Benvenuti nel sito di Giuseppe Pungitore, dell'ing. Vincenzo Davoli, di Mimmo Aracri ed Antonio Limardi, punto d'incontro dei navigatori cibernetici che vogliono conoscere la storia del nostro meraviglioso paese, ricco di cultura e di tradizioni: in un viaggio nel tempo nei ruderi medioevali. Nella costruzione del sito, gli elementi che ci hanno spinto sono state la passione per il nostro paese e la volontà di farlo conoscere anche a chi è lontano, ripercorrendo le sue antiche strade.

IL PAESE DELLE CAPANNE  SUL MARE

 

QUANDO D’ ESTATE SI EMIGRAVA  SULLA  SPIAGGIA  -  A FRANCAVILLA ANGITOLA  DOVE TUTTI SI CHIAMANO  COME IL SANTO PATRONO

Nell' estate del 1982 mi recai a Francavilla Angitola, un paese a pochi chilometri dal mare, in­vitato da uno studente universitario che, come me, fre­quentava l'università a Firenze. II paese non mi colpì più di tanto: una popolazione essenzialmente anziana,che lasciava supporre un  alto tasso di emigrazione, in diversi  seduti davanti le porte di casa a sonnecchiare in pieno giorno, poche macchine  in giro. Un po' mi incuriosì il  monumento ai caduti: c'era  una  sfilza di soldati che si chiamavano ­Foca. «Perché San Foca è  il patrono di Francavilla Angitola», mi spiegò il mio amico; così capii la ragione di  quel nome così improbabile , che aveva anche  lui, e che  spesso a Firenze nascondeva  , si faceva chiamare Franco, per evitare di sentirsi dire  «Foca? Ma come Foca? Magari sarà il cognome ,  non  può essere un nome «.  Finito il rapido giro, mi aspettavo  che l'amico mi  portasse a casa, a farmi conoscere  i suoi familiari; a quel punto , però, risalimmo in macchina  e guidò verso il mare. Sulla spiaggia un po' appartata, poco lontano da Pizzo Calabro, vidi una lunga fila di capanne. La maggior parte erano fatte di canne, ma alcune anche di legno. L'amico mi introdusse in una di queste, particolarmente solida anche se aveva il pavimento di sabbia e la porta era  una tenda. Lì c'erano il padre e la madre, che erano due anziani contadini, tutt'altro che spericolati campeggiatori. E poi c'erano i letti: un letto matrimoniale ed un lettino. Con la rete, il materasso e la coperta, di quelle scure a fiori ricamate a mano. C'era un armadio, e la cucina, con la bombola a gas.

La madre mostrò la consueta ospitalità di queste latitudini, prese ad armeggiare con le sue pentole e in poco tempo mi preparò un pranzo delizioso. Poco marittimo, per la verità; a base di pasta e fagioli e pollo con patate. Il marito, che non stava bene e aveva difficoltà a camminare, aspettava tranquillamente seduto sul letto. Quello di cui non riuscivo a capacitarmi, tuttavia, era che queste persone si comportavano come se si trovassero nella loro casa piena di comodità; e invece stavano in una capanna senza servizi igienici, senza acqua corrente, senza elettricità. L’ amico mi spiegò che, insieme al fratello, aveva impiegato tre giorni per costruire quella capanna, l’aveva fatta solida e grande, perché i suoi genitori anziani potessero tranquillamente passarvi l'estate. La costruivano alla fine di luglio, tutti gli anni. E la buttavano giù il primo settembre, velocemente e badando a lasciare la spiaggia pulita. Le pareti di legno, in genere, le conservavano nella casa di paese, per trovarsele pronte a venir montate la prossima stagione. E così facevano la maggior  parte delle famiglie del paese. Era una tradizione che durava da tanto tempo; chissà chi era stato ad iniziarla. Fatto sta che per tutto il mese d'agosto 1'intero paese si trasferiva a  mare, coi letti, i comodini, le cucine a gas e i gioielli di famiglia  da custodire sotto il materasso.

L'acqua da bere si andava a prendere alla fontana. Per lavarsi c'era il mare. Quanto ai bisogni si  usava il  fitto boschetto che sorgeva proprio ­  alle spalle della spiaggia.

 Le famiglie durante il giorno si facevano visita. proprio come avrebbero fatto in paese; con la semplificazione che lì erano tutte in fila, a due passi, e con la  particolare allegria  che era data dalla presenza dei figli emigrati, che lavoravano o studiavano fuori, in Piemonte, in Svizzera, in Argentina, e tornavano per le vacanze.

La sera, poi, si facevano i falò sulla spiaggia. Se ne vedevano quattro o cinque, a una trentina di metri di distanza l'uno dall'altro. E intorno si radunava l'intera comunità. Giovani, vecchi, bambini. Più che altro si parlava, c'era qualcuno che raccontava storie, del passato del presente.    Gli anziani erano quelli che si ascoltavano più volentieri. E poi spesso echeggiavano risate. Intorno a qualche falò si cantava, pure; risuonavano le chitarre. I successi dei Pooh e dei Cugini di campagna si alternavano a canzoni popolari in dialetto. Il vino non mancava mai, forte e aspro, immancabilmente prodotto dalle viti del posto.

Di tanto in tanto partiva il barcone con i pescatori. Ai preparativi partecipava tutto il villaggio. Si scrutavano le luci nel mare, piccole e tremule nella notte. Quando tornavano, in molti si pressavano a guardare quanto grandi e quanto strane erano le creature che erano state catturate al mare.

Quell'anno stavo cominciando a scrivere il mio primo romanzo. Ne avevo  pronto il primo pezzo, una cinquantina di pagine,  che narravano  soprattutto una  storia d'amore finita male e il tentativo di trarre, da quell'esperienza, un senso e una lezione. Lo diedi al mio amico, chiedendogli di leggerlo e di dirmi le sue impressioni. Un paio di sere dopo, ai falò, l'argomento principale era diventato quella mia storia,  e perché Mirella aveva tradito il  protagonista, e come sarebbe giu­sto che la storia continuasse. Io chiesi al mio amico come poteva es­sere successo che tutti conoscessero la mia creazione. Mi disse  che  l'aveva passato a un amico, questi  l'aveva letto insieme alla sua ragazza; e poi era andato a farne delle fotocopie, e le aveva distribuite. Una ragazza  mi  diede un parere sullo stile, sul linguaggio che usavo (allora ero affascinato dai Beat, tendevo a scrivere periodi lunghissimi senza punteggiatura). Ma più che altro parlavano delle ragioni dei personaggi, della loro indole. dei sentimenti nascosti. Io cercai  di   memorizzare tutti i discorsi. Fu  così che a quel punto quel racconto  diventò un romanzo collettivo; non ero io l’ autore, lo scrivevano in tanti , forse si scriveva da solo. Esistono, si sa, i temporali d'estate. Sono improvvisi, violenti; ma poi vanno via presto, e quasi non  lasciano traccia del loro passaggio. Quella volta, però. il vento era davvero cattivo. Una bufera di acqua ed aria si era scatenata  sulla spiaggia, e scardinava senza  pietà i tetti di paglia e di legno. Il mio  amico si preoccupò per   il padre che aveva difficoltà a camminare . Allora se lo caricò sulle spalle,  e  così si avviò, mentre le fascine volavano via e una nube di sabbia si levava  tutt'intorno. Sembrava  una  scena dell’ Eneide , e così mi è rimasta impressa.

Sono tornato su quella spiaggia  una decina d'anni dopo, ancora  in agosto. Ma non trovai più le capanne, né gli anziani, né gli abitanti di Francavilla Angitola. Mi dissero che erano sorti problemi sulla proprietà della spiaggia. E che quell'usanza era barbara, si usava il bosco per  fare i bisogni e così si danneggiava fortemente l'ambiente.

Sarebbe bastato montare un paio di bagni pubblici. Ma si è preferito cancellare una tradizione secolare. Che avrebbe attirato l'attenzione dei turisti ben più dei bar e degli hotel in franchising che hanno conquistato anche le nostre marine.

Il  guaio è che continuiamo a non riconoscere i nostri tesori, e li scambiamo con biglie dì vetro e collane di latta.

 FRANCO  DIONESALVI     -   "IL QUOTIDIANO   DEL 6 MAGGIO 2007"

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Per maggiori informazioni scrivere a: phocas@francavillaangitola.com

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