INTERVENTO
DELLA DOTT. /SA SONIA VAZZANO
Quando si
cerca di preparare una presentazione di un libro come questo, ci si
interroga sempre su cosa dire all’inizio, perché sia chiaro da
subito agli ascoltatori chi sta parlando o qual è il percorso e la
scansione che si cercherà di seguire.
Io, vi dico da subito, che non procederò così.
Non ho percorsi, né scansioni da offrirvi nella mia lettura dì
queste pagine. Vorrei solo raccontare emozioni: quelle che ho
vissuto io leggendo questo libro e quelle soprattutto che ho
immaginato fossero vive, sia nei protagonisti di queste pagine sia
nell’intento dell’autore delle stesse.
Due cose mi hanno colpito in questi ultimi giorni, mentre cercavo di
capire cosa mi sarebbe piaciuto di più dirvi e proprio da queste
cercherò di partire.
Solo che la prima ve la dirò subito, mentre la seconda me la riservo
per la fine di questo intervento.
E allora la prima è l’esplicita richiesta che l’ingegnere Davoli mi
ha fatto per questa
presentazione: mi ha chiesto di parlare delle donne che hanno
vissuto la guerra; che non l’hanno vissuta sui campi di battaglia
tradizionali, ma comunque sempre su veri campi di battaglia.
Perché è vero che c’è una guerra che gli uomini combattono in prima
persona (e ora a dire il vero anche le donne...), ma c’è anche la
guerra dell’attesa silenziosa, ma operante di chi i propri cari ce
l’ha nel cuore, e rimane a casa, mentre li vede partire, senza poter
far nulla. Senza sapere se li vedrà mai tornare, se potrà
riabbracciarli, se conserveranno tra gli spari e le bombe il ricordo
di una vita condivisa.
E allora alla richiesta di Davoli rispondo con la mia personale,
credo, lettura un po’ trasversale di queste pagine, che va al di là
delle righe che ho letto e che cerca di intrecciare spazi e tempi
che non sono forse così espliciti o esplicitati.
E per questo comincio subito dalla nascita di questo libro. Che
secondo me coincide un po’ con la traccia del mio intervento di
questa sera.
Non so se Davoli ci ha mai pensato, o se se l’è mai chiesto
veramente: ma queste pagine quando sono venute alla luce?
Io credo, quando l’autore, aveva appena 8 anni...
Ce lo racconta del resto lui stesso mentre parla della famiglia Meo.
Il signor Giuseppe, ferroviere amico del papà, e la signora
Giuseppina.
In uno dei suoi soggiorni presso questa famiglia di Paola, Davoli,
in un pomeriggio, rimase stupito nell’osservare proprio Giuseppina,
inginocchiata e assorta, in muta preghiera, di fronte ad una
mensola, sulla quale era posata una lampada ad olio, la cui
fiammella rischiarava un grande ritratto di un giovane in divisa da
ufficiale. Era quello del figlio della famiglia Meo, Giorgio,
sottotenente crotonese morto a Cefalonia.
E quella lampada, di cui parlava Davoli, mi ha fatto pensare ad
un’altra lampada ad olio, che c’è in questo libro, e dalla quale
vorrei partire. E’la lampada attraverso la quale si descrive il
ritratto di una donna, Teresa, che un poeta francavillese,
Vittorio Torchia, ci ha regalato in alcuni suoi versi, peraltro
ricordati dallo stesso Davoli, dal titolo La casa di Teresa:
«Due ante di ulivo seccate /e l’architrave pur esso / d’ulivo / la
casa di Teresa chiudono. /
Se tiri una nocca annodata / si spalanca la porta / e un mondo ai
vetri / della cristalliera vibra./
Ritratti di giovani e vecchi, / moderni ed antichi, / di vivi, di
morti, di sposi, / di bimbi, e di soldati caduti illuminati / da una
lampa accanto. /
La lampa d’olio d’oliva / ancora trattiene / le rare illusioni / di
Teresa già vecchia / e minuta».
Ho scelto questi versi, perché mi ha commosso molto la figura di
Teresa. Ve la racconto brevemente. E’ una “ragazza madre”. E già
questa è una situazione che in un piccolo paese della Calabria
poteva fare notizia a quei tempi, e forse anche ora... In guerra
perde suo figlio Vincenzo, che non avendo un padre, assume come
cognome, Russo, che è quello di sua madre. Ma Teresa non è solo una
madre. Sul Carso, ad esempio, perde anche suo fratello, Vincenzo, e
in Grecia, probabilmente, suo genero.
Teresa cosa rappresenta quindi per noi?
Io la definirei come la terza dimensione di queste pagine. E mi
spiego.
Alle coordinate dello spazio e del tempo che fin da subito sono
chiare in un libro come questo si unisce una terza dimensione, che è
quella di uno spazio senza tempo, se volete, o di un tempo senza uno
spazio.
Non so se i fisici o i matematici sarebbero d’accordo con un
linguaggio di questo tipo, ma è ciò a cui ho pensato da subito
interrogandomi sulla figura delle donne che “accompagnavano” nei
loro percorsi i militari in guerra.
E vorrei parlarvi di esse attraverso tre linguaggi metaforici
diversi che le donne ritratte in queste pagine utilizzano per
raccontare di se stesse e della vita dei loro cari: questi linguaggi
sono l’immagine,
la parola/lettera e la preghiera.
Un’immagine mi si è stampata subito nella mente: quella di Barbara,
sorella di Domenico Farina. E’ una sorella che vede partire il
proprio fratello per la guerra, con il suo zaino carico sulle
spalle, allontanandosi a piedi per prendere il treno nella vicina
stazione di Francavilla.
Cosa c’è nello sguardo carico di distacco di Barbara?
Paura, commozione, trepidazione, angoscia, speranza...
Sicuramente tutte queste cose insieme.
Ma di questa donna sapete cosa colpisce di più: il desiderio di
mantenere vivo il ricordo.
Ma quale ricordo?
Certo, del fratello ci dice di custodire nel cuore i toni della
voce e le care sembianze; ma, sapete, il suo sforzo a che cosa è
davvero rivolto?
Ai suoi figli: perché ricordino lo zio partito per il fronte.
E allora, cosa fa? Fa preparare ad un fotografo uno di quelli che
noi oggi chiameremo fotomontaggi e che ciascuno di noi un po’ abile
con Photoshop può preparare anche da sé: prende una foto di suo
fratello e la fa incastonare tra una sua foto e una della moglie.
Non che serva una foto per mantenere vivo il ricordo, ma di certo
una fotografia è una condivisione per chi come noi non vive in prima
persona una situazione, e che vogliamo rendere comunque partecipe
dei nostri sguardi. E del nostro cuore, in ogni cosa che guardiamo.
Barbara attraverso l’immagine preserva il ricordo del fratello.
E che l’immagine, come linguaggio fosse così importante, lo capiamo
anche dalla consuetudine di qualche militare al fronte di spedire
una sua fotografia alla moglie, perché i loro figli potessero vedere
com’era fatto, visto che non lo avevano mai conosciuto.
Questo per farvi capire come le donne utilizzino l’immagine per
comunicare i propri sentimenti.
Ma dalle immagini, dalle fotografie, è possibile anche capire
qualcosa di più di queste donne?
Io credo di sì.
Dalle fotografie che Davoli pubblica nel suo libro c’è ad esempio
quella della famiglia del soldato Peppino Lazzaro in cui si svela da
subito il ritratto della figlia.
Che, morto il padre, prende in carico tutta la famiglia.
Bada ai due giovani fratelli, si occupa delle faccende domestiche,
esegue lavori di cucito, maglieria e ricamo (impegna perfino tutti i
suoi averi per comprare una mitica Singer, la macchina da cucire che
le darà da vivere), lavora nei campi. Fa, insomma, tutto quello, e
anche di più, di ciò che un uomo in genere fa. E si vede che è una
donna super...
Poi c’è il secondo tipo di linguaggio metaforico, dal quale
possiamo capire qualcosa di più di queste donne, che è quello della
parola, della scrittura.
E qui sarebbe stato bello, ma forse quasi impossibile, recuperare le
lettere che le donne scrivevano ai militari al fronte.
Cerchiamo però di intravvedere un po’ di quei contenuti in ciò che
gli uomini scrivevano. Quando parlavano del loro senso del dovere,
dell’anelito di ogni buon combattente, degli sfoghi per la vita
militare, dura e a volte anche noiosa, della speranza per il
ritorno.
La cosa che colpisce di più è che nella scrittura alle loro donne,
fossero madri, mogli, sorelle, figlie..., i militari al fronte
ritornavano bambini, si scoprivano poeti, diventavano grandi uomini.
Non perché la guerra li rendesse grandi, ma perché nel racconto di
quella loro grande esperienza riscoprivano se stessi, il senso vero
delle cose, della vita e soprattutto della fede.
Sentite cosa scrive ad esempio Pasquale Scalese nella sua ultima
lettera alla mamma Caterina:
«Iddio ci ha separato per tanto lungo tempo, ma Lui stesso penserà a
riunirci facendoci dimenticare quel giorno in cui amaramente ci
separammo. Vi penso sempre e sperando di potere ricevere almeno
qualche vostro scritto bacio mio figlio e mia moglie e a te chiedo
la santa benedizione».
Si parla in diverse lettere di questa “santa Benedizione”. E viene
subito da pensare che la profondità di sentimenti e la delicatezza
d’animo di uomini che spesso erano operai, o contadini..., veniva
fuori proprio nel pensiero rivolto ad una donna. E qui i poeti del
Duecento e del Trecento sorriderebbero se ci ascoltassero, convinti
di quanto già e più volte avevano ripetuto nei loro versi.
E ancora, in una sorta di lettera-diario indirizzata a sua madre,
così si esprimeva Antonio Muzzì:
« E’ dolce sognare di morire fra le tue braccia, mamma».
Gli uomini poeti. La guerra faceva di uomini duri e il più delle
volte analfabeti uomini capaci di riflessione interiore profonda.
Perché spesso parliamo di maturità che cresce sui campi di
battaglia, in un contesto in cui ci si sente “tutti uguali”, perché
la guerra forse ci rende un po’ così, ma in realtà non è davvero
cosi.
E anche i soldati lo sapevano.
Lo sapeva Giovanni Battista Limardi, il poeta di queste pagine che
scrive con una dote che non è comune a tutti:
Così si rivolge alla madre:
«Mamma t’ho sognato... t’ho vista vecchia, sì... ma bella come una
fata, la ruvida fronte ti bacio».
E alla sorella scrive:
«Da tanto lontano, il mio pensiero a te è rivolto; vedo la tua bella
mano; rimango pensieroso, con le lacrime nel volto... Un solo
pensiero mi offusca la mente; se ritorno per quel sentiero ove uniti
trascorrevamo, sempre... Tu per mia parte da’ animo alla Mamma;
assicurala di certo che il fratello tuo... Ritorna... Ritorno... per
non allontanarmi più, finché Iddio non mi chiama per unirmi con mio
fratello che sta lassù... Ma come quaggiù... così lassù prego per
te, con fraterno amore, che ti amo di più...».
Le nostre donne sono madri, mogli e poi vedove, figlie.., e se anche
sembra che si scriva più alle madri che alle mogli... in realtà si
sta scrivendo alle donne. E basta. A chi rende la vita, anche quella
in guerra, una vita diversa. Perché si sa, una casa senza una moglie
o senza una madre, non è una casa completa. E forse ancor di più
lontano da casa lo si sperimenta.
E mi viene qui da pensare ad una canzone che piaceva tanto a mia
nonna e che mia mamma mi cantava spesso, che diceva:
«Mamma, son tanto felice, perché ritorno da te».
Le parole non sono però solo quelle scritte, ma anche quelle
ascoltate...
Uno dei momenti che sicuramente queste donne avranno vissuto in
prima persona sarà stato l’arrivo delle notizie dei militari al
fronte. In alcuni casi erano notizie buone, nella lettura ad esempio
delle liste dei deceduti in cui si sperava sempre di non udire il
nome dei propri cari; in altri casi però le notizie delle morti,
specie in combattimento, arrivavano presto a Francavilla, come ci
racconta Davoli.
E alcune volte poteva succedere anche la cosa più spiacevole di
tutte: che le donne fossero sole in casa ad accoglierle.
La notizia della morte di Vincenzo Attisani, ad esempio, avvenne
proprio così. Nessun uomo era in casa, che potesse essere di
sostegno e di conforto per la mamma Barbara, e per le sorelle Annita
e Vittoria, e per la cognata Carmela, in quel momento in cui per la
prima volta forse sperimentavano l’abbandono e lo smarrimento,
nuovamente, dopo la partenza. Sapendo della morte del loro caro.
E in questi casi si faceva vivo da subito il desiderio di riavere
almeno fra le braccia le spoglie dei loro cari su cui piangere. Se
anche non bastava. E non c’era consolazione per tutta la vita, come
in chi decideva di voler vestire sempre di nero in segno di rispetto
per il proprio caro caduto in battaglia.
E ancora oggi, a Francavilla, quelle donne, vestite di nero, ci sono
ancora...
Altre volte, poi, se anche la notizia veniva riferita ai familiari
con tatto e cautela speciali, lasciava comunque un segno. La morte
di Foca Attisani, per esempio, fu accolta dalla moglie Barbara al
terzo mese di gravidanza; i suoi figli, uno di 3 anni e uno di 6
rimasero attoniti, la madre non si riprese quasi più e la stessa
moglie nella sua abitazione osservò, ci racconta Davoli, un mese di
lutto stretto sciogliendo la chioma dei capelli, disarmando il letto
matrimoniale, staccandone testiera e pediera, poggiando i materassi
sul pavimento.
Ma la vita continuava, e sei mesi dopo la morte del marito, Barbara
partoriva il suo terzogenito.
E allora, che cosa rimaneva, nei cuori di questi uomini al fronte e
di queste donne nella battaglia di ogni giorno, in una vita dura, da
sole, senza padri, mariti e figli...
Forse, rimaneva solo la speranza, che nasceva dalla preghiera. La
devozione alla Madonna delle Grazie, per esempio, accompagnava tanti
dei militari francavillesi in guerra. Davoli ci racconta di
affidamenti speciali di ogni uomo alla Vergine di quella chiesa ai
piedi del paese, prima di partire, e di come le mogli custodissero
nel cuore e raccontassero ai loro figli quella grande devozione che
li svelava piccoli, eppure così grandi.
A Francavilla, ancora oggi, quella Madonna delle Grazie è al centro
della venerazione di molti fedeli.
E qualche volta, quando nella memoria non rimaneva nulla, come per
esempio nel caso di un soldato di fanteria chiamato Domenico Maida,
nessuna notizia e nemmeno la moglie Maria ne aveva mai avute e di
lui ricordava solamente che era partito con il suo reggimento dopo
appena un mese di matrimonio, senza che le fosse comunicato il luogo
in cui era stato inviato, il pensiero andava a quei santini che i
combattenti portavano con loro in battaglia, e che spesso ritraevano
quella Vergine delle Grazie alla quale chiedevano la speranza di un
ritorno.
E allora non stupisce come don Gnocchi nel suo libro Cristo con gli
alpini indirizzasse agli italiani che presero parte alla campagna di
Russia l’esclamazione:
«Dio fu con loro ma gli uomini furono degni di Dio».
E non colpisce neanche che sulla tomba di un soldato ignoto, ci
fosse incisa la frase, che Davoli riporta:
«Ogni mattina, mamma, ed ogni sera io sento l’eco della tua
preghiera!».
E allora immagine, parole, preghiera.
Sono i segni delle donne che combatterono accanto ai loro uomini la
Seconda Guerra Mondiale.
Le donne di ogni posto del mondo. Ma quelle che oggi celebriamo sono
le donne di Calabria.
Le donne di una terra in cui, nonostante le difficoltà, fioriscono
ancora emozioni.
Le donne di una terra che una
persona una volta mi ha descritto così in un dono di ascolto della
mia realtà, della realtà che ho vissuto da figlia adottiva e che nel
bene e nel male mi ha segnato, e della quale sono frutto anch’io,
che stasera vi regalo, concludendo questo mio intervento.
«Cosa mi colpisce della Calabria? Il blu intenso del mare. La
cordialità delle persone. I silenzi ruvidi della gente semplice. Gli
odori della natura ancora selvatica che ha in sé maternamente la
vita e la morte».
In quella maternità, fatta di vita e di morte, ci stanno le donne
che hanno vissuto la guerra come gli uomini. Quelle che la vivono
ogni giorno. E quelle che da ogni guerra danno agli uomini la forza
per ricominciare. Anche dalle ferite
E allora ringrazio l’autore di questo libro perché mi ha dato
l’opportunità di raccontare, da donna, pagine di guerra che in
genere non sono solo pagine di uomini, ma solo pagine di vita. Di
uomini e donne insieme.
ROMA 23 NOVEMBRE 2012
DOTT./SA SONIA VAZZANO
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