l’autore e il numero dei “tomi”, ma ha tralasciato altri utili dati: il titolo del volume, il luogo e l’anno di edizione; tutto ciò rende impossibile la precisa identificazione dei testi, tranne per alcuni. Ad esempio della Filosofia morale derivata dall’alta fonte di Aristotele, scritta da Emanuele Tesauro, è impossibile stabilire l’edizione, perché quell’opera è stata più volte pubblicata nel corso del ‘600 e ‘700.[20] Così è ardua l’identificazione delle Lettere di Bernardo Tasso, tomo uno, si potrebbe, infatti, trattare di una edizione cinquecentesca de Li due libri delle lettere di M. Bernardo Tasso intitolati a mons. D’Arcos, oppure di un libro pubblicato a Padova nel 1733 dal titolo Delle lettere di M. Bernardo Tasso accresciute, corrette e illustrate con la vita dell’autore scritta dal sig. Antonio Federico Seglazzi e con la giunta dei testimoni più notabili.

          La biblioteca, che rappresentava un segno di distinzione sociale e culturale in un ambiente dove l’analfabetismo regnava sovrano, era costituita da 89 volumi di argomento religioso (Vita di S. Giuseppe, tomo uno; Vita di S. Brigida, tomo uno), giuridico (Gian Giacomo Martini, Consiliorum sive responsarum juris (...) volumen primum, Sancti Nicolai, apud Jo.Baptistam Russo et Domenicum Jezzum, 1635; Mario Cutelli, Tractationum de donationibus contemplatione matrimonii aliisque de causis inter parentes et filios factis, Venezia, Bertoni, 1661; Le communi opinioni di alcuni juris consulti, tomo uno), storico-geografico (Ilario Tranquillo, Istoria apologetica dell’antica Napitia, Napoli, Carmine Pategna, 1725; P. Elia Amato, Il terraqueo sotto l’occhio della geografia storica, Napoli, G. Muzio, 1728), Filosofico: la filosofia morale e un'altra opera del Tesauro. Numerosi erano gli autori classici Giulio Cesare, Ovidio (Le Metamorfosi), Cicerone (Le orazioni), Ennio, Seneca (Le Lettere), Tito Livio. Gli umanisti erano rappresentati dal Boccaccio, probabilmente con il suo Decameron.

          Infine, è opportuno ricordare che il Tranquillo, per ricostruire la storia di Rocca Angitola e di Francavilla, ha utilizzato e impiegato in modo strumentale sia deduzioni sillogistiche, sia fonti documentarie. Infatti, la Reintegra del conte Carlo Sanseverino, così come è riportata dal Tranquillo, non riproduce l’insediamento urbano e la situazione demografica dell’anno 950 nella vallata dell'Angitola, piuttosto quello del 1474:

 

Nel celebre, e famoso Archivio dell’Eccellentissimo Principe di Mileto, esistente dentro il suo palaggio nel Pizzo, v’è una Reintegra scritta con licenza di Ferdinando d’Aragona Re di Napoli nell’anno 1474, nel qual tempo era Conte di Mileto Carlo Sanseverino. In tal Reintegra leggesi, che la Rocca Angitola avea sotto di se dieceotto casali, per essere il suo territorio assai grande; indi appaiono registrati i loro nomi così: Braccio, Staradi, Pimene, Santo Sidro, Aporono, Chirofono, Macheradi, Casalenovo, Santo Nicola, Filogaso, Santo Stefano, Scanathorio, Pronia, Maroni, Capistrano, Carthopoli, Santo Foca e Clopani [...]. Inoltre leggesi che li tre casali chiamati Carthopoli, Santo Foca, e Clopani fabricarono Francavilla, e vi concorsero pure a tale edificio altre persone degli altri menzionati luoghi.[21]

 

          Inoltre, se è storicamente accertato che le incursioni saracene del IX e X secolo causarono alle popolazioni calabresi lutti e rovine, non si può trascurare che l’ipotetica distruzione di Crissa nel 950 è indicata e sostenuta attraverso un ragionamento sillogistico:

 

E perché nell’anno 950 del mondo redento avvennero l’universali rovine della Calabria, cagionate da’Saraceni, come attestano Barrio, Marafioti, e Fiore per conseguenza nell’anno medesimo restò quasi distrutta la Rocca Angitola, ed altresì rimasero quasi rovinati l’annoverati dieceotto casali.[22]

 

          Un altro sillogismo è utilizzato per stabilire la fondazione di Francavilla:

 

Ora essendosi provato colla verissima testimonianza della citata Reintegra, che i fondatori di Francavilla furono le genti di Carthopoli, di Santo Foca, e di Clopani, ed altre persone delle numerate abitazioni, e parimenti essendosi dimostrato con Barrio, Marafioti, e Fiore, che l’universali rovine della Calabria, e per conseguenza della Rocca Angitola, e de’suoi dieceotto casali, avvenero nell’anno 950 di nostra salute, è chiarissima la conseguenza, che Francavilla fu fabricata nell’istesso anno novecento cinquanta.[23]

 

          Se è legittimo avanzare delle riserve sul modo in cui il Tranquillo redige l’atto di nascita di Francavilla, è altrettanto doveroso riconoscere che il valore storico della Dedica risiede in quelle pagine ove sono descritte la struttura urbana di Francavilla, le condizioni economiche e sociali, le tradizioni e le strutture religiose di quella comunità, soprattutto se queste informazioni vengono confrontate con le sommarie e generiche notizie riferite, sul medesimo argomento, dal Barrio, Marafioti e Fiore:

 

 ed accioché fosse loro luogo di rifugio, e di sicuro ritiro, la fabricaron a foggia di fortezza per difendersi da nuovi assalti de’Saraceni, quindi è, che la circondarono con fortissime mura, tra cui inalzarono sette Torri, l’una è appresso Porta Reale, l’altra che sino al presente conservasi, Torre dello Spirone s’appella, e dell’altre, veggonsi le vestiggia; siccome in alcune parti della Terra, anche oggedì appariscono le vestigia d’una strada coperta, per cui da una torre all’altra, i difensori scorrevano.

La munirono di un Castello[24] ben forte, avendo fabricato all’intorno del medesimo due torri, e parimenti lo fortificarono con un ponte grande, e con molti cannoni, di cui si veggono oggedì i luoghi, essendo stati quelli già trasportati al Pizzo.

La chiusero con quattro Porte, di cui una è nomata Porta Reale, l’altra s’appella Porta di Monacio, dal volgo oggi detta di Monace; vien chiamata l’altra Porta di Basso, che di presente si vede, e per lei, come per Porta Reale, e Monacio s’entra, e finalmente v’è l’altra sotto il Castello nominata Portella;  fuori delle mura v’è un Borgo, copioso d’abitatori, il quale è situato all’incontro del prenominato Castello da cui veniva difeso. [...] ed inoltre è anche oggedì bellissima abitazione, e degna di lode, si per il suo amenissimo sito, si per l’aria molto salutifera, si per l’acque fresche, e salubri, si per le varie cacciagioni di diversi uccelli, e di fiere, si per copia, e diversità de’ frutti, si per il numero di più venerabili chiese,[25] e di tre monisteri di cui l’uno è assai famoso, ed è dell’Ordine di S. Agostino,[26] nella cui chiesa tre quadri s’ammirano, l’uno della Santissima Trinità l’altro della Madonna degli Afflitti, e l’altro di S. Nicola di Tolentino, tutti e tre fatti dall’impareggiabil pennello del Romanelli; adorna inoltre questo convento l’eruditissimo padre maestro Agostino Accetta, nato in Francavilla, e famosissimo teologo. L’altro monistero è di S. Domenico,[27] e’l terzo è de’Padri Riformati di S. Francesco,[28] e in tutti vi fioriscono varj personaggi degni d’altissima stima, nati in Francavilla, religiosi di vita esemplare, gran maestri e predicatori eloquentissimi.

          Parimenti è Francavilla degna d’encomj per la grande divozione delle genti al loro Protettore Santo Foca, di cui una reliquia conservasi dentro la statua del Santo, ch’è nella parocchia, la quale è servita da due RR. Parochi, veramente degnissimi d’ogni stima per più capi, che per brevità tralascio. Quindi nel festivo giorno del Santo si fa una sollennissima processione, con edificazione, e varie dimostrazioni delle prossimane abitazioni, come osservai negli anni passati, mentre predicando io nella Quaresima, nel marzo narrai la vita mirabile del Santo.

          Insomma è Francavilla abitazione grande, illustrata da molte famiglie nobili, ornata da teologi, dottori di legge, e di medicina, e l’ha dato grande onore, e gran nome Gio. Matteo Mileto,[29] raccordato da Fiore nella sua Calabria Illustrata, ove parla di Francavilla. Inoltre ella è onorata da persone civilissime, e da più artefici, e vi sono pure in essa molti altri che faticano nelle campagne; onde v’è copia di grani, legumi d’ogni sorte, ogli, vino, ed ogn’altra cosa necessaria al viver umano, e si fa copia di seta.[30]

 

 


 

* Pubblicato in «Calabria Sconosciuta» (Reggio Calabria)  XVI, aprile-giugno 1993, pp. 75-79.

[1]  Sul mito delle origini cfr M. Bloch, Apologia della storia, Torino 1981, p. 43.

[2]  G. Greco, Rocca Angitola, Vibo Valentia 1985.

[3]  G. Manfrida, Capistrano, Soveria M. 1987, p. 21.

[4] I. Tranquillo, Istoria apologetica dell'antica Napitia, Napoli 1725.

[5] Ivi.

[6] Ivi.

[7] Archivio di Stato di Catanzaro (ASC), Regia Udienza, cart. 348/12.

[8] Pelaia, Struttura economica nei vicariati di Francavilla e Filadelfia nell’età moderna, in "Incontri Meridionali", n.s. 1/1988, p. 156.

[9] Archivio di Stato Lamezia Terme (ASLT), notaio Francesco Antonio Facciolo, 10 gennaio 1666.

[10] ASC, Cassa Sacra, Segreteria Ecclesiastica, 3/46/1787, Platea della chiesa di S. Foca elaborata nel 1702 dal rev. D. Domenico De Cunis.

[11] I.Tranquillo, cit.

[12] ASLT, Notaio Giuseppe Antonio Rondinelli, 26 febbraio 1775.

[13] ASLT, Notaio Nicola Bruni, 12 maggio 1782.

[14] I. Tranquillo, cit. Che la famiglia Mannacio avesse il sepolcro nella chiesa del convento dei domenicani è confermato dal testamento di Marco Antonio Mannacio, rogato dal notaio Giuseppe Costa il 21 ottobre 1672, dove si legge: “eius corpus cadaver sepellictum intus venerabilem ecclesiam SS.mae Annunciationis dictam terram in sua sepoltura ante cospectu SS.mi Rosarij ubi sepulti fuerunt omnes suos antecessores”. Errata si deve, comunque considerare, la data 1519, riportata dal Tranquillo, perché il convento dei domenicani fu fondato nel 1545, a meno che non si accolga l’ipotesi di un refuso tipografico (1619) o quella di considerare la chiesa preesistente al complesso religioso. Cfr. F.Accetta, I conventi domenicani nella diocesi di Mileto, in “Calabria Letteraria”, aprile-giugno 1990, pp. 43-46.

[15] I.Tranquillo, cit.

[16] Archivio di Stato di Vibo Valentia (ASVV), Notaio Francesco Paolo Pappalo, inventario dei beni di Tommaso Mannacio, 19 febbraio 1740.

[17] ASVV, notaio Francesco Corrado, 20 marzo 1739.

[18] ASLT, notaio Giovan Francesco Palmarelli, 16 settembre 1838.

[19] ASC, Regia Udienza,cart. 277, fasc. VIII

[20] L’opera del Tesauro ebbe diverse edizioni: Torino, Bartolomeo Zarpata 1670; Venezia, Nicolò Pezzana 1671, 1673, 1688, 1703; Macerata, Giuseppe Piccini 1672, 1675, 1681; Venenezia Giuseppe Prodocino 1685, 1701; Napoli tipografia Antonio Paci editore Adriano Scultese 1673.

[21] I. Tranquillo, cit.

[22] Ivi.

[23] Ivi.

[24] Il castello fu trasformato in chiesa dopo il terremoto del 1783; una delle torri è parte integrante dell’abside della chiesa di S. Foca. Cfr. F. Accetta, Il terremoto del 1783 a Francavilla Angitola descritto dal notaio Nicola Bruni, Vibo Valentia 1987.

[25] A Francavilla nel 1725 esisteva la chiesa parrocchiale di S. Foca e sei chiese filiali: S. Maria delle Grazie, S. Pietro, S. Sofia, S. Maria degli Angeli, S. Nicola, S. Giovanni Battista.

[26] ll convento è quello di S. Maria della Croce la cui data di fondazione è incerta. Nella relazione del 1650 si legge: “non si sa certo l’anno che fu fondato bensì il suffitto antico della chiesa fu fatto l’anno 1521, come sta nella tabella”.

[27] Il convento è quello di S. Maria dell’Annunziata fondato nel 1545.

[28] Il convento di S. Francesco fu fondato nel 1621.

[29] Matteo Mileto era un frate agostiniano che ricoprì all’interno dell'Ordine incarichi di primo piano: fu priore per diversi anni di S.M. della Croce e vicario generale della congregazione degli zumpani. La statua di S.M. della Croce, attualmente custodita nella chiesa del Carmine a Filadelfia, fu commissionata dal Mileto nel 1542 allo scultore messinese Mazzolo.

[30] I.Tranquillo, cit.

 

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